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Terza
parte
Disegno del castello (da P. Pesce, Montalbano Jonico. Ricostruzione del vecchio castello, in P. Rondinelli, Montalbano Jonico ed i suoi dintorni. Memorie storiche e topografiche, Taranto 1913, tav. tra pp. 14 e 15).
Passiamo ora ad un argomento non meno spinoso, ma vieppiù interessante: la struttura castellare di Montalbano. Come si è già avuto modo di constatare, il Troyli lo descriveva diroccato già nel secolo XVIII. Cosa intendeva l’abate con “diroccato”? Franato per cause naturali, come ad esempio l’erosione del terreno argilloso su cui sorgeva, oppure distrutto dagli abitanti, o meglio ancora diruto solo in parte (come lo stesso abate specifica) per ricavarne materiali di risulta, con i quali costruire altro? E perché, se dovessimo accettare questa ipotesi, solo in parte e non del tutto? Questa è un’ipotesi affascinante. Vediamo cosa riusciamo a estrapolare dalle pochissime notizie pervenuteci.
Se dovessimo propendere per la frana dovuta a fattori esogeni, i presupposti ci sarebbero proprio tutti: il castello sorgeva sulla «Tempa [collina] del diavolo», sperone d’argilla residuo di un’area franata più volte nei secoli, fino ai nostri giorni. Sarebbe interessante consultare eventuali studi sulla conformazione degli strati d’argilla e sulla natura pedologica del terreno per comprendere in che modo le condizioni siano potute mutare in meno di un millennio, o se fossero allora identiche e i diffusissimi fenomeni di smottamenti verificatisi in moltissimi centri del circondario siano da addebitarsi totalmente a danni di natura antropica. Questo è sicuramente il caso di Craco, noto a tutti, dove le infiltrazioni dell’acqua proveniente dalle tubature e dalla cisterna dell’acquedotto fecero in pochissimo tempo i danni che madre natura non sarebbe riuscita a fare in secoli; ma abbiamo preziose testimonianze in proposito per Pisticci, dove, ci informa il Libro negro [1]:
«Alli 13 di giugno 13.a
Indt. Anno Domini 1555 lo dì della vigilia della festa del sacratissimo corpo de nostro S.or Jesu Xsto ad hora ventuna et mezza che all’ora eravamo usciti dalla vespera della major ecclesia […] cascaro a Pisticcio Casalnovo circa ottanta case et molte cisterne che erano in quel circuito: duro questo occaso et ruina circa una hora cascandone gli edifici successivamente […] sia benedetto sempre il S.re nostro non ce patio nessuna anima anchora che se perdessero robe assai: tenesi la cagione esser stata la sorgitura della fontana vulgarmente chiamata la salsa era in la contrata di dette case: et dissero li vecchi che un’altra volta circa 50 anni avanti erano cascate alcune case nella medesima contrada; ma non in quel numero et di quella ruina. Et nell’anno 1688 alli 9 di febbraro cascarono le due parti di detta terra dall’istesso luogo e morirono più centinaia di persone».
Le
notizie sono più che chiare: le infiltrazioni idriche erano la causa degli
smottamenti! E l’ultima frana menzionata fu quella tristemente spettacolare
durante la quale si staccò esattamente (!) dal muro della chiesa madre di
Pisticci l’intera parte del paese che, ricostruita nel preciso punto in cui
andò a finire dopo la frana, fu chiamata “dirupo”. Causa di tutto, dunque,
fu la “sorgitura”, evidente resa grafica del dialetto pisticcese “sciursceture”,
ovvero lo scolo dell’acqua, che andò pertanto a rodere lentamente l’argilla
della collina su cui Pisticci, come Montalbano, sorge.
Prendiamo
in considerazione qualche ipotesi analoga per Montalbano, prima di arrivare a
tempi assai più recenti, per i quali abbiamo testimonianze certe. Addirittura
chi scrive ha ricordi personali dello smottamento che cagionò la perdita
irreparabile di una parte consistente dell’area più antica del Centro storico
di Montalbano, assieme alla tragedia, per molte famiglie, della perdita della
casa, dello sfollamento e della sistemazione “provvisoria” in ambienti degli
edifici scolastici.
Nel
Settecento, quando l’abate scriveva, Montalbano vantava già, ad esempio, il
cosiddetto “Palazzo Cavaliere”, nel cui nome sta forse una delle cause delle
frane che portarono via il castello. L’edificio deve il suo nome ad una
leggenda causata dalla suggestione popolare. Innanzitutto è bene precisare che
sorge anch’esso sul ciglio del burrone di argilla su cui il paese si affaccia,
a breve distanza dal luogo dove era il castello e dirimpetto all’
“Osannale”, piazzetta dove ancora oggi avviene la benedizione delle palme la
domenica prima di Pasqua, ma che doveva essere un torrione della seconda cinta
muraria. Orbene, la leggenda vuole che di notte, nell’ampio cortile interno
del palazzo (dove una volta soggiornò Zanardelli, come si evince da
un’iscrizione postavi), compaia la terribile figura di un cavaliere senza
testa, e lo scalpitio degli zoccoli del suo destriero pare abbia terrorizzato
per generazioni i sonni degli abitanti. I più coraggiosi di loro raccontavano
di essersi affacciati, di notte, nel cortile, e di averlo visto, il fantomatico
milite, aggirarsi tetro su di un destriero ora bianco, ora nero. L’avevan
sognato, buoni uomini, o la suggestione della notte aveva causato loro
l’agghiacciante visione, dato che lo scalpitio era dovuto alle gocce che,
condensatesi, cadevano nella cisterna sottostante il palazzo, rimbombando nel
silenzio notturno, fino a sembrare gli zoccoli d’un cavallo. Nulla vieta di
pensare che gli scoli di queste cisterne andassero a finire proprio vicino alla
“tempa del diavolo”, erodendola poco a poco negli anni, fino a causar la
rovina del castello, andato a finire inesorabilmente giù, nei calanchi. Il
colpo di grazia, comunque, fu dato, come avvenne a Craco, dalla cisterna
dell’acquedotto, costruita vicinissimo al castello, le infiltrazioni delle cui
tubature minarono irreparabilmente lo sperone argilloso sul quale sorgeva il
castello che, se era già in parte franato, agli inizi del ‘900 era ancora,
nelle sue strutture residue, tanto stabile da spingere l’intraprendente
Maurizio Rocco ad aprirvi un pastificio.
Da quest’ultima notizia possiamo diramare le direttrici del ragionamento che ci eravamo proposti di effettuare poc’anzi: e se il castello, quando il Troyli scriveva, fosse stato “diroccato” dagli abitanti? Si è espresso il dubbio in merito all’eventuale distruzione parziale della struttura, che fu effettivamente demolita, come narra in una pagina che trabocca pathos patriottico e cittadino il Rondinelli [2], un secolo dopo. Perché in parte e non del tutto? Forse perché nel castello, o meglio nelle ali dello stesso volontariamente lasciate in piedi dagli assatanati paesani muniti di zappe e picconi, c’era già qualcosa che poteva tornare utile agli stessi. Delle macine (una è ancora oggi esposta in un’aiuola del “belvedere” situato dirimpetto alla “Tempa”), forse; o delle fornaci, perché no, poi riutilizzate dal buon Maurizio Rocco nel suo pastificio, costruito, nulla vieta di pensarlo, con i materiali di risulta del castello ormai diruto. Il resto è storia, se non proprio nota, molto più recente e soprattutto assai squallida.
Una raccolta di articoli di giornale, riguardanti
Montalbano [3],
pubblicata in 1000 copie, con il meritevole scopo di finanziare il restauro dei
manoscritti cinquecenteschi facenti parte del fondo antico della ricchissima
biblioteca comunale di Montalbano (sulle cui condizioni è meglio stendere un
pietosissimo velo…), riporta tutta una sfilza di articoli riguardanti frane e
dissesti geologici, che possono essere suddivisi in ordine di tempo e di
“causa”. Leggendo la prima “sezione”, quella che va dai primi anni ’60
al 1970, sembra che le frane siano state cagionate dalle infiltrazioni idriche
causate dalle tubature dell’ E.A.A.P., testi ne siano i numerosi articoli che
parlano dei disagi causati da inspiegabili e lunghissimi disservizi
nell’approvvigionamento idrico di una comunità crescente a ritmi vertiginosi:
gli studi sull’impatto ambientale delle cisterne, evidentemente, furono fatti
in modo frettoloso, se non superficiale, senza volgere un occhio al futuro della
cittadina. Futuro, a quanto pare, precluso anche per questo motivo. La seconda
“sezione” si apre negli anni ’70 e ’80 e sembra che le frane prendessero
le mosse (costruita la nuova cisterna giù a valle, in contrada Montesano) da
alcuni “carotaggi” fatti a Montalbano per cercare un fantomatico
“salgemma”. Il vero scopo di questi scavi ce lo hanno spiegato
Ma
bando alle ciance e ritorniamo alla storia.
Certamente nel 1735 il castello non doveva più essere atto a soddisfare delle esigenze abitative per così dire “altolocate”, dato che re Carlo III di Borbone, nella sua visita a Montalbano (che il nostro beneamato cavalier Rondinelli descrive con toni degni, nella sostanza se non nella forma, delle rappresentazioni cariche di pathos di un Kantorowicz [4], sebbene ante litteram), preferì alloggiare nel palazzo Mansi-Cerulli, posto addirittura al di fuori della prima cerchia muraria, perché era «in quel tempo il più comodo e decente del paese» [5]. D’altro canto, riallacciandoci alla descrizione del Troyli, proprio prima della metà del XVIII secolo il castello si presentava già “in parte diroccato”, ma, compiendo un altro audace test sulla memoria dell’abate, non possiamo tralasciare il fatto che egli dica “ormai diroccato” dopo aver menzionato la struttura come “fortissimo castello”.
E se l’abate lo
ricordasse così come lo aveva visto da bambino (facciamo un esempio: nel 1694,
quando aveva 6 anni), “fortissimo”, e la cesura “ormai”, posta prima
della parola “diroccato”, fosse una spia del fatto che la rovina
dell’edificio avvenne nel breve lasso di tempo compreso tra il 1694 e il 1730?
Gli elementi ci sono davvero tutti. Per concludere, citiamo il Rondinelli, che
afferma: «[…] Io dichiaro che prima del 1730 e dal 1718 ò visto segnata civitas
Montalbano in carte ecclesiastiche, ed in quelle civili dato al nostro paese tal
titolo solo dal 1735, mentre prima era chiamato castrum o terra, castello
o terra: la tradizione tramandata da’ nostri padri
ci dice che re Carlo III di Borbone in occasione della sua visita al
nostro comune lo titolò città […]». Scopo del cavaliere era soltanto
quello di ribadire l’ufficialità del passaggio di Montalbano dall’odiatissimo
regime che lui chiamava “feudale” a quello “moderno”, ma
l’informazione, soppesata più attentamente in altra sede e soprattutto in
relazione al dovuto sistema documentario, potrebbe offrire spunti interessanti.
Non ci è dato, allo stato attuale delle cose, sapere di più, ma ricerche di
storia locale condotte con un buon metodo, e soprattutto con biblica pazienza
nell’archivio del paese, potrebbero gettare nuova luce sulla questione. A
quanto pare, e questo lo dico con un compiacimento che rispecchia un po’
quello più vetusto del Rondinelli, la cittadina, dopo secoli di incuria, sembra
aver riscoperto il proprio patrimonio storico: sono iniziati da qualche mese i
lavori di restauro della prima cinta muraria, che procedono alacremente e in
tutta verosimiglianza correttamente anche dal punto di vista del metodo.
Fermiamoci qui.
Ripartiamo
da qualcosa di “concreto”, tuttavia, prima di avanzare anche semplici
illazioni: un terreno friabile come l’argilla può reggere benissimo un
castello di pietra e legno per secoli, purché non presenti interstizi
perniciosi in cui eventuali infiltrazioni idriche vadano a minare la
costruzione.
Quando
fu costruito il castello? Ecco un buon punto di partenza.
L’unica
menzione certa dell’esistenza di una struttura castellare a Montalbano la
abbiamo nello Statutum de reparatione
castrorum, documento degli anni 1241-1246 [6],
dal quale si evince che la struttura entrava nel novero delle domus,
ovvero fortificazioni atte ad ospitare la corte itinerante del sovrano. E qui la
domanda più classica ci casca a pennello: Federico II, a Montalbano, ci andò
mai? Come la pantera dei bestiari medievali, lo Svevo ci lascia una scia del suo
odore da seguire, inoltrandosi agile nella selva dell’ignoto.
Riccardo
da San Germano
[7]
tramanda che nel 1232 il sovrano radunò nel castello di Policoro le truppe per
la spedizione contro i ribelli saraceni di Sicilia, cui partecipò personalmente [8].
Ora, nel predetto Statutum, Policoro
figura tra i castra, ovvero le
strutture castellari progettate per stanziarvi soldati, ancor prima del sovrano.
Il discorso sembra a chi scrive assai più complicato: per comprendere il corretto funzionamento della domus, bisognerebbe studiare il funzionamento dell’eventuale officina di molitura e trasformazione del grano ivi presente, il ruolo che tale elemento giocava nel sistema delle numerose masserie fortificate dei dintorni e soprattutto in che modo la produzione delle stesse fosse regolata da istituti giuridici feudali quali il fodrum e l’albergaria, in funzione del complesso di comforts che la domus montalbanese era tenuta a garantire al sovrano. L’ipotesi di chi scrive è che il complesso sistema qui grossolanamente abbozzato avesse delle caratteristiche tali da poter essere interpretato come un “progetto” politico-territoriale ed anche economico-giuridico e militare del tutto particolare. Ecco due indizi, che aspirano a diventare, con studi più approfonditi che mi riprometto in futuro, prove certe: primo, il fatto che nel sopra menzionato Statutum de reparatione castrorum i castelli di Basilicata, al contrario di quelli pugliesi, non “devono”, ma semplicemente “possono” [reparari potest, e non debet] essere riparati dagli abitanti dei centri mano a mano riportati nel documento (mi sembra indice di un “sistema a maglie aperte”, interscambiabili in virtù di qualcosa); secondo: la sovrapposizione del termine castrum a strutture che fungevano essenzialmente da masserie, sebbene fossero “fortificate”, dunque in considerevole misura militarizzate. Infine l’utilizzo del termine casale, nella singolare accezione di “chiesetta con cimitero” ad indicare, nelle stesse masserie, i complessi residenziali (quasi tutti scomparsi) dei braccianti e dei lavoratori in genere. Forse la loro «rassegnata disponibilità al sudore e alla fatica», come ha magnificamente interpretato Salvatore Tramontana, è alla base di quel potest.
Ma,
insomma, Federico a Montalbano ci venne o no?! Il tarlo si insinua a maggior
ragione, constatando che Montalbano era, nell’area dell’attuale provincia di
Matera, l’unica domus esistente [9].
La probabilità è alta ma, come il supplizio di Tantalo, ci lambirà le labbra
come acqua fresca, per ritirarsi inesorabilmente ad ogni nostro tentativo di
berne.
Non
avrebbe d’altro canto alcun senso applicare il metodo estensivo, al fine di
recuperare una notizia che, nel caso ci fosse, non risulterebbe di alcuna utilità,
se non di dar lustro al tronfio orgoglio campanilistico di pochi, a meno che
l’informazione stessa non venisse inserita in un contesto parecchio più
ampio, ma non è questa la sede adatta a tale discorso.
Quando
fu costruito esattamente il castello? Fu una creazione ex novo di Federico? O era una struttura preesistente semplicemente
riutilizzata dallo Svevo? Premesso che le argomentazioni riguardo all’età
normanna sono già state abbondantemente trattate nella prima parte di questo
strano Pre-testo a puntate, ribadiremo soltanto la perplessità che la
confusione in cui l’intera tradizione delle testimonianze si svolge suscita,
rendendo pertanto instabile qualsiasi tentativo di fondarvi un ragionamento
scientifico. Come si fa a
fornire argomentazioni oneste su notizie tramandate in quel modo?
Per rinfrancarci, andiamo a consultare dei tomi che certamente possono offrirci delle informazioni u po’ più attendibili, sebbene il mai abbastanza citato rogo nazista ne abbia distrutto le fonti. L’Istoria de’ feudi delle due Sicilie [10] ci regala la trascrizione di un atto del 23 aprile 1343. L’Inclitam Sanciam, madre di Giovanna I, era in lite con Martuccia di Capua circa l’usufrutto del castello di Paterno. Martuccia sosteneva che il castello spettasse a lei, dato che re Roberto l’aveva donato a suo marito Filippo Stendardo, morto senza eredi. Inoltre, il castello era “da tempo immemorabile” unito alla sua “baronia di Gesualdo”.
Con il suddetto atto, Sancia rinunciava ad ogni diritto sul feudo di Paterno a favore di Martuccia, ed in più, qualora questa fosse morta senza eredi, Paterno sarebbe andato a sua sorella, Maria di Capua. Martuccia, dal canto suo, rinunciava a 40 delle 90 once annue che le spettavano per dote dei beni feudali del defunto marito, poiché esse entravano a far parte delle proprietà di Sancia. Per le restanti 50 once, le si assegnava il «Castrum Montis Albani de Provincia Basilicate». Ecco spiegate le pretese, gli assalti, i latrocini, i «bella diplomatica»!
Ricordato
che Giovanna I confermò la “transazione” il 10 dicembre 1350, per volere
dei figli di Maria di Capua, sorella della nostra Martuccia e convolata a nozze
col barone di Candida Filippo Filangieri, si osserverà qui brevemente che la
parola castrum, in età tardoangioina,
aveva perduto il connotato di “castello atto allo stanziamento di soldati”,
che aveva in età federiciana, per andare a significare “abitato (con
eventuale residenza fortificata, come in questo caso, a meno che la stessa non
fosse già stata ridotta a qualcos’altro) munito di opere di difesa”. E
certamente dovette esserlo: a giudicare dai ripetuti assalti che affrontò…
Per le altre notizie il Rondinelli, lasciati i secoli bui e spaventosi dell’età di mezzo, nella sua concezione rimbombanti per il clangor dell’armi e terribili di nitriti di guerreschi destrieri e grida belligeranti, approda ai felici e ridenti quattrocenteschi lidi, laddove la penuria si traduce in abbondanza, e di tal copia ridon gli archivi di oggi e di ieri.
Ed ecco Montalbano esser con dovizia di riferimenti, anche inesistenti, descritta: chi fosse «quel Turgisio [11] valoroso capitano normanno» che «nel 1045 […] seguì le insegne di Roberto Guiscardo, da cui ebbe il castello di Sanseverino» e che diede, in tal guisa, boreal genitura alla schiatta omonima del castello ricevuto, proprio non ci è dato saperlo. Ma lo zampino di zio Placido [12] (specialmente!) o di zio Carlino Troyli [13] (che, a detta del Rondinelli stesso, «pubblicò il 1841 nel fascicolo secondo del giornale economico e letterario di Basilicata, di cui era corrispondente, un articolo, col quale, senza ragione e senza critica storica [!!!], volle immaginare in Petrolla il sito dell’antica Petilia, fondandosi su quel brano di Plinio erroneamente riportato da Troyli [Placido], pel quale Mons Clibanus è mutato in Mons Albanus» [14]) si può avvertire.
Montalbano, a farla breve, andò ai Sanseverino e, consultando i “cedolarii esistenti nell’archivio di stato di Napoli”, il Rondinelli poteva scrivere che la cittadina apparteneva alla potente famiglia, nel 1455, assieme a Pisticci, «benché venisse più volte confiscato dalla regia corte per ribellione dei signori sanseverineschi contro i sovrani di Napoli»
[15]. Nel 1463 i Sanseverino riebbero su Montalbano, da Ferdinando I d’Aragona, «il loro stato feudale, che per fellonia avevano perso […], perdendo poi tutto nuovamente per la ribellione di Antonello Sanseverino contro il medesimo sovrano nella ben nota congiura del 1484: verso il 1506 Roberto figlio del ribelle Antonello riebbe il feudo ed il nostro paese dal re cattolico Ferdinando III d’Aragona»
[16].
Detto
questo si riterrà esuariente la trattazione fatta sul castello e sulla
cittadina in senso lato, andando così a concludere. Non prima, però, d’aver
fatto menzione di una misconosciuta storia passionale e delittuosa consumatasi
nel distrutto maniero appunto nel XVI secolo. La storia di Sancia Dentice e
Girolamo Sanseverino.
Sancia
Dentice, stando al racconto riportato nel manoscritto custodito nella
Bibilioteca comunale “Filippo Rondinelli” di Montalbano Jonico
[17],
era donna lasciva e gaudente, andata convenientemente in isposa al ricco e
potente Girolamo Sanseverino. Orbene, Iacopo, Sigismondo ed Ascanio, nipoti di
Girolamo, figli di Ugo Sanseverino e Ippolita de’ Monti, per vendicar le corna
del povero loro zio, fecero uccidere l’amante della concupiscente Sancia.
Questa, per vendicarsi, fece uccidere i tre giovani, dopo averli fatti invitare
ad una battuta di caccia, dando loro da bere del vino avvelenato. Ma lo stesso
testo fornisce un’altra versione della storia: fu Girolamo, pare, a far
avvelenare i tre nipoti, poiché era senza eredi maschi, ma voleva entrare in
possesso dei feudi del padre dei tre, suo fratello Ugo Sanseverino, e per
consuetudine familiare le femmine non avevano diritto all’eredità.
Non è compito nostro discernere quale delle due versioni sia la più attendibile, né inoltrarci nelle vicende successive della cittadina lucana, limitandoci a concludere, con un’iperbole, questo breve ragionamento: si è parlato del supplizio di Tantalo a proposito della storia di questo castello e con una vicenda che odora di Tieste la si conclude. “Ogni storico è un falsario, il problema è se lo sa o no”, dice qualcuno. Rincaro la dose: ogni storia può essere un falso, il problema è se lo storico, nel suo essere irrimedialbilmente falsario, non resti gabbato da un qualcosa di scritto da schiere di uomini che, come lui, son falsari di se stessi, consegnandosi così al futuro come l’epigone momentaneo di quell’immane flusso che scrivendola, raccontandola, rimaneggiandola, esaltandola, dona il sale alla storia stessa: l’umano ingegno.
1 U. J. Andreae Martii Liber niger Civitatis Piscticii, a c. di C. Spani, Pisticci 1988, p. 44.
2 Rondinelli, Montalbano cit., p. 14: “[…] Il castello fu poi occupato da diversi conti […] che sino ai primi anni del secolo decimo non tennero feudalità in Montalbano, e subì le sorti del regime feudale, rovinando con esso: i suoi resti furono demoliti verso la metà del decimo nono secolo, ed ora nel luogo ove vedevasi la gigantesca e merlata mole, nel luogo dove i principi sanseverineschi si tuffarono in orge e delitti, sorge dal 1902 l’opificio industriale del cav. Mauruzio Rocco, nel quale le macchine da lavoro ed i bravi operai surrogano felicemente le armi del signore medievale ed i suoi cagnotti, e di notte fulge la luce elettrica impiantata ed inaugurata il 1911 […]”.
3 Nicola Palazzo, Pimpi, Rosina e una vita nel cortile, Mottola 1999, pp. 35, 36, 38, 40, 90, 92, 101, 112, 122, 128.
4 Rondinelli, Montalbano cit., pp. 38-40: “[…] il monarca, preceduto da qualche dama e damigella dell’alta aristocrazia napoletana, giunse nel nostro paese non solo col seguito e con la compagnia che ho sopra indicati [una sfilza di funzionari che non starò qui ad elencare N.d.A.] ma con l’accompagnamento del preside di Matera […] e di molti cittadini […] i quali s’erano recati a prestare al giovine re i loro omaggi. Tutto il popolo di Montalbano accolse con entusiasmo indescrivibile il diciannovenne sovrano fuori dell’abitato; e re Carlo, sotto un magnifico padiglione eretto presso la cosiddetta porta della terra, già poi demolita, ricevette gli ossequii del papa, presentati dal vescovo Fabio Troyli [un altro!], gli omaggi del principe feudatario del comune, quelli del clero […]; poi, sotto ricco baldacchino [Medioevo che riaffiora…] sostenuto da distinti cittadini, fece solenne ingresso nell’abitato, tra acclamazioni vivissime e plausi del popolo […] tra le squille allegre di ecclesiastiche campane e tra segni immensi di giubilo […]”.
6 Licinio, Castelli cit., pp. 117-194.
7 Riccardi de S.Germano Chronicon, in G. Del Re, Cronisti e Scrittori sincroni napoletani, II: Svevi, Napoli 1845-1868, p. 76: “[…] Imperator omnibus generaliter Praelatis, Comitibus, Baronibus, militibus tam feudatis, quam non feudatis mandat, ut ad se cum toto servitio, quod facere tenerentur, apud Policorum, in futuris Kalendis Februarii accedere sint parati […]”.
8 Salvatore Tramontana, La monarchia normanna e sveva, Torino 1986, p. 29.
9 Licinio, Castelli cit., p. 310.
10 Ricca, Istoria dei feudi delle due Sicilie, vol. II, Napoli 1862, pp. 263-269.
11 Però il nome è scandinavo sul serio! [N.d.A.].
12
Nestola,
Roberto il Guiscardo cit., pp. 75 e
13 Rondinelli, Montalbano cit., Prefazione (senza numeri di pagina): “Avevo nove anni appena il 1860, quando, tra i bollori e i rumori rivoluzionari di patria e libertà, il vecchio mio zio Carlino Troyli mi veniva discorrendo di Montalbano, come d’un comune importante di Basilicata, come d’un comune antichissimo, circondato da luoghi di memorie antiche e gloriose, il quale fu patria di sommi uomini, e rammentami spesso il Troyli, il Fiorentini, il Lomonaco, il Mastrangelo e mio zio Filippo Rondinelli, cittadini montalbanesi che con la penna, con la spada , col martirio politico, con la toga e con la beneficenza illustrarono la patria nostra: quel vecchio mio zio, spettatore di varii politici rivolgimenti, assolutista convinto, ma onesto e pieno di patrio amore, tenendomi tra le sue gambe, mi raccomandava di amare sempre Montalbano […] e che era suo e mio paese natio, m’inculcava l’amore patrio ed in linea principale l’onestà, senza la quale si può gridare patriottismo ma non si può essere buon patriota[…]”.
17 Edito in ASPN, Anno V, Napoli 1880.
© 2005 Pierfrancesco Nestola