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di FABIO FIGARA
II parte
IV:
Gli
eremiti nella letteratura medievale
Anche nella letteratura antico-francese troviamo presenze di eremiti.
Anche se non appare nel Roland, la più
antica Chanson de Geste, un cenno alla
vita eremitica è nella Chansun
de Willame, un altro antico testo: l’eroe, tornando vinto e disperato
dalla battaglia, confida alla moglie il proposito di andare pellegrino e
ramingo. Ma, come narrato in una canzone più tarda, il Moniage
Guillame, ciò accade solo successivamente alla morte della moglie.
Nel Renaut de Montauban il protagonista, Maugis, comprendendo di
essere di ostacolo alla riconciliazione tra i cugini e l’Imperatore, se ne va
eremita in un bosco, dopo aver però affrontato un bel pellegrinaggio a
Gerusalemme.
L’eremita assume in questi poemi la forma di saggio, di santo
vegliardo. Nell’Eliduc si narra
l’avventura di un cavaliere, di nome appunto Eliduc, che riporta in patria per
nave la principessa che ama. Venuta a conoscenza però che il suo cavaliere è
già sposato, la giovane donna sviene, ed Eliduc non riesce più a rianimarla.
Per questo corre nel cuore di una foresta, in quanto è a conoscenza
dell’esistenza di un eremita molto saggio, forse in grado di risvegliarla.
E ancora, nel Tristano di Béroul,
il cavaliere e la sua amante si rifugiano nella foresta, vivendo di stenti e
privazioni, dove conoscono un eremita, Ogrin, che scongiura loro di abbandonare
il peccato in cui vivono.
Come non ricordare il Perceval
di Chrétièn de Troyes, in cui il cavaliere Perceval incontra un vecchio
eremita nella foresta, il quale illumina la coscienza turbata del giovane
prescrivendogli la retta via da seguire per poter poi accogliere il mistero del
Graal. Inoltre il cavaliere dovrà ascoltare messa ogni giorno e difendere i
deboli, gli oppressi, le donne e i bambini.
Lo stesso Lancillotto confessa il proprio peccato d’amore con Ginevra
ad un romito, per poi ritirarsi, alla fine della vicenda, in un eremo insieme al
cugino Bleoberis e all’arcivescovo di Canterbury; Galvano ed Ettore avranno da
un eremita la spiegazione delle loro visioni.
C’è spazio pure per una reclusa, figura non molto familiare per
Una figura che indubbiamente si riallaccia al ciclo arturiano è quella
di san Galgano, eremita nella valle del fiume Merse, vicino Siena. Galgano,
cavaliere originario d’un castello che si chiama Chiuslino, come
riportato nella documentazione relativa, fu huomo feroce e lascivo a mmodo
che sono e’ giovani, implicato nelle cose mondane e terrene; ma per due
volte gli appare l’Arcangelo Michele, re delle milizie celesti, protettore
proprio dei cavalieri, che gli profetizza ch’elli doveva essere cavaliere
di Dio. In crisi di coscienza,
soprattutto dopo la seconda visione, in cui l’Arcangelo gli mostra quale
sarebbe stato il suo futuro luogo di penitenza (Montesiepi, appunto) e ove lo
attendevano addirittura i dodici apostoli, scappa dal suo borgo d’origine.
Mentre fugge nella direzione
del vicino borgo di Civitella, in prossimità del colle detto Montesiepi il suo
cavallo si ferma, e non riesce a costringerlo a proseguire. Passa la notte nella
vicina pieve di Luriano, ma il giorno dopo il cavallo non vuole saperne di
muoversi. Allora riflette sulla visione e sul colle: troppe coincidenze.
E difatti l’unica direzione
che vuole prendere l’animale è proprio quella per Montesiepi. Giunto in cima
al colle, si prese la spada
ch’egli aveva a llato e in luogo di croce su la dura pietra la ficcò,
rievocando così per sempre l’episidio arturiano della spada nella roccia.
Dopodiché acconciò il suo mantello a mmodo di veste monacile, e, fatto un
forame nel mezzo a mmodo di schappulare, sel vestì.
Dopo innumerevoli scontri con
il demonio e con coloro che accorrevano per tentare di estrarre la spada
conficcata nella roccia, tra guarigioni miracolose che continuarono anche
post-mortem dell’eremita (avvenuta nel 1181), preghiere e digiuni continui,
Galgano fu fatto santo appena quattro anni dopo la sua scomparsa.
Molte sono state le teorie
riguardanti il suo nome: è molto probabile che esso venisse dal promontorio ove
sorge il Santuario di San Michele Arcangelo in Puglia, molto frequentato dai
pellegrini nel Medioevo. Come scrive proprio Franco Cardini, la differenza
starebbe più in un passaggio filologico perfettamente spiegabile dalla r
alla l, e riguardante la loro facile interscambiabilità nel corso dei
secoli. Oppure è molto probabile che il padre abbia voluto attribuirgli il nome
di quel Galgano Pannocchieschi che di lì a due anni dalla nascita del Galgano
di Chiusdino sarebbe divenuto poi vescovo. Per non parlare poi della somiglianza
con quel cavaliere Galvano, nipote peraltro di Artù.
Molto spesso l’eremita è infatti un cavaliere, o comunque un nobile,
che si toglie l’armatura ed il cingulum,
che ripudia la spada e ogni atto di violenza, che si pente del suo precedente
stile di vita spesso dissoluto. D'altro canto proprio in questo arco di tempo si
sviluppano i ceti mercantili: la vita diviene sempre più oppressa dagli affari,
la sete di guadagno consuma l’individuo facendogli perdere coscienza dei veri
valori. Ma non solo: la stessa vita di uomo di guerra, le sofferenze patite ed
inferte, il dubbio della sopravvivenza.
E tutto inizia proprio con lo stravolgimento della sua stessa vita, che
deve seguire un modello, ovvero Gesù povero, nudo e solo. è per questo che nell’XI secolo troviamo personaggi come Teobaldo di
Provins, conte di Champagne, che si fece asceta prima a Pitange nella foresta di
Cluny, poi a Marcour sulle terre del conte di Montagu e poi in Veneto, dove si
fece sacerdote a Vicenza, e dove venne sepolto dopo aver vissuto qualche anno
ancora come eremita a Sajanega, o individui proprio come Galgano, da cui prende
il nome la bellissima chiesa cistercense in prossimità dell'eremo, come Günther
di Niederaltaich, visto in precedenza, e come san Guglielmo, del cui eremo di
Malavalle si trovano ancora i resti a Castiglione della Pescaia. Nobili
cavalieri che si rifugiano in un luogo sperduto e remoto, che combattono da soli
contro le proprio tentazioni, ed entrati nelle leggende popolari.
Ma anche la storia di san Guglielmo di Malavalle assume sfaccettature assai singolari. L'unica certezza che abbiamo è la data di morte, riportata dal discepolo Alberto: 10 febbraio 1157. Infatti non siamo sicuri che Guglielmo sia identificabile con Guglielmo duca d'Aquitania e conte di Pittavia, come afferma sempre Alberto nella sua Vita di san Guglielmo, anche se questa è l'identità più accreditata. La tradizione vuole, quindi, che Guglielmo fosse un nobile vissuto presso una corte poco cristiana e nella licenziosità delle armi. Morto Papa Onorio II, Guglielmo fa parte del partito favorevole all'elezione dell'antipapa Anacleto. Ma per intercessione di san Bernardo di Clairvaux, che lo invita più volte all'obbedienza nei confronti del vero pontefice romano, Guglielmo, dinanzi al Corpo di Cristo, che gli mostra lo stesso Bernardo per intimidirlo, si sottomette al vero Papa romano. Per penitenza si fa così saldare la cotta di ferro sui fianchi nudi, in modo da non poter più togliersela.
Ottiene così udienza dal Papa, il quale gli impone un pellegrinaggio
verso Gerusalemme, scalzo e in continui digiuni.
Saputo della sua conversione alcuni cavalieri, probabilmente suoi vecchi
compagni d'arme, si recano in terra santa per convincerlo a tornare, ma egli
rifiuta. S'imbarca così alla volta dell'Italia ma, in nave, non può compiere
adeguatamente tutti gli esercizi spirituali di cui ha bisogno per mantener saldo
lo spirito e invulnerabile alle tentazioni: vedendo il castello di Monte Santa
Croce preso d'assalto dai Lucchesi e difeso dai Pisani, gli ritorna il suo
antico spirito combattivo e si pone al servizio dei primi.
In seguito, intuito che la mancanza di pratiche ascetiche porta ad una
inevitabile ricaduta nei desideri carnali e maligni, si reca in pellegrinaggio a
Santiago di Compostella, dove si finge tra l'altro morto per eliminare qualsiasi
legame con la precedente vita terrena.
Costeggiando il Mar Ligure sbarca in Italia e giunge a Monte Pisano, tra
il Serchio e l'Arno, vivendo come eremita in isolamento.
Dopo una serie di altre disavventure, tra i quali attacchi del demonio e
visioni addirittura della Vergine Maria, riesce definitivamente ad insediarsi
nello Stabulum Rodis, in seguito chiamata Malavalle. Invasa dalla
vegetazione e dal terreno arido, si credeva fosse abitata addirittura da un
serpente enorme, una terribile bestia del dragho, che san Guglielmo
sembra aver sconfitto (per questo lo troviamo spesso ritratto con un piede che
pesta un grosso serpente).
Ciò che differenzia la storia di Guglielmo da quella degli altri
eremiti è che, anche in seguito ai suoi miracoli, si sparge la voce della sua
esperienza eremitica, portata oltre il contado grossetano e giunta in molte
regioni dell'Italia centrale. E sempre più aspiranti asceti si riunivano nel
piccolo eremo costruito dallo stesso Guglielmo, dove dimorò con il discepolo
Alberto per circa un mese, al fine di ripetere
la stessa esperienza del santo.
Questi suoi fedelissimi edificarono un oratorio sulla tomba del santo e,
sotto la guida spirituale d'Alberto, ripercorsero lo stesso tragitto ascetico di
Guglielmo il quale, non avendo certo in mente di creare un ordine, non aveva
lasciato alcuna Regula, ma i fedeli si rifecero alle storie della sua
vita raccontate dal primo discepolo.
L'ordine detto "dei Guglielmiti", approvato nel XIII secolo
dal vescovo di Roma, poté creare addirittura delle sedi oltralpe.
Ma lo stile di vita dei guglielmiti era troppo rigido: se speravano di ingrandirsi in quanto Ordo non potevano mantenere le esagerate regole ascetiche di Guglielmo; per questo, nel corso dei secoli, l'Ordine andò sempre più ad accostarsi a quello agostiniano, fino ad esserne inglobato.
Parte
V: Eremiti
nel Mezzogiorno italiano
Una citazione a parte meritano
gli eremiti che scelsero il loro luogo di meditazione nell'Italia meridionale.
L'eremitismo di quelle zone presenta due caratteri a dir poco originali che lo
differenziano dalle restanti forme eremitiche europee: anzitutto la presenza di
un monachesimo greco in Calabria e nel Salento, che conosce un'evoluzione
particolare sopratutto tra XI e XII secolo; in secondo luogo la rinascita di un
eremitismo "organizzato" all'interno del monachesimo latino nell'XI
secolo, che sfocia in un cenobitismo più austero nel secolo successivo,
soprattutto presso i cistercensi (d'altro canto, le nuove congregazioni non
penetreranno nel Mezzogiorno fino al XII secolo).
Anche in questo caso le fonti di cui disponiamo sono testi agiografici, privilegi pontifici e quant'altro, ma nelle descrizioni biografiche è palese la differenza con gli eremiti delle altre regioni europee: sia i testi greci che latini riportano episodi d'isolamento di monaci che hanno compiuto, nei momenti di vita nella società, dei miracoli tali da renderli santi. E in questi documenti la confusione tra cenobium ed eremo è molta. Nel corso dei secoli, venne definito eremo principalmente il cenobio isolato, magari su una montagna, e in cui i monaci praticavano una vita austera.
Già nel IX secolo si
riconoscevano tre diverse categorie di monaci: gli eremiti solitari, gli eremiti
conviventi con due o tre compagni (chiamati spesso esicasti) e i cenobiti.
Questi ultimi però vivevano un cenobitismo che segue le regole monastiche
orientali, soprattutto dopo la crisi iconoclasta (durata fino all'842).
E i santi monaci sono ricordati
anche per la formazione di gruppi di discepoli con i quali seguire la via
esicasta: ad esempio Elìa il giovane, morto nel X secolo e considerato
dall'agiografia meridionale medievale il monaco per eccellenza, venne catturato
e schiavizzato in Africa. Liberato, dopo un viaggio in Palestina, veste l'abito
monacale e viaggia in Egitto e in Persia, fino a giungere nel Peloponneso prima,
ed in Calabria poi dove fonda un monastero, per seguire le pratiche esicaste
imparate nel suo lungo peregrinare; Nilo da Rossano comincia la sua attività
ascetica presso un monastero ma, in seguito ad un accordo con i monaci, si
rifugia in una grotta vicino il piccolo Santuario di San Michele Arcangelo, dove
recluta dei compagni con i quali condividere le esperienze ascetiche. E gli
esempi sarebbero ancora molti.
Per quanto riguarda invece le
fonti latine meridionali medievali, esse sono di
gran lunga posteriori rispetto ai testi greci. E i personaggi
fondamentali del monachesimo latino risultano essere tre: Giovanni da Matera,
Guglielmo da Vercelli e Giovanni da Tufara.
Questi tre santi uomini del XII
secolo sono importanti nella storia dell'eremitismo latino meridionale in quanto
non sono solo fondatori di monasteri, ma altresì di grandi congregazioni.
Giovanni da Matera è definito
nella sua Vita proprio beatissimus Joannes Eremita. Sin
dall'infanzia egli aspira all'eremus. Subito molto giovane, dopo aver
trascorso pochi anni in un monastero, si ritira in un inhabitabilis eremus,
bevendo acqua e mangiando erbe di campo e frutta selvatica. Dormiva appeso ad
una corda immerso nell'acqua fredda, e combatteva con demoni e bestie.
Dopo una visione in cui gli
appare san Pietro, che lo libera addirittura da un'ingiusta prigionia in cui era
finito negli anni a seguire, restaura una chiesa dedicata al primo papa presso
Ginosa.
Incontra poi Guglielmo da
Vercelli, con il quale passa qualche tempo sul monte Cognato, presso Matera.
Guglielmo prende l'abito a l'età
di quattordici anni, si reca a Roma e giunge in Italia meridionale seguendo il
cammino per Gerusalemme. Si stabilisce dapprima con Giovanni da Matera, vivendo
tutti i giorni con pane, acqua e dei legumi, per poi giungere, in seguito alla
separazione dallo stesso Giovanni, a Montevergine, vicino Avellino a più di
Finalmente incontra nuovamente
Giovanni, ma Dio ordina a quest'ultimo di andare in Puglia, e a Guglielmo di
restare.
Ciò che colpisce maggiormente
della figura di questo Guglielmo, è che nell'agiografia egli è definito confessor
et heremita, anachorita, e soprattutto il creatore di una anachoritica
norma, ovvero di una regula, o comunque di una forma nuova di
eremitismo o monachesimo.
Diverso il discorso per Giovanni
da Tufara (provincia di Campobasso), appartenente alla chiesa dei Santi Pietro e
Paolo, compì i suoi studi a Parigi, per ritirarsi poi a Monte Sant'Angelo. Vive
per tre anni nel monastero a "tendenze eremitche" di Sant'Onofrio, e
poi nella vicina chiesa di San Silvestro.
Mangia pochissimo ma legge
molto, soprattutto le Vitae Patrum.
Infine si ritira dapprima in una
cella nella chiesa di San Firmiano, e poi nel monasterium di Santa Maria
del Gualdo.
Parte
VI: Gli
eremiti nella documentazione agiografica medievale
Non è facile ritrovare documentazione certa sugli eremiti medievali.
L’eremitismo può essere una tappa più o meno lunga di un percorso che giunge
ad altra destinazione, come nel caso di san Francesco d’Assisi e di san Benedetto da Norcia. Ma è più facile solo in caso di un'eventuale
beatificazione ritrovare un vita o una documentazione sufficiente a ricostruire
una biografia pur essenziale di un individuo.
Un’abbondante produzione agiografica la si può trovare anche presso
ordini che potremmo definire semi-eremitici, come i monaci vallombrosani o come
la stessa congregazione camaldolese.
Una delle opere letterarie in tal senso più conosciute è
Ma in un quadro generale di tutti gli ordini e dei movimenti religiosi
medievali, ciò che ci rimane degli eremiti è assai poco. Il vero eremita, come
abbiamo già detto, è un solitario, un individuo che preferisce le pareti
ghiacce di una grotta al tepore del fuoco domestico, è un penitente che
preferisce alle frivolezze della vita mondana la preghiera e la lunga
meditazione, da solo o con pochi e fidati
compagni.
Ma tale rarità di fonti può trarre in inganno gli storici, in quanto
non permette di giungere ad un quadro veritiero ed accettabile di un fenomeno
così vasto e, anzi, spesso può condurre in errore, non permettendo
d’inserirlo nel posto che gli spetta nella società occidentale medievale.
Già la parola “eremita”, così come per il termine eremus,
è di difficile interpretazione. Come rilevato in alcuni atti notarili
piemontesi, gli stessi cistercensi erano menzionati come heremitae; ma
essi trascorrevano un tipo di vita forse più duro degli stessi monaci
benedettini? No di certo, erano dei cenobiti e non degli eremiti!
D'altra parte il genere di vita degli eremiti poteva essere praticato da
chiunque, monaco o laico che fosse.
Agli occhi dei loro contemporanei, quindi, l'eremita appariva con tutte
le caratteristiche viste in precedenza e dai singoli casi possiamo trarre delle
descrizioni generali:
Ø
era un asceta che,
rifiutando il mondo contemporaneo che lo circondava, e affrontando una crisi di
coscienza, spesso a seguito di un fatto grave da egli stesso compiuto (magari un
omicidio) o una visione, giungeva alla conversione;
Ø
sceglieva sempre un luogo
solitario e selvaggio (montagna, isola, foresta se non landa desolata), ove
viveva solo o in piccoli gruppi, e ove sopravviveva di ciò che coltivava, o
addirittura, quando non digiunava, dato che di solito evitava la carne, si
nutriva di erbe crude o di frutti selvatici;
Ø
non teneva per niente al
suo aspetto esteriore, e ciò spiega come mai gli agiografi presentino l'eremita
come un personaggio irsuto e barbuto. Inoltre vestiva con abiti laceri, spesso
di lana grezza (magari un cilicio) ed erano scalzi;
Ø
gli erano attribuiti poteri
taumaturgici che, in qualche modo, rappresentavano il dono offerto da Dio per la
sua vita di penitenza, affinché gli usasse per aiutare le genti.
Eroi del vero cristianesimo, per gli eremiti troviamo che la
documentazione agiografica, le vitae, sono spesso tardive. André Vauchez
nota che, ad esempio, nel caso di san Galgano le prime vitae furono
composte agli inizi del XIII secolo, più di vent'anni dopo la sua morte.
Secondo Vauchez furono composte per giustificare il passaggio, avvenuto dopo la
morte dell'eremita, della comunità eremitica da lui fondata all'ordine
cistercense. Ma tutto questo è anche sintomo di quella ricerca di rinnovamento
del monachesimo, che vedeva bene di poter ripartire da una tradizione di tipo
eremitico, molto ben vista dalla popolazione. Lo abbiamo visto per Chelidonia e
per Galgano.
La stessa cosa accade, per esempio, ad Ugolino di Bevagna (morto nel
1360 circa) che costruì, con il permesso del vescovo di Spoleto, un eremo
dedicato a San Giovanni Battista in un bosco nei pressi della suddetta città;
attirati i primi compagni, nel
Tuttavia non sempre, come scritto in precedenza, possiamo rifarci ad una
Vita per ritrovare le azioni di un eremita, bensì ad altre fonti, come
ad esempio ad un decreto di Urbano VIII con il quale il Papa voleva
"catalogare" i santi o i presunti tali non ancora ufficialmente
riconosciuti dall'autorità ecclesiastica, ma al centro di culti e
festeggiamenti da parte delle popolazioni locali. E così, anche se non
possediamo alcuna Vita, per Giolo di Sellano (1250-1315), un eremita che
ha passato buona parte della sua vita in una grotta nel fondo di una vallata
sperduta tra Spoleto e Foligno, si è potuto rintracciare un dossier
nell'Archivio Segreto Vaticano. In esso figurano inoltre le copie di uno statuto
comunale di Sellano del
In mancanza di qualsiasi fonte scritta si possono studiare le immagini, in cui spesso si ritraggono scene di vita dei santi, e che spesso contengono molte e preziose informazioni. Per esempio l'eremita toscano Ventura de Pisignano, morto nel 1310, è conosciuto grazie ad un affresco del XIV secolo; e così per Gérard di Villamagna, di cui abbiamo una piccola ma insufficiente biografia, è conosciuto per le miniature di un manoscritto fiorentino del XIV secolo.
E ancora della presenza di un
eremita o di un santo di cui si è persa la documentazione, possiamo ritrovare
traccia anche nei nomi dei luoghi. Per esempio, Santa Brigida a Lobaco ricorda
la creazione di una chiesetta dove riposavano i resti di Brigida, eremita nei
pressi di Fiesole, che aveva trascorso la sua vita in aspra penitenza e in lotta
con gli animali selvatici, così come Chelidonia. La sua vita è stata
riportata, anche se solo in alcuni dettagli, da Filippo Villani, nipote di
Giovanni, e continuatore della sua Cronica.
E così era il luogo di Ugolina
da Vercelli, la cui storia è riportata nell’opera di Ludovico della Croce:
sappiamo che un devoto pellegrino d’oltremare, tornato nella sua Vercelli,
decise di condurre vita eremitica dove eresse un oratorio intitolato a Santa
Maria di Betlemme, da cui deriva il toponimo Bilemme rimasto ai luoghi: anni più
tardi tale romitorio avrebbe attirato la vergine Ugolina che, piuttosto che
dedicarsi ai peccati incestuosi obbligati dal padre, avrebbe preferito la vita
eremitica.
In Sicilia Sciacca venera da tempo una pia pellegrina, Angela, la quale, dopo aver fatto professione di fede all’Ordine del Carmelo, sarebbe tornata a Sciacca dove avrebbe condotto vita eremitica fino alla morte. Da qui il condizionamento nelle scelte onomastiche della zona per il suo nome.
PER SAPERNE DI PIù
IV
Anna
Maria Finoli, La figura dell’eremita nella letteratura antico-francese, in L’eremitismo
in Occidente nei secoli XI e XII, Atti
della seconda settimana internazionale di studio (Mendola,
30 agosto – 6 settembre 1962),
Società Editrice Vita e Pensiero, Milano 1965, pp.
581-591;
Leggenda di Santo Galgano confessore, appendice al libro di Franco
Cardini,
San Galgano e la spada nella roccia,
collana “I classici cristiani”, edizioni Cantagalli, Siena 2000.
Gérard
Gilles Meersseman, Eremitismo
e predicazione itinerante dei secoli XI e XII, in L’eremitismo
in Occidente nei secoli XI e XII
cit.,pp. 164-179;
Elisabetta
Masetti, Vita di San Guglielmo: la tradizione scritta, in Guglielmo
penitente in Maremma, la fecondità di un incontro (a cura di Sandro
Spinelli, Editrice Il Mio Amico, Roccastrada;
Kaspar
Elm, Un eremita di Grosseto di fama
europea: Guglielmo di Malavalle, in
V
Benedetto
Vetere, Giovanni da Matera monaco eremita, ivi, pp. 211-240;
VI
andré Vauchez,
L’érémitisme dans les sources hagiographiques (France
et Italie),
ivi, pp. 374-388.
©2006 Fabio Figara.