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di FABIO FIGARA

I parte

  

   

Parte I: UN'INTRODUZIONE

L’eremitismo è un fenomeno che riprende nuovamente vigore nei secoli centrali del Medioevo. Poco conosciuti o addirittura totalmente sconosciuti dai più, gli eremiti rappresentano una delle caratteristiche fondamentali del Medioevo.

Spiega Cinzio Violante nel discorso di apertura della Seconda settimana internazionale di studio tenutasi a Mendola tra il 30 agosto ed il 6 settembre 1962: «rifiorito verso la fine del secolo X, l’eremitismo in Occidente sfocia in gran parte nei movimenti e negli Ordini Mendicanti all’inizio del secolo XIII». 

Esistono dei caratteri peculiari che, grosso modo, accomunano tutti, ed altri singolari, propri di un determinato "tipo" di eremita. Tuttavia è pura utopia tentare di scrivere esaurientemente su tutte le tipologie dell'eremitismo e su tutte le varie sfaccettature, siano esse legate al luogo di azione di un eremita o alle caratteristiche dell’asceta stesso. Questo perché solo di un’esigua parte di essi possiamo rintracciare documentazione: una vita (scritta magari da qualche discepolo), il processo di una  beatificazione, anche soltanto una traccia nei registri di qualche abbazia o monastero, i resti di un eremo.

Come ricorda Jean Leclerq nel saggio L’Eremitisme en Occident jusqu’à l’an mil, possiamo studiare i caratteri assunti da questo fenomeno nel corso del Medioevo partendo dalle caratteristiche comuni e costanti  desunte dalle fonti storiche o archeologiche.

Ciò che accomuna principalmente gli eremiti è la ricerca spasmodica della povertà assoluta, l’aspetto peraltro più severo del vasto movimento pauperistico che dopo il Mille comincia ad animare movimenti riformatori in ambienti popolari, soprattutto come contrasto ai vizi in cui sono caduti gli enti ecclesiastici in seguito al loro inserimento nell’economia curtense e nelle strutture sociali. Seguire anzitutto gli orientamenti della comunità apostolica primitiva, mettendo in comune i beni e vivendo di quel poco che necessita, e appunto aderire ad una vita di povertà assoluta sono i principi degli eremiti e, in seguito, degli stessi Ordini Mendicanti.

   

Parte II: il luogo della penitenza

Inizialmente solo nel monachesimo benedettino era prevista la pratica dell’ascetismo di singoli cenobiti al fine di raggiungere un elevato grado di perfezione spirituale e individuale. Ma ciò non era più sufficiente per le nuove esigenze dell’epoca.

Nei secoli XI e XII si provò così a realizzare una forma di vita ascetica severa, pur permanendo all’interno del cenobio. Ma ordini come quello vallombrosano e cistercense, che pure si erano imposti tali regole e che avevano riorganizzato le proprie strutture in tal senso, non durarono a lungo nella renovatio spirituale, e finirono per acquisire chiese, priorati e quant’altri privilegi poterono.

Sappiamo, a sostegno dell’affermazione suddetta, che un cavaliere inglese di nome Guglielmo (William o Guillaume), decise di abbandonare la spada per dedicarsi alla vita eremitica. La sua scelta, il suo cambiamento attirarono le attenzioni del cappellano di corte Ernisius, il quale, incontrato Guglielmo, decise di condividere con lui l’esperienza ascetica suprema. Ma dopo un po’ decisero di passare alla via cenobitica (come nota Hubert Dauphin nel saggio L’érémitisme en Angleterre aux XIe et XIIe siècles, è uno dei rari casi in cui il percorso spirituale avviene all’incontrario) e, ottenuto l’assenso dell’arcivescovo di Canterbury S. Anselmo, dovettero decidere l’ordine. E qui iniziarono i problemi: esclusi i benedettini, per le loro ricchezze eccessive, esclusi i cistercensi, per la loro mancanza di comunicazione con gli altri religiosi e in un momento in cui stavano aumentando esageratamente i loro possedimenti, restavano i canonici regolari.

Già nel 1145 molte comunità eremitiche nate in Francia, all’aumentare dei confratelli, divennero cenobi veri e propri, e si legarono a Cìteaux, a Prémontré o a Cluny. In Toscana la comunità di asceti sorta a seguito della morte di san Galgano, di cui seguiva l’esempio di vita, fu inglobata dall’ordine cistercense.

Ma l’eremitismo solitario, e spesso indipendente da qualunque istituzione, desidera soltanto l’esperienza mistica del colloquio con Dio e nient’altro. L'eremita  vuol rimanere solo ed in costante contatto con Dio, solo nelle intemperie, solo nella fame, solo nella lotta con il demonio. Così e in nessun altro modo può raggiungere la perfezione: tramite la sofferenza, tramite il martirio, quest’ultimo apice del lungo processo di perfezionamento spirituale che passa attraverso il cenobio e l’eremo, così come scriveva Bruno di Querfurt, arcivescovo e missionario alla corte di Ottone III, divenuto in seguito eremita.

Pure Ottone di Frisinga, nella sua Ottonis episcopi Frisingensis Chronica sive Historia de duabus civitatibus, terminata nel 1146, glorificò l'eremitismo. Alla fine del settimo libro egli esalta i monaci del suo tempo in quanto ultimi ed ormai unici veri cittadini della Civitas Dei in un mondo di decadenza, la cui fine è individuata da Ottone come prossima.

Egli da giovane divenne cistercense a Miramondo ma, a causa della lotta tra il fratello, che era margravio d’Austria, ed Enrico il Fiero per il Ducato di Baviera, Ottone dovette diventare vescovo di Frisinga nel 1138, in seguito principe dell’Impero e comandante dell’esercito nella seconda crociata.

E, nell’enumerare i diversi ordini creatisi nel suo tempo, ricorda gli anacoretae et solitarii i quali, pur inferiori di numero, sono uguali se non superiori ai monaci per il rigore e la durezza della loro vita, sia che vivano con pochi fratelli o che siano soli e abbandonati in caverne o in capanne.

Molteplici sono le occasioni di apostolato degli eremiti: predicazione della perfezione dello stato eremitico, conversione degli infedeli, riforma delle comunità monastiche corrotte, correzione dei costumi cittadini, ristabilimento della pace tra fazioni nelle lotte comunali, recupero di eretici e scomunicati, esortazioni ai pellegrinaggi, bando delle Crociate. E l’impegno dell’apostolato è molto più accentuato nei secoli XI e XII che non nei precedenti.

Anche se c’erano già stati nel IX e nel X secolo dei tentativi di raggiungere la perfezione ascetica distaccandosi dal cenobio, ciò non era mai avvenuto del tutto in quanto il vincolo di obbedienza all’abate permaneva.

La differenza, nei due secoli successivi, è che l’eremita dell’XI o del XII o del XIII secolo è spesso un laico, e quindi non ha una vita precedente legata ad un cenobio o ad un qualunque altro ordine.

E lo si vede anche nella letteratura: se nel IX secolo Grimlaico aveva riconosciuto nella sua Regula Solitariorum che l’itinerario perfetto all’eremo era il passaggio dalla vita cenobitica, nei secoli successivi Romualdo e Pier Damiani scrivevano che ciò non era assolutamente necessario.

Soluzione meravigliosa di questa diatriba che oggi definiamo storica furono proprio gli Ordini Mendicanti, in cui la vita comune, seppur in forme originali, poté accordarsi con l’assoluta povertà.

Per compiere uno studio approfondito dell’identità degli eremiti bisogna trarre dai singoli casi delle regole generali. Anzitutto è il luogo in cui l’asceta decide di vivere che lo differenzia dagli altri. Oggi diremmo “eremo” per indicare una sorta di monastero di piccole dimensioni, o anche una semplice cappella se non una cella, posto in luogo sperduto e difficilmente raggiungibile.

Ma questa è una differenza che corre soprattutto sui vari significati assunti dal termine eremus nel corso dei secoli. In epoca patristica il termine eremus rievocava  piuttosto il luogo – spesso proprio un deserto – e altresì il simbolo della renovatio spirituale che porta ad una maggiore conoscenza e coscienza del Verbo, e rappresenta il miglior modo di rivivere e di apprezzare le Scritture, compiendo i percorsi – fisici e spirituali – dei Profeti come Elia, Mosè e Giovanni Battista, e permettendo di partecipare alla solitudine di Cristo nelle notti di preghiera e durante la Sua Passione; in seguito l’eremus rappresentava ormai uno stile di vita, non più solo un luogo o un percorso spirituale. E si faceva largo la distinzione tra l’anacoreta e coloro che desideravano ricercare un rapporto più stretto con Dio tramite la vita comunitaria: e così se l’ermite era un individuo solitario che viveva in completa solitudine o tutt’al più con uno stretto numero di compagni, troviamo già coscienza del cenobium, comunità di solitaires che, insieme, ricercavano appunto l’unione con Dio tramite la vita semplice e la preghiera.

Approssimativamente tra il VI ed il X secolo si ebbe una completa differenziazione tra eremitismo e monachesimo. Il sostantivo eremus assunse ancora una connotazione più precisa. La terra erma si opponeva alla terra culta o culturata: la prima era incolta, non lavorata, completamente abbandonata, addirittura inabitabile. Solo dall’XI secolo il termine eremus è utilizzato per indicare anche i siti monastici.

E non è detto che esso sia comunque definitivo. Guglielmo di Malavalle, prima di stabilirsi nello Stabulum Rodis, fa la spola tra due o tre luoghi differenti.

La scelta del luogo è però compiuta dall’eremita con attenzione: più il luogo è inabitabile, più è conforme al nuovo stile di vita. I patimenti al quale va incontro un eremita sono ben evidenziati nel processo di beatificazione di san Galgano, il quale si era rifugiato su un’altura, Montesiepi, dopo che l’Arcangelo Michele gli aveva fornito in sogno indicazioni più che precise. Questo è un luogo considerato, nel XII secolo, abitato da spiriti maligni.

Nella deposizione della madre di Galgano, Dionigia, durante il suddetto processo, ella ricorda il momento in cui Galgano prende la decisione di abbandonare la spada e prendere il bastone da eremita. Dopo tale visione Galgano cerca dapprima sostegno tra gli amici per potersi costruire una cella circolare così come l’aveva veduta in sogno. Ma ottiene risposte del tipo: «tu vuoi raccogliere del denaro e truffare. Vattene oltremare».

Dopo aver però ottenuto il sostegno sperato soltanto dalla madre, quest’ultima, avendo udito in quale luogo voleva recarsi il figlio per adempiere alla sua missione spirituale, gli dice: «Figlio mio, il freddo [su Montesiepi] è eccessivo, la fame intensa, il luogo quasi inaccessibile []».

Ed infatti grandi erano le prove fisiche alle quali dovevano sottoporsi. E, sia ben inteso, tali prove portavano alla morte prematura degli eremiti. Così come fu per Francesco e Chiara d’Assisi e Antonio di Padova. La morte, per i digiuni prolungati, per la dieta spesso a base di erbe selvatiche e acqua, per i sacrifici del lavoro manuale e per le pratiche ascetiche quasi crudeli (Guglielmo di Malavalle lavorava intensamente la terra attorno al suo eremo e portava sotto il lurido vestito delle catene che gli laceravano le carni) giungeva in fretta.

   

Eremiti….al femminile

L’habitat eremitico coincideva spesso con l’immediata periferia extra-urbana, senza necessariamente evocare l’horridum di foresta o dell’inabitato. E sotto quest’ultimo aspetto è particolare l’esperienza delle cellane e recluse. Come afferma André Vauchez, «pour le femmes, la forme normale de la vie religieuse n’etait pas l’érémitisme, mais la réclusion». Se inizialmente solo di Chiara d’Assisi potevamo conoscere esattamente la biografia, nel corso degli ultimi anni uno studio sistematico e approfondito ha portato alla conoscenza di molte recluse. In realtà le donne eremite o cellane esistevano da sempre, solo che dal XIII secolo in poi cominciarono a moltiplicarsi delle recluse urbane viventi sia sole che con una o più compagne, spesso vicino alle porte di una città, di ponti, di ospedali o di cimiteri. E la loro sussistenza materiale era assicurata dagli stessi fedeli, mentre l’assistenza spirituale era data loro da vescovi della zona o dal clero.

Vari sono i documenti in cui si può trovare menzione delle incarcerate: ad esempio nel 1303 Francesco, vescovo di Gubbio, emanava delle disposizioni per regolamentare la situazione delle incarcerate nella sua diocesi; nel processo di canonizzazione del beato Simone da Collazzone (1252) si ricorda una reclusa da lui miracolata e due sue compagne; dai documenti notarili fiorentini si apprende di una Firenze “infestata” da minuscoli reclusori femminili; la Roma post-giubilare vantava un numero impressionante di recluse, tanto da crearne una contrada. Basta comunque ricordare anche la Leggenda Maggiore di san Bonaventura, in cui è riportato l’episodio di Prassede, incarcerata romana miracolata da Francesco.

Nella frammentarietà delle fonti, eccezione è rappresentata senza dubbio dal caso di Chelidonia. La sua Vita, scritta da un anonimo, riporta quanto la santa, nata a Cicoli, in Abruzzo nella seconda metà dell’XI secolo, fosse animata dalla vocazione per la vita solitaria. S’insediò così a Mora Ferogna, presso l’abbazia sublacense, dove interruppe la sua solitudine solo per affrontare un pellegrinaggio a Roma.

Riporta l’anonimo scrittore che affrontò digiuni, freddo e animali selvatici. Inoltre ci informa di come i suoi vicini le chiedessero consigli e preghiere, remunerandola con doni alimentari.

Purtroppo la mascolinità richiesta per la vita eremitica provocava una sostanziale diffidenza da parte della società ecclesiastica del tempo nei confronti delle donne, e questo può forse spiegare la penuria di storie di sante.

Tuttavia c'è da notare che la situazione della donna eremita varia da paese a paese. Se in Germania non troviamo menzione di donne eremite, altrettanto non si può dire dell’Inghilterra: per esempio sappiamo di una reclusa, Christine, divenuta priora di una comunità di benedettini, «la première prieure» in assoluto.

Molto singolare la sua vicenda. Giovane ragazza di Huntingdon, dopo una visita all’abbazia di St. Albans, fece a quindici anni voto di castità per darsi completamente a Dio, e testimone di questo voto fu un canonico regolare dell’abbazia, Suenon, peraltro suo confessore.

Tutta la prima parte, se così si vuol dire, della sua vita, fu una lotta eroica per prestare fede a quel giuramento. I suoi genitori infatti volevano farla sposare. E anche il vescovo di Durham, Raoul Flambard, la invitava a prender marito. Dopo molte vicissitudini, suo malgrado, contrasse matrimonio.

Tuttavia desiderando ardentemente prestare fede al giuramento almeno nella forma ascetica, s’incontrava clandestinamente con un venerato eremita di nome Edwin.

Approfittando poi di una visita che i suoi parenti fecero ad un altro eremita, Guy, che viveva a poche miglia da Huntingdon, riuscì a fuggire, rifugiandosi presso una reclusa, Alfwen. Dopodiché fu avviata alla totale esperienza eremitica da Roger, ex monaco di quell’abbazia di St. Albans dove anni prima aveva fatto il voto. Questo Roger, dopo un pellegrinaggio a Gerusalemme, si era ritirato a vita eremitica insieme ad altri cinque ex monaci a Markyate.

Dopo vari anni di vita in condizioni estreme, Christine riuscì a farsi annullare il matrimonio dall’arcivescovo di York, Thurstan.

Per tutte le sue vicissitudini, ella fu ricompensata con la visione di Gesù Bambino, seguita da altri eventi miracolosi che la vedevano protagonista. A seguito di tali eventi, molti capi di monasteri, provenienti da tutta l’Inghilterra, le rendevano visita. Infine fu scelta come priore.

E sempre in Inghilterra troviamo un’altra peculiarità dell’eremitismo “britannico”: molti eremiti trovano nelle piccole isole il luogo perfetto per la meditazione. Così come sant'Henry de Coquet Island, un laico nato in Danimarca, poco prima del suo matrimonio capì che la vita da seguire doveva essere quella eremitica, e si rifugiò nella suddetta isola.

   

Parte III: solitudine ma non troppo

Ciò che più colpisce degli eremiti vissuti tra l’XI ed il XIV secolo è che la loro solitudine dovuta alla ricerca della vita contemplativa non esclude le relazioni umane: è molto difficile che gli eremiti non siano mai visitati dalla popolazione dei borghi intorno al luogo ove vivono, o addirittura viceversa. Indubbiamente viene l’immagine di un individuo che, isolandosi dal resto del mondo, vivendo al di fuori della società del suo tempo, situa il suo luogo di penitenza in un punto creduto irraggiungibile, per evitare il coinvolgimento con la mondanità. Ma appena diffuse le voci su presunti o reali miracoli avvenuti per loro intercessione, o di lotte contro i diavoli, inevitabilmente pellegrini e popolani intraprendono il tortuoso percorso per giungere allo loro presenza.

L’eremita, al contrario del cenobita, diviene così una figura familiare nella società medievale, perché ha maggiori possibilità d’incontrare la gente comune.

E così, sempre nel processo di beatificazione di Galgano, vediamo come vengano interpellati miracolati o testimoni di miracoli avvenuti anche dopo la morte del santo. Ad esempio, un tal Giovanni da Chiusdino disse che poco tempo dopo la conversione del santo andò a cercarlo e, avendolo trovato, il santo Galgano gli diede tre pezzi di pane grosso e gli disse di darlo ai primi tre poveri che avesse incontrato. Non trovandone, li diede alla moglie chiedendole di fare quanto detto dal santo il giorno dopo. La mattina seguente, i pani erano raddoppiati, e avevano addirittura diverso colore e sapore. 

Ma non solo: molti di essi si spostavano in paesi lontani o si dedicavano ad una vita di peregrinazioni: agli inizi dell’ XI secolo sappiamo che il monaco Simeone del Sinai venne in Lotaringia, dopo aver conosciuto l’abate di Saint-Vannes, e abitò per il resto dei suoi giorni da recluso in un’ala della Porta Nigra a Treviri. Molti eremiti erano soliti andare addirittura in pellegrinaggio, una o più volte nella vita. Così come molti si recavano a Roma, altri giungevano addirittura a Gerusalemme, al sepolcro del Signore: come un certo Aldwin, che viveva nella regione di Malvern, in Angleterre, insieme al suo compagno di preghiera Guy, e altri ancora a Santiago di Compostella: il beato Franco Lippi da Grotti, giovane nobile o figlio di contadini (c'è discordanza nelle fonti), divenuto bestemmiatore e delinquente, colpito da una malattia agli occhi, diviene cieco, e solo dopo un'apparizione di san Giacomo parte per la Galizia; dopo un'ulteriore apparizione della Madonna si ritirerà eremita.

Gli eremiti potevano addirittura orbitare intorno alla corte di sovrani. Il re d’Ungheria Stefano creò una prima rete di diocesi e parrocchie, in sintonia con il grande sogno di un regno cristiano, così come egli aveva sperato. Dopo aver creato anche una serie di ospizi lungo le maggiori vie di pellegrinaggio per Roma, per Costantinopoli e per Gerusalemme, ricordiamo un monaco di Venezia, Gerardo (Gellért) fermato da re Stefano sulla via di Gerusalemme e ordinato vescovo della diocesi di Marosvàr. Questo Gerardo avrebbe scelto da principio la solitudine a Bakonybél, non lontano dalla residenza reale, ove sarebbe rimasto per ben sette anni prima di esercitare l’ufficio vescovile.

Essendo uno stato con una struttura ecclesiastica nuova, il re doveva porre delle persone di fiducia alla guida delle diocesi, individui fedeli e di alta caratura morale, anche per non squilibrare troppo il sistema dei poteri.  

L’abbazia di Bakonybél fu fondata a sua volta da un altro eremita, Günther di Niederaltaich, un nobile di Turingia che aveva scelto la via della penitenza pro delictis iuventutis, nei pressi della distesa desolata dove era solito ritirarsi. Il suo legame con re  Stefano sembra essere stato stretto tanto quanto quello di Gerardo. Nella biografia di Stefano è riportato che Günther era solito addirittura svuotare l’intera tesoreria reale e distribuirne le ricchezze ai poveri. Inoltre faceva spesso da intermediario tra Stefano e i sovrani dei paesi confinanti.

La stessa dinastia ottoniana affidava compiti di natura politica agli eremiti. D’altro canto non solo erano individui dalla morale impeccabile, ma rappresentavano altresì la sacralità del governo imperiale agli occhi degli altri sovrani. Molti asceti, soprattutto greci, austeri e non troppo esibizionisti, godevano di alta stima in tutto l’occidente e offrivano l’impulso della riforma ascetica.

Bastino le molteplici attività missionarie del già menzionato Bruno di Querfurt (il quale, dopo aver tentato la conversione dei prussiani, morì decapitato) e l’ambasciata di Giovanni di Gorze al califfo di Cordoba.

E comunque Ottone III era il primo a compiere pratiche ascetiche per purificarsi dai peccati e addirittura sembra fosse stato amico di Romualdo di Ravenna, iniziatore dell’Ordine dei Camaldolesi e morto nel 1027, il quale lo avrebbe addirittura accolto per un breve periodo nella sua comunità di eremiti nelle paludi proprio presso Ravenna. 

Sovente il diffondersi del culto di un eremita può essere inquadrato in una precisa opera politica. La storia di Chelidonia, ad esempio, è leggibile in una rivalutazione del Subiaco benedettino. Allo stesso modo il culto di san Galgano sembra essere stato incentivato dal vescovo volterrano Ildebrando Pannocchieschi, il quale non solo sollecitò la venuta dei cistercensi in prossimità del romitorio, ma vide, come scrive Franco Cardini, anche una «funzione pacificatrice del nuovo culto», una specie di «nuovo santo concepito per dirimere contese - frequenti nell'alta Val di Merse - che certo coinvolgevano la feudalità locale, ma anche il tessuto ecclesiastico dell'intera zona».

Le lotte con il demonio

La solitudine però poteva avere conseguenze anche molto più pesanti. Non è raro trovare nelle fonti agiografiche lotte corpo a corpo sostenute dagli asceti contro il demonio.

Sia Galgano che Guglielmo, ad esempio, combattono contro il maligno a più riprese, altrettanto quanto Chelidonia: l’anonimo agiografo riporta come il demonio, assumendo forme di bestie feroci, cercava di atterrirla.

Gherardesca da Pisa, divenuta cellana dopo un matrimonio, una notte fu trascinata fuori dalla sua cella da un demone e da lui abbandonata su un navicello nell’Arno nel tentativo di affogarla, ma fu tratta in salvo da alcuni angeli.

D'altra parte la presenza del diavolo è nota in tutti i paesi occidentali. Ma «non si cerchi alcuna coerenza in questo essere - scrive Pietro Clemente - miscuglio eterogeneo, che ha per ingredienti il Satana biblico, i cattivi spiriti stranieri, Pan dal piede caprino e, a volte, il diavolo orientale o Jinn» se non addirittura di orco, soprattutto nella tradizione tedesca. Dopo il Medioevo diviene un essere con piede biforcuto, coda e barba. Ma nel corso del Medioevo esso è rappresentato come etiope nerissimo, moro con artigli di animale, asino con orecchie lunghissime, satiro, lupo, bellissima giovane, serpente, finti sant'uomini, pellegrino che scompare, leone, puzza nell'aria, orso, memorie del peccato carnale e addirittura come un gigante.

Nella documentazione relativa a Franco Lippi da Grotti, il diavolo appare più volte in queste forme. Ma non solo: tenta di far perdere la pazienza al Santo nascondendogli le cose per non fargliele più trovare, anche se molto spesso Franco - spiega sempre Pietro Clemente - riesce a metterlo in fuga ugualmente «con tante mazzate».

Segue

        

PER SAPERNE DI PIù

PARTE I

L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, Atti della seconda settimana internazionale di studio (Mendola, 30 agosto – 6 settembre 1962), Società Editrice Vita e Pensiero, Milano 1965. In questa raccolta:

   Þ          Cinzio Violante, Discorso di apertura

   Þ          Hubert Dauphin, L’érémitisme en Angleterre aux XIe et XIIe siècles

   Þ          Jean Leclercq, L’érémitism en Occident jusqu’à l’an mil

   Þ          Herbert Grundmann, Eremiti in Germania dal X al XII secolo: «Einsiedler» e «Klausner»

PARTE II

Anna Benvenuti, Eremitismo urbano e reclusione in ambito cittadino, in Ermites de France et d’Italie (XIe-XVe siècle) sous la direction d'André Vauchez, Ėcole Française de Rome 2003, pp. 241-253;

Anna Benvenuti, Velut in Sepulcro - Cellane e recluse, in «In Castro Poenitentiae» - Santità e Società femminile nell’Italia medievale, raccolta di Italia Sacra – studi e documenti di Storia ecclesiastica n° 45, Herder Editrice e Libreria, Roma 1990, pp. 306-402;

Hubert Dauphin, L’érémitisme en Angleterre aux XIe et XIIe siècles, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII cit., pp. 271-310;

Herbert Grundmann, Eremiti in Germania dal X al XII secolo: «Einsiedler» e «Klausner», in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, Miscellanea del centro di studi Medioevali IV, atti della seconda settimana internazionale di studio - Mendola, 30 agosto – 6 settembre 1962, Società Editrice Vita e Pensiero, Milano, pp. 311-329;

Cécile Caby, Finis Eremitarum? Les formes régulièeres et communautaires de l'érèmitisme médiéval, in Ermites de France et d’Italie (XIe-XVe siècle) cit.,  pp. 47-80.

PARTE III

Gérard Gilles Meersseman, Eremitismo e predicazione itinerante dei secoli XI e XII, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII cit., pp. 164-179;

Marina Miladinov, Dalle Laure ai Paolini - Le comunità eremitiche in Ungheria, in Ermites de France et d’Italie (XIe-XVe siècle) cit., pp. 389-411;  

Herbert Grundmann, Eremiti in Germania dal X al XII secolo: «Einsiedler» e «Klausner» in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII cit., pp. 311-329;

Pietro Clemente, Franco Lippi da Grotti, in Ermites de France et d’Italie (XIe-XVe siècle) cit., pp. 315-341;

Anna Benvenuti, Velut in Sepulcro cit.,  pp. 306-402;

Franco Cardini, San Galgano e la spada nella roccia, collana “I classici cristiani”, edizioni Cantagalli, Siena 2000.  

    

   

©2006 Fabio Figara.

   

  


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