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di VITO BIANCHI
Relazione presentata all'incontro-dibattito sul tema “Il ruolo della Provincia di Brindisi nel dialogo con i Paesi di cultura e religione islamica del Mediterraneo”, con Khalid Chaouki, presidente Giovani Musulmani d’Italia (Brindisi, 15-21 novembre 2004)
Il mondo nella mappa di al-Idrisi (XII secolo)
Chissà se un giorno qualcuno riuscirà a spiegare il cronometrico tempismo con cui Osama Bin Laden ha saputo tirare la volata decisiva alla rielezione di George W. Bush a presidente degli Stati Uniti d’America. Il nucleo della campagna elettorale di Bush, come si sa, era stato incentrato sul problema della sicurezza del popolo americano, e il tempestivo intervento di Osama, coi suoi proclami catastrofici, a una manciata di ore dal voto, somigliava tremendamente al lavoro che, nel ciclismo, gli umili gregari svolgono in vista del traguardo, affinché il proprio capitano sia messo nelle condizioni ideali per guadagnare la vittoria. Uno dei capisaldi su cui Bush ha costruito il suo successo è stata la paura. Quella paura in cui rifugiare le ansie indotte, quella paura che si è attaccata sulla pelle degli Americani, e che, da qualche tempo, si sta tentando di estendere a tutto il cosiddetto mondo Occidentale. La paura è il brodo ideale in cui coltivare la diffidenza, alimentare l’ignoranza, alzare gli steccati intorno alle menti e ai cuori, e dentro a quegli steccati darsi un’illusoria sicurezza di superiorità.
Ora, per avere seriamente paura, bisogna che ci sia qualcuno o qualcosa che faccia paura. E se questo qualcosa o qualcuno non esiste, lo si può sempre scovare da qualche parte nel grande magazzino del nostro pianeta, o lo si può inventare, creare dal nulla, in forma di materiali pericolosissimi o di inafferrabili e terrificanti personaggi, che diventano miti nella spaventata psicologia collettiva. è così, e nessuno lo può negare, che fu inventato il mito delle armi di distruzione di massa, un’inequivocabile bugia che doveva per l’appunto ingenerare paura, condurre la società ad arricciarsi su se stessa e a tirare fuori gli aculei. Sull’antrace dell’altro ieri, sul mullah Omar con un occhio solo, cattivo e pericoloso come Polifemo, e su Osama Bin Laden, lascio a ciascuno, e soprattutto al tempo, il giudizio.
Di fatto, l’attenzione alla cultura orientale, islamica e araba in genere, è esplosa proprio in conseguenza delle catastrofi belliche che hanno colpito l’Afghanistan e l’Iraq, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. è stata così innescata l’idea che sia in atto uno scontro fra cultura occidentale e cultura musulmana anziché, come sempre, un regolamento di conti fra blocchi di interessi finanziari e politici. A ben guardare, questo risveglio è stato attivato soprattutto dalla necessità, per un Occidente in profondissima crisi di prospettive, di individuare un nemico: la diversità irriducibile su cui rovesciare l’isterismo cieco di un sistema ormai rassegnato alla perdita di senso, nel quale la volgarità dei bisogni più rozzi ha ormai quasi completamente sradicato il desiderio di una spiritualità che non sia finzione decorativa o apparato di sostegno al potere.
Ma esiste un antidoto, per superare i terrori che ci vogliono inoculare, per comprendere i meccanismi che ci vengono prefabbricati attorno. è un anti-virus potentissimo, capace di annullare i blocchi a cui ci costringe la paura, che consistono nello sprezzo dell’“altro”, nella chiusura in noi stessi e nello stagnare dell’oscurantismo: tutti elementi che lievitano giornalmente, spesso senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Questo anti-virus speciale, che è in grado di renderci un po’ più consapevoli e dunque più liberi, risiede nella ragione e nella conoscenza. E allora, piuttosto che abbandonarci a pedagogie ireniche, andiamo subito al Corano: nel Corano si dice che «La ricerca della conoscenza è obbligatoria per ciascun musulmano, uomo o donna che sia». Mentre in un suo famoso detto, lo stesso Maometto ammoniva a «Cercare la scienza, fosse pure in Cina». Naturalmente, la conoscenza può essere cercata in varie maniere. E può anche essere negata da informazioni distorte o da mancanza di informazioni.
«Dov'è Bin Laden? Dov'è al-Qaida?»: vignetta dal sito www.arabroma.com
Ecco perché è
importante ricercare la verità andando al di là di quanto ci viene imbandito
quotidianamente. Pensiamo un po’ ai libri di testo scolastici, su cui si
formano generazioni di uomini: fino a pochi anni fa, e in molti manuali ancora
oggi, la storia del Mezzogiorno medievale contava quanto il due di briscola. Ai
rapporti prolungati e profondi fra l'Islam
e il Meridione, si faceva e si fa a malapena qualche timido accenno. Impera un euro-centrismo scolastico che tratta l’Islam
siciliano (quasi due secoli e mezzo di storia, mica uno scherzo) al
massimo in mezza paginetta. Senza spiegare che la Sicilia visse due distinte
presenze islamiche: sunnita la prima, sciita la seconda. Il che indurrebbe di
per sé a chiedersi come e perché esistano in seno all’Islam la corrente dei
Sunniti e la corrente degli Sciiti. Non so quanti fra coloro che sono qui
presenti ne abbiano mai sentito parlare a scuola. Eppure la Sicilia venne
trasformata in un Paradiso terrestre dalle sopraffine tecniche agricole
introdotte dal mondo islamico, secondo quanto ci riferiscono non solo gli
scrittori medievali, ma anche lo stesso dialetto siciliano, che conserva la
matrice araba in gran parte dei termini usati dai contadini. Le colture dei
meravigliosi agrumi di Sicilia risalgono proprio alla presenza arabo-islamica.
Senza parlare della poesia araba nella letteratura: prima ancora di Maometto,
gli Arabi avevano sviluppato forme metriche e poetiche di incredibile bellezza.
E la scuola poetica duecentesca della Sicilia, che tanto influenzerà la
letteratura italiana, si formerà, in età normanno-sveva, in un contesto dove
la cultura araba era ancora vivace.
E allora, per capire un po’ di più ciò che accade intorno, soprattutto quando intorno è tutto confuso da bugie e mistificazioni, val la pena tenere a mente un concetto di Moni Ovadia, artista, scrittore e attore ebreo, che dice: «Se non sai dove stai andando, girati per vedere da dove vieni». Non è il semplice e semplicistico guardare indietro alla storia come magistra vitae. Altrimenti, se l’approccio è acritico, si rischierebbe anche di dire che l’Italia è stata una grande potenza musulmana, allorché in età fascista il colonialismo italiano comprendeva Somalia e Libia, che erano nazioni musulmane al 100%, insieme a un’Albania musulmana al 70%, a un’Eritrea musulmana al 50% e a un’Etiopia musulmana al 40%: era l’epoca in cui Mussolini si faceva ritrarre impugnando la “spada dell’Islam”, e in Italia (anche questo viene spesso ignorato nei libri di storia) veniva istituita nel 1937 l’Associazione musulmana del Littorio, per garantire i servizi religiosi essenziali ai musulmani dell’impero presenti nella penisola, curando l’applicazione del diritto coranico. Si capisce come dietro simili iniziative, di apparente integrazione religiosa, vi fossero motivazioni esclusivamente strumentali, sicché si agevolava l’Islam nello stesso momento in cui si inasprivano le persecuzioni contro gli Ebrei.
Dunque è importante guardarsi indietro, e cercare la conoscenza con la ragione: vuol dire interagire con la storia, per attivare un meccanismo di riconoscimento identitario grazie al quale possono essere risolte molte paure. Ed è allora che la chiusura si trasforma in apertura, dando vita al dialogo. Quel dialogo che è possibile realizzare adoperando la ragione, una ragione che riconosca le specificità delle diverse culture. Lo chiarisce anche Umberto Eco quando dice che: «La comprensione tra culture non avviene quando si trovano le identità, ma proprio quando si accettano le differenze. E qualsiasi impero governi oggi o nei prossimi secoli, potrà farlo solo se riuscirà a portare alla luce e a rispettare queste differenze». Ritengo che qualsiasi forma di dialogo islamo-cristiano possa essere fruttifera proprio perché ci dà l’opportunità di conoscerci meglio, di ragionare e superare le paure che ci vengono propinate. è l’occasione per celebrare la specificità di culture diverse, ma non per questo nemiche, contro l’omogeneizzazione e l’omologazione. Senza, peraltro, che ciò impedisca le feconde e umanissime contaminazioni fra culture e società.
è
in una simile consapevolezza che può essere rafforzato il ponte fra l’Islam e
l’Europa, fra l’Islam e l’Italia, fra l’Islam e la Puglia. E la Terra di
Brindisi, in questa prospettiva, non può che rivestire un ruolo fondamentale.
Da sempre, la Terra di Brindisi è un ponte con il Levante, la Porta fra Oriente
e Occidente. I porti del Brindisino sono stati il riparo più accogliente per i
vascelli che andavano o venivano dal Mediterraneo orientale. Lo sapevano i
Micenei, che da Creta, Cipro e Rodi vi attraccavano per scambiare merci coi
villaggi indigeni nell’Età del Bronzo. E lo apprezzava ancora la bella società
ottocentesca, durante l’epopea della Valigia delle Indie, il naviglio
che via Brindisi connetteva Londra con Bombay. Per Brindisi e la Puglia il mare
è stato ed è un continente liquido, che qui, più che altrove, non separa, ma
unisce, come ricordava Fernand Braudel. Anche a livello squisitamente religioso,
sin da età pre-romana e romana colonie di ebrei, di siriani e di asiatici in
genere introdussero forme devozionali mutuate da aree solo apparentemente
lontane. Famiglie che possedevano un proprio patrimonio di religiosità e
credenze, legato alle divinità dei Paesi d’origine, si portarono appresso gli
dèi della Frigia, della Siria, dell’Egeo e dell’Egitto, Cibele e Attis,
Iside e Osiride, Arpocrate, la dea Syria e i Cabiri di Samotracia. Basta entrare
nel bellissimo Museo archeologico provinciale di Brindisi per trovare le statue,
le epigrafi, i segni di una diffusa devozione per queste divinità importate
dall’Oriente, accompagnata da rituali che talora si tramandano nelle usanze
popolari e nello stesso cristianesimo, fra Madonne nere che discendono dalle
figure isiache, e consuetudini devozionali che pescano nel repertorio
pagano-orientale più arcaico. Con simili premesse, c’è da chiedersi
(provocatoriamente?) perché nella costituzione europea non si sia pensato di
inserire il riferimento alle “radici pagane” dell’Europa: se il cosiddetto
mondo occidentale si è prodotto nel crogiuolo culturale dell’antichità
classica, le radici religiose affonderebbero in Giove e Giunone, in Mercurio e
Nettuno e tutto il politeismo annesso. Non certo in quel cristianesimo che,
peraltro, al pari degli altri culti pagani, giunse anch’esso dall’Oriente.
La
Terra di Brindisi, come un po’ tutta la Puglia, è dunque un luogo
privilegiato per l’incontro di genti e religioni. L’Islam ha avuto qui dei
momenti di intenso radicamento. Nell’838 Brindisi divenne musulmana.
Dall’840 all’880 Taranto fu sede emirale. E Bari, fra l’847 e l’871,
ebbe un emirato ufficialmente riconosciuto dal califfo di Baghdad. E a proposito
dell’emirato barese: secondo una tradizione locale, fu proprio in quel
frangente che vennero traslate le ossa di san Sabino (l’altro protettore
cittadino, insieme a
san
Nicola) da Canosa a Bari. Tutt’altro che integralismo
religioso, quindi. E fu allora che il terzo degli emiri baresi, Sawdàn, pianse
il giorno in cui vide il dotto ebreo Abu Aaron, che per circa sei mesi gli era
stato prezioso consigliere, lasciare la sua corte per tornare in Oriente. E
sempre a quel periodo, allorché erano più agevoli i rapporti con le sponde
islamizzate del Mediterraneo orientale, diversi studiosi hanno addebitato
l’origine delle fortune commerciali del porto di Bari: un ruolo che,
evidentemente, si è perpetuato sino ad oggi. E non si può ignorare che,
durante l’emirato, a Bari non un tumulto, non una rivolta, non una protesta si
levò da parte della popolazione locale.
Il
fatto è che nel Medioevo un governo di matrice islamica poteva essere più
conveniente per tutti, anche per coloro di religione diversa: il Corano
infatti stabilisce che ebrei e cristiani, detti la “Gente del Libro” perché
si rifacevano ad altri Testi riconosciuti come sacri dall’Islam, quali la
Torah e il Vangelo, erano sì sottoposti a una tassa di religione, se si vuole
discriminante. Ma rientravano in tal modo nella fascia dei cosiddetti dhimmi,
i protetti, che, pagando la tassa, avevano il diritto di venerare il proprio
Dio, di leggere i propri testi sacri, di svolgere le proprie liturgie e
amministrare le proprie comunità. E non si può dimenticare come nel Brindisino,
a Oria principalmente, ma anche nello stesso capoluogo, fiorirono delle comunità
ebraiche di grande importanza, foriere di uno sviluppo culturale ed economico di
notevole ampiezza: sempre l’emiro di Bari Sawdàn, che nel IX secolo dominava
tutta la Puglia, ne rispettò non a caso la cultura e le tradizioni, cosciente
di trovarsi di fronte a una forma di civiltà evoluta e capace di offrire un
contributo alla costruzione di una casa comune.
La
Terra di Brindisi, la Puglia e il Mezzogiorno d’Italia erano insomma un melting
pot in ebollizione. Un melting pot cui contribuirà profondamente la
cultura islamica. Quella civiltà che, anche con i Normanni, ebbe una notevole
capacità e possibilità d’espressione.
è
così che l’Islam, senza che ce ne rendiamo conto, fa parte di noi pugliesi.
Ricorre nei cognomi (uno per tutti: il diffuso Morabito, da al-murabitun)
o nel dialetto (in barese, il denaro viene ancora detto tarnìse, da tarì,
la moneta araba fresca di conio). Per non dire delle testimonianze artistiche:
basti pensare ai capitelli con grifoni di modello islamico nella cripta della
cattedrale di Otranto, al portale della chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo a
Lecce, al portale della
cattedrale di
Bitonto, alle decorazioni del duomo di
Matera. A Canosa, poi, il mausoleo di Boemondo possiede iscrizioni in lingua
araba sui medaglioni della porta di bronzo. E nel
duomo canosino, la cattedra
del vescovo Ursone richiama nella decorazione la tipica scultura islamica in
bronzo.
A Bari, motivi cufici ornano il mosaico pavimentale nell’abside della basilica romanica di S. Nicola. E l’archivolto del portale del duomo di Trani trabocca di motivi di derivazione orientale e, ancora, di caratteri cufici.
In Terra di Brindisi, se si osserva la chiesa brindisina di S. Maria del Casale, non si potrà non riconoscere come il protiro aggettante e le decorazioni bicrome richiamino soluzioni islamiche, muqarnas, sporgenze arabeggianti dei piani superiori su quelli inferiori. E ancora, l’influenza della cultura islamica si concreta nell’assetto urbanistico di parecchie località, nei borghi antichi che sanno di Oriente mediterraneo, coi loro vicoli e le loro stradine, con un’influenza tanto più forte quanto più minuscoli e meno rimaneggiati appaiano i centri storici. è quanto si rileva per Ostuni, Martina Franca, Gallipoli, Grottaglie o Bitonto, insieme ai casi più eclatanti di Taranto, Bari o Matera.
Ma
la Terra di Brindisi è anche luogo di
Federico
II, personalità complessa e
controversa del Medioevo, artefice della cosiddetta “crociata
diplomatica”
del 1229, quando venne insignito del titolo di re di Gerusalemme senza
spargimento di sangue, mediante accordi diplomatici con il sultano al-Malik
al-Kamil. Alla corte dell’imperatore svevo si radunarono gli intellettuali
cultori di scienza e tecnica araba, che erano in grado di trasmettere il portato
degli studi più aggiornati di alchimia e medicina, filosofia e matematica,
astrologia e astronomia: i più scientificamente progrediti, nel Duecento.
Certo, Federico II si rese anche protagonista di un’atroce repressione di
alcuni nuclei islamici di Sicilia: dal 1222, condusse in prima persona una
pulizia etnica che si risolse in un bagno di sangue, con l’evacuazione di
donne e bambini, e la distruzione di moltissimi paesi. I sopravvissuti vennero
deportati dalla Sicilia in Puglia, soprattutto a
Lucera, civitas sarracenorum,
dove al tempo di Manfredi è ricordata l’esistenza di una “Casa della
scienza”, in cui si coltivavano le dottrine speculative, sulla falsariga degli
istituti scientifici di Baghdad e del Cairo.
Furono
gli Angioini a infliggere il colpo mortale alle presenze islamiche in Puglia.
Nell’anno del primo giubileo della cristianità, indetto da papa Bonifacio
VIII, una mini-crociata pugliese si compì il 15 di agosto del 1300 da Barletta
a Lucera, con lo sterminio e la riduzione in schiavitù di quasi tutti i
Saraceni, che vennero avviati ai mercati schiavistici di Terra di Bari, Lucania
e Napoli. Solo in pochi si salvarono, in specie fra i maggiorenti e relativa
servitù, disposti a convertirsi al Cristianesimo pur di non diventare schiavi.
In
seguito, col
sacco di Otranto del 1480 e le scorrerie piratesche del Cinque, del
Sei e del Settecento, la Puglia conobbe l’Islam ottomano. Che era un Islam
differente da quello dei secoli precedenti, che era stato piuttosto un Islam
impastato di Arabia, di Maghreb, di Medio Oriente o di Andalusia. Sì, perché
non si può pensare che l’Islam rimanga tale e quale ovunque attecchisca e in
qualsiasi contesto etno-geografico. L’Islam ottomano era un Islam turco,
intrecciato a un popolo ex-nomade, che proveniva dalle steppe centro-asiatiche.
Poco a che vedere con l’Islam maghrebino, a sua volta mescolato con le
tradizioni berbere del Nord-Africa. O con l’Islam andaluso, che si diffuse
grazie a un califfato, quello omàyyade di Cordova, che era in perenne attrito
con il califfato abbasside di Baghdad e con quello fatimide del Cairo. Mentre
l’Islam dell’Arabia vera e propria ha sempre orogliosamente rivendicato una
primogenitura religiosa. Va da sé che ciascuno di questi Islam interpretava e
interpreta il Messaggio del Profeta Maometto come più fa comodo ai detentori
del potere politico ed economico. Per cui jihad può essere di volta in
volta sia lo “sforzo sulla via di Dio contro il male che è in noi”, sia la
“guerra santa” tout court, benché nel Corano si parli,
semplicemente, di “combattimento sulla via di Dio”.
Che cosa trarne? Beh, innanzitutto si capisce che non esisteva e non esiste un unico Islam, così come non esiste un unico cristianesimo: al cristianesimo si ispirano i cattolici, gli ortodossi greco-orientali, i protestanti, i testimoni di Geova, le chiese evangeliche, le Acli e il Ku Klux Klan: tutti sono cristiani.
Allo stesso modo esistono nel mondo musulmano sunniti, sciiti, sufi e infinite altre derivazioni. Solo le principali scuole teologiche islamiche sono attualmente una settantina, spesso mortalmente nemiche fra loro. E invece, che tutti gli islamici siano fatti della stessa pasta sembra scontato per le nostre tv, per molti opinionisti, per alcuni prelati, per un gran pezzo del governo e per la maggioranza dell’opinione pubblica. Al contrario, in Italia c’è un Islam che è quanto mai sfaccettato, e di cui le varie sigle associative non sono che una parziale espressione. Voglio concludere con alcuni dati, che possono servire a qualcuno che ancora non si fida: i musulmani praticanti in Italia, che cioè frequentano la preghiera del venerdì, sono appena il 5-10%, su un totale di poco meno di un milione di islamici. Fra 50 e 100mila persone: sarebbe questo lo spettro tanto paventato da Oriana Fallaci per l’Occidente? La stragrande maggioranza svolge dunque una pratica religiosa distratta. Come accade per i cattolici italiani, d’altronde, che solo nel 10-20% dei casi vanno regolarmente in chiesa alla domenica. C’è da chiedersi come mai. Se, in effetti, il rapporto con il divino stia divenendo più intimo e personale, e poco mediato dalle strutture organizzate di una chiesa e d’una moschea. In questo caso, la trasversalità e l’interazione religiosa possono davvero costituire una nuova via verso la costruzione di un mondo migliore, privo di quelle sovrastrutture che, per il fatto stesso di costituire un organismo pianificato, limitano talora l’interazione fra l’Islam e il cristianesimo: che sono religioni con lo stesso Dio, con la stessa Madonna, con gli stessi angeli e con profeti in comune, e che quindi non possono che dirsi, inequivocabilmente, inevitabilmente, checché se ne pensi, e con buona pace di tutti, religioni sorelle.
©2004 Vito Bianchi, relazione del 15 novembre 2004 al convegno Il ruolo della Provincia di Brindisi nel dialogo con i Paesi di cultura e religione islamica del Mediterraneo.