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di VITO BIANCHI
Pirata barbaresco
«…
I Turchi entrarono nella città al primo assalto dal lato pianeggiante e non
ebbero pietà per nessuno. Tutti i sacerdoti furono trucidati in chiesa uno dopo
l’altro; alcuni furono immolati sugli altari come vittime, mentre tenevano
l’ostia in mano. L’arcivescovo Stefano, mio parente, dopo che la notte
precedente a quello sventurato giorno aveva confortato tutto il popolo col
sacramento dell’Eucaristia, in previsione della battaglia che si preannunciava
per il mattino seguente, dalla cripta salì al luogo chiamato coro, dove quel
martire di Cristo, adorno delle insegne pontificali, fu sgozzato sulla sua
stessa sedia dai Turchi che facevano irruzione. Gli ottocento uomini che
scamparono alla strage, prigionieri, feriti o ammalati furono trascinati fuori
città e trucidati tutti sotto gli occhi del crudelissimo capo barbaro…»
(dal Liber de situ Iapygiae di Antonio de Ferraris Galateo, XVI secolo).
1.
Dopo la cacciata dei Saraceni da Lucera, la presenza musulmana sul suolo italico
si era gradualmente sfuocata. Steccati sempre più alti si frapponevano fra
Islam e Cristianesimo, come se l’Occidente europeo cercasse un nemico per
meglio identificare se stesso, e quel nemico era soprattutto l’Oriente
islamizzato. Così, nella montante “arabofobia” trecentesca, il livore del
Petrarca per qualsiasi arabismo e averroismo aveva modo di esplicitarsi nelle
epistole a Giovanni Dondi, a Ludovico Marsili e al Boccaccio. Emergeva, nella
società intellettuale, la stanchezza per un’invasione che, da
politico-religiosa, s’era fatta culturale: l’Umanesimo alzerà dunque altre
barricate, in campo filosofico e letterario. Altrettanto intricato sarà il
confronto in campo bellico. Le sortite dei Genovesi su Tripoli nel 1355,
l’attacco pisano-siculo-genovese su Djerba del 1388, e la spedizione
franco-genovese su Mahdiyya del 1390 non poterono impedire l’ascesa degli
Ottomani: nel XIV secolo i Turchi erano il nuovo volto dell’Islam, quello che
farà cadere Bisanzio nel 1453 e assedierà Vienna nel 1528 e 1683.
Il gioco delle parti prevedeva come al solito intrighi e scorrerie: il papato a invocare guerre sante, Genova e Venezia a barcamenarsi fra sultani asiatici e visir africani, il monarca di Napoli (capitale in mano aragonese dal 1442) a coltivare i sogni balcanici e l’amicizia di Skanderberg, Sigismondo Pandolfo Malatesta di Rimini a occhieggiare Istanbul, e le soldatesche turche a predare Stiria, Carinzia e Carniola nel 1469, per poi occupare Negroponte nel 1470. Risalendo i Balcani, calcando vie che erano state gote, longobarde e ungare, le milizie islamiche dilagarono ripetutamente nel Friuli fra il 1472 e il 1479. Di lì a un ventennio, bazzicavano nuovamente fra Triestino e Vicentino: e i turbanti, gli alti copricapo dei giannizzeri e volti orientali guarnirono le tele del Mantegna, del Carpaccio e degli altri pittori del Nord-est.
2.
Nel Sud della Penisola, il terrore ottomano si materializzò invece
sull’orizzonte di Otranto, pochi mesi dopo l’accordo di pace sottoscritto
fra la Serenissima e la Sublime Porta nel 1479. La guerra otrantina marcò un
discrimine, allo snodo di un “prima” e un “dopo”. Materializzò nel
Mezzogiorno una grande paura, che oggi appare quasi rarefatta in un borgo che ha
vissuto troppo grandi tempeste, per non restare sommerso da una calma
umanissima. A Otranto, le tante palle in pietra sparate durante l’assedio son
finite a decorare i portoncini più vezzosi e gli intatti cantoni di un centro
storico che del Medioevo ha fatto la sua eleganza. E nel silenzio ovattato della
cattedrale, il mosaico pavimentale del monaco Pantaleone, intessuto d’immagini
e immaginario d’altri tempi, non è l’unica suggestione sgorgante dal
passato. In fondo alla navata destra, scheletri, teschi, ossa spezzate e
ammucchiate in enormi armadi a vetro raccontano del martirio degli ottocento
Otrantini, decapitati dalle scimitarre turche nel 1480. In quell’anno, il
sultano Maometto II (1451-1481) aveva architettato l’assalto al regno
aragonese, partendo proprio da quella regione che le fonti musulmane
paragonavano ad un’arnia «il cui miele è molto… e le cui api sono poche»,
a sottolinearne floridezza e scarse difese. Contrade ricche e appetibilissime,
le terre salentine erano appartenute per secoli ai Bizantini. Ma Bisanzio era
divenuta turca. E i Turchi pretendevano adesso di riappropriarsene: il
ragionamento non faceva una grinza. In soldoni: il sultanato turco-islamico
intendeva passare dal corridoio salentino, e giovarsi della neutralità
veneziana, per controllare il basso Adriatico e piantare la Mezzaluna più a
Ponente, così da avere più voce in capitolo per ogni sorta d’affare.
3.
L’offensiva ottomana trovò impreparati gli Aragonesi, che erano appena usciti
dalla Guerra di Firenze con un “melione d’oro” in meno nelle
casse regie, e che, nonostante l’alleanza con Milano e con Lorenzo il
Magnifico, si stavano logorando in contrasti più o meno lampanti col Papato,
coi Francesi (animati dall’inesauribile rivendicazionismo angioino) e con
Venezia e Genova, vecchie antagoniste per il predominio marittimo sul bacino
mediterraneo. Perciò, al profilarsi degli Ottomani, il fronte adriatico dovette
configurarsi per re Ferrante d’Aragona non più come una base di lancio verso
i Balcani, bensì come una frontiera assolutamente permeabile.
Forse,
l’obiettivo iniziale dei musulmani era Taranto, che però appariva molto ben
munita. A Brindisi, invece, infuriava la peste. Ecco dunque la scelta otrantina,
l’attacco a una località protetta da fortificazioni ormai cadenti e obsolete,
che sin dall’epoca di Federico II avevano sofferto per l’erosione marina.
Gli uomini del pascià Achmet (detto Geduk, “lo Sdentato”) sbarcarono il 28
luglio ai Laghi Alimini, avanzando per terra e per mare, devastando casali e
campagne. Otranto 1480 come Bisanzio 1453. Gli Otrantini erano gente di mare,
abituata a barche e reti, non a spade e cannoni: fu il massacro, aperto dalle
tremende bombarde turche, perpetuato dalle spade. Tuttavia, il dominio islamico
ebbe breve durata: i Turchi fecero giusto in tempo a scompigliare Taranto,
Brindisi e Lecce. Poi, nel settembre del 1481, con l’aiuto di Ciro Ciri da
Casteldurante, ingegnere espertissimo di tecniche ossidionali, il duca Alfonso
di Calabria scacciava da Otranto i musulmani, peraltro disorientati dalla morte
di Maometto II e dai conflitti aperti per la successione: e al sacco turco seguì
il sacco aragonese, nel propagarsi di un’epidemia pestilenziale. Scrive al
riguardo un islamista puntuale quale Bernard Lewis: «Durante la lotta per la
successione che vide impegnati da una parte il nuovo sultano Bayazid II e
dall’altro suo fratello Djem, le truppe ottomane vennero ritirate da Otranto e
il piano di conquista dell’Italia fu rimandato a tempi migliori e, in seguito,
abbandonato. La facilità con cui, pochi anni più tardi, nel 1494-1495, i
Francesi riuscirono a conquistare uno stato italiano dopo l’altro, senza quasi
incontrare resistenza, lascia supporre che, se i Turchi non avessero desistito
dall’impresa, si sarebbero impadroniti della maggior parte della Penisola, se
non di tutta, senza difficoltà. Un’ipotetica conquista turca dell’Italia
nel 1480, proprio agli inizi del Rinascimento, avrebbe trasformato la storia del
mondo intero».
4.
Scampato il pericolo, residuarono comunque l’inquietudine, l’ansia,
l’angoscia, da cui germogliò tutta una serie di nuovi castelli, eretti o
ristrutturati dal re o dai singoli signori del regno napoletano per scacciare i
fantasmi otrantini, e fatti apposta per resistere con le loro fabbriche tozze e
massicce alle moderne e devastanti armi da fuoco. Ne avevano ben donde: fra XV e
XVI secolo, sui litorali meridionali si intrecciavano vita e apprensione. Nei
porti stava la ricchezza. Vi gravitava il commercio, la gente. E le ondate
piratesche vi si abbattevano ancora, con frequenza: i Barbareschi dal
Nord-Africa, Creta e Rodi, gli Ottomani dall’Asia Minore e dalla riva opposta
dell’Adriatico. Razziare, schiavizzare, terrorizzare. Quanto andavano facendo
in grande stile coi conquistadores dell’America Latina, coi Cortés, i
Pizarro, i Montejio o i de Almagro, gli Spagnoli di Carlo V subivano nel
Mediterraneo, dall’altra parte dell’impero, seppure in misura ridotta.
Passato ai Re cattolici (acerrimi nemici dell’Islam, tanto che per testamento
si tramandavano la consegna «que non cessen le la conquista de Africa y de
pugnar por la fé contra los infieles»), il viceregno napoletano costituiva
il baluardo più avanzato di fronte alle sortite musulmane che, con la
compiacenza francese di Francesco I, si erano intensificate nel Cinquecento, e
che minacciavano di stroncare i traffici marittimi, devastando vasti territori.
Spettava quindi ai centri portuali del Mezzogiorno fornire delle basi ben munite
alla flotta spagnola, resistere alle incursioni ottomane e respingere gli
assalti barbareschi. Dei centoventi vascelli cristiani che dovevano proteggere
duemila chilometri di costa, una sessantina erano le galere messe a disposizione
da Madrid. Poche, troppo poche. Da qui la necessità di rafforzare gli avamposti
litoranei con ulteriori fortificazioni. Mura, torri, fortezze. E guarnigioni
militari, il più delle volte avversate dalle popolazioni locali, odiate non
meno dei pirati, per i soprusi e le violenze inferte ai civili.
5.
Pur tuttavia, le cronache raccontano delle ininterrotte incursioni piratesche
che scossero il Meridione nel 1503, nel 1506 (col rais barbaresco Kemal), nel
1515 e ancora nel 1516 (con alcune fuste di Kurtogali). Alle imprese corsare è
strettamente legata la figura e il mito del pirata Khair ad Din, detto “il
Barbarossa”, un greco rinnegato forse originario di Lesbo, che già
controllava il litorale marocchino e che, per conto del Gran Sultano, occupò
Algeri. Nominato nel 1533 ammiraglio della marina sultanale, egli funestò le
coste italiche fino al Tevere, per poi prendere Tunisi, scacciandone l’emiro
protetto dagli Spagnoli. Al comando della flotta di Solimano il Magnifico, nel
1537 il Barbarossa assalì in forze la Puglia, e vi diffuse lutti e distruzioni.
Gli succederà “Draghut” (da Turghud Ali), che dalle sue basi nord-africane
porterà fra l’altro un furioso assalto a Vieste nel 1554, saccheggiando,
bruciando e ammazzando, quasi una “Otranto-bis”. Le intraprese corsare non
si placheranno, nemmeno quelle in grande stile, perché Ortona, Vasto, Termoli e
Sant’Agata saranno predate nel 1567 da centocinquanta navi turche.
Per
certi aspetti, la tanto mitizzata battaglia di Lepanto del 1571 lasciò il tempo
che trovò: come prima, le navi turco-barbaresche continuarono a scorrazzare per
i mari cristiani. Non meno di quanto, in verità, facessero con il Mediterraneo
islamico le navi dei Cavalieri di Malta o di Santo Stefano, che in Levante e
Maghreb si “rifornivano” di rematori per le galee: ne furono catturati quasi
settecento nel 1602 ad Hammamet, e circa millecinquecento nel 1607 a Bona. E fra
il 1708 e il 1715, pirati occidentali saccheggiavano la Palestina, coi Livornesi
protetti da una “patente di corsa” del granduca di Toscana.
Ma
se per un prigioniero dei cristiani c’erano scarse speranze di riscatto, uno
schiavo dei musulmani poteva viceversa ambire, con un po’ di fortuna, al
visirato o all’ammiragliato: accadde al sardo Hassan Agà, e nel Cinquecento
al calabrese Giovanni Dionigi Galieni, rapito sedicenne a Isola Capo Rizzuto dal
Barbarossa, e divenuto governatore algerino col nome italianizzato di “Uccilaì”
(Uluj-Ali). Nel Seicento, il ligure Osta Morato fu bey di Tunisi, e Alì
“Piccinino”, veneto d’origine, governò Algeri. Nel complesso, fra il XVI
e il XVII secolo l’Inquisizione dovette registrare ben 402 casi di italiani
convertiti all’Islam, fra i quali anche una decina di pugliesi. D’altronde,
il trend aveva un clamoroso precedente: verso il 1097, l’arcivescovo
Ursone di Bari aveva abiurato, entrando alla corte cairota del califfo
al-Mustali in qualità di consigliere musulmano, esperto (naturalmente) di
Cristianesimo.
7.
Nella miriade di episodi che condurranno, fisicamente, a stretto contatto
l’Europa cristiana e il Medioriente ottomano, va incasellato il terrificante
sacco turco perpetrato ai danni di Manfredonia nel 1620, allorché venne rapita
dal convento delle Clarisse una bambina. Si trattava di Giacometta Beccarini,
orfana di madre e figlia di un alto ufficiale dell’esercito spagnolo. Condotta
a Costantinopoli, cresciuta in ambiente nobiliare, la giovinetta sarà chiamata
Zafira e diverrà sposa prediletta del sovrano Ibrahim il Pazzo. Qualche tempo
dopo, insieme al figlio ‘Osman, la “sultana” si trovava a viaggiare alla
volta della Mecca su un galeone turco, per un pellegrinaggio, quando fu bloccata
da una squadriglia dei Cavalieri di Malta, nel 1644. Tornata in un contesto
cristiano, la donna non volle rinnegare l’Islam. Morirà nel giro di qualche
anno. Mentre il figlioletto, educato dai Domenicani, viceversa si convertirà al
Cristianesimo, assumendo un nome riassuntivo di un’intera vita: fra’
Domenico Ottomano, protagonista peraltro di una bella carriera nei ranghi
ecclesiastici.
Sulla
vicenda della “Gran Sultana” monteranno storie popolari e tradizioni orali,
come è per esempio la Storia di la prisa di la gran Surdana, una
composizione siciliana in ottava rima. Parimenti, nel folclore di tanti paesi
meridionali, un po’ ovunque i Saraceni-Sarracini si alternano tuttora
con le rievocazioni di Turchi infedeli eroicamente combattuti e ricacciati in
mare, Madonne salvifiche e simili santità contro i loro Allah. Memorie di
scontri e incontri che, comunque, sono evidentemente un marchio a fuoco nella
coscienza collettiva. A lungo, nei recessi dell’immaginario, deve aver
ristagnato il timore sottile, tagliente dei corsari turco-barbareschi, di
interminabili incursioni costiere prolungate fino all’altro ieri. E cioè fino
al migliaio di prigionieri fatti nel 1798 dai Tunisini nell’isola di San
Pietro di Sardegna, o fino agli arrembaggi che, ancora nel 1815-1816,
laceravano, tali e quali a mille anni prima, il Sud, la Sicilia e la Toscana.
Nella
società, anche nella bella società ottocentesca, un’inquietudine interiore,
muta, avita, solo per qualche attimo potrà essere esorcizzata dalle paillettes
rossiniane del Turco in Italia e dell’Italiana in Algeri. Quanto
tutto ciò è cambiato? Erose dal tempo, le torri di guardia cinque e
seicentesche stanno lungo i litorali a scandire la catena di indomite angosce.
Un tempo erano l’argine su cui infrangere le vecchie, inossidabili paure che,
più del vento e delle onde, ciascuno si portava dietro, dentro, nella penombra
della propria coscienza intorbidata dall’ansia dell’“altro”.
Eppure,
in un santuario come la grotta della Madonna a Lampedusa, poteva realizzarsi un
fluire semplice, immediato, umano di musulmani e cristiani, gli uni a fianco
agli altri. Miracolo o no, una comune devozione mariana scioglieva ogni rancore
e ogni reciproco timore in benevolenza…
©2004 Vito Bianchi; il brano è tratto da Vito Bianchi, Sud e Islam. Una storia reciproca, Capone Editore, Lecce-Cavallino 2003.