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di FERNANDO GIAFFREDA

 

In un recente articolo polemico apparso su «l'Avvenire», lo storico medievalista Franco Cardini respinge come falsa la proposizione costituzionale di un’Europa priva delle sue radici medievali. La bozza di Preambolo della Costituzione, redatta peraltro da «padri costituenti» troppo illuministi e debolmente illuminati, salta esageratamente, nei principi ideali, da Tucidide al secolo dei Lumi trascurando senza criterio la lunga fase «cristiana», da assumere beninteso come «imperfettamente tale». Nel mezzo appunto ci sta il Medioevo, un lungo periodo contraddittorio di elaborazione mediterranea dell’Europa, caratterizzata in sé da almeno tre elementi culturali, fra loro differenziati e dialettici: la tradizione romana, l’apporto cristiano, il contributo delle popolazioni del Nord e dell’Est. Il primo mostra la finalità a una sintesi ellenistico-imperiale del subcontinente mediterraneo da forgiarsi sul diritto, sull’idee politiche di civitas e di res publica. Il secondo elemento, propriamente religioso, conferisce alla persona umana una dignità ideale sconosciuta per la schiavistica società antica, aprendole lo sconfinato mondo della libertà personale. Infine, grazie alla loro cristianizzazione più o meno forzata, più o meno riuscita, le popolazioni nordico-orientali della terza componente culturale hanno recato in Europa la forza e la speranza di realizzare, al meglio delle premesse romane, l’unità totale dell’intero continente.

Con quale mezzo, c’è da domandarsi? Cioè, con quali mediazioni e con quali intermediari?

Ecco che per rispondere alle logiche domande dello storico preciso dell’idea europea, ci perviene in aiuto, proprio ora, come d’incanto, un neoedito libro apparentemente parziale ed «esotico», che allunga e allarga la «questione europea». E ne precisa, sia pur non volendolo direttamente, i termini esatti.

Che cosa dispiega o fornisce nelle sue dense righe il volume di Vito Bianchi, Sud e Islam - Una storia reciproca, edito da Capone Editore (Lecce 2003) ai fini della collocazione e della risoluzione  della cosiddetta problematica europea?

 

Una cultura materiale

Quand’anche quei tre elementi caratterizzanti l’Europa debbano assumersi correttamente, a loro sembra mancare pur sempre la prospettiva classica non di un quarto elemento, bensì di un filo conduttore che li pervade già, li inanella e li lega: il fattore politico dello Stato, inteso come concetto generico di organizzazione sociale. L’assenza del tema è tanto più esiziale quanto più il disconoscimento storico della «mediana (mezzana) fase cristiana» è rimproverato a un’Europa politica che si sta ora realizzando, sì unitariamente, ma sempre ancora come una caotica somma «a totale» di Stati. In ciò essa rischia di pretendersi, per forza, superiorità, e a torto, omogeneizzata solo esteriormente. Uno Stato politico siffatto (adesso etnoterritoriale e pseudoreligioso) sembra allora essere il mezzo e l’intermediario, problematico e autoritario, che impedisce all’idea di Europa di tornare a sé, di riconoscersi e proporsi come effettivo luogo geografico, cioè mediterraneo, dell’incontro positivo di differenti popoli e culture.

L’Islam fu una grande cultura: un patrimonio materiale di conoscenze, di saperi; un’organizzazione sociale altra. Appare questa la consapevolezza a cui porta la lettura diligente del libro di Vito Bianchi; questo il significato della storia, così ripercorsa e ricostruita, che il giornalista-archeologo restituisce. Sopraggiunto come una rivelazione dal «profondo Sud» a ricordarci che la cultura islamica recava già allora, per noi e con sé, con la sua «invasione dal Sud», un «altro stato», il volume di Bianchi ripresenta fedelmente una concezione determinata dell’elemento politico, organizzato «altrimenti», diverso, vicendevole, scambievole: in una parola reciproco.

L’eloquenza del volumetto appare dunque tutta nel suo sottotitolo: «Una storia reciproca». La storia dei rapporti fra Islam e «Europa» viene qui descritta in tanto e soltanto all’insegna del concetto di reciprocità. E non è poco. Reciproco infatti significa il modo analogo e vicendevole che sussiste fra i due soggetti; è il loro rapporto che va e che viene, che fluisce e rifluisce, che sta dietro perché è come se stesse davanti, e viceversa. È una relazione insomma che presuppone e giustifica lo scambio.

Di più: come insegna la matematica algebrica, disciplina perfettamente araba, il reciproco è il risultato di un rapporto non nullo, cioè razionale e positivo, in cui i due termini, funzionali l’uno all’altro, specie nel prodotto, non si annullano mai, ma danno come risultato sempre l’Uno. E ancora: nella nostrana logica formale, trasmessaci sempre da quegli Arabi che ci hanno tramandato con Averroè un Aristotele globocentrico, una qualsivoglia proposizione o proposta (anche politica?) esattamente reciproca è quella che si ricava dall’altra per «conversione». Che si tratti dello stesso religioso convertimento che il seguace di Maometto pretende da colui che deve semplicemente «arrendersi», «abbandonarsi» («slm» in arabo) all’evidenza della grandezza sostanziale di Dio-Allah?

 

Progressione veloce

La storia dell’impero islamico, afferma l’epigrafe del Sud e Islam, comincia a fiorire con la decadenza di quello romano, giusto in tempo per vivificarlo a partire dal VII secolo, quando ormai si era «cristallizzato» sulla memoria di se stesso, nell’estenuante e sterile rapporto col clone bizantino. Dura mille anni convenzionalmente, ma sul piano della cultura materiale e dei rapporti sociali è difficile scandire una periodizzazione a termine. L’espansione di questa forma di dominio fu velocissima, e a molti studiosi appare inspiegabile. Il segreto di questo impero smisurato, che già nel X secolo si estende dai confini con la Cina fino alle coste atlantiche non senza investire gran parte dell’Europa «liquida», ha come presupposto e condizione il tipo particolare di culto. Questa religione impone un legame sociale speciale, diverso, per molti aspetti vantaggioso e migliore, per gli «arresi», che non quello preteso dagli altri imperi (persiano, bizantino, romano). Dal punto di vista teologico, l’Islam è già una forma secolarizzata della religione di Abramo, un culto che si pone a confronto e a risoluzione rispetto ai due ceppi monoteisti di provenienza, l’ebraismo e il cristianesimo. È una modernizzazione.

La casta sacerdotale o teologica è eliminata a vantaggio dell’autorità della scrittura coranica e di quella dei califfi, i quali, eletti dalle comunità-tribù, curano e guidano l’espansione dell’organizzazione sociale maomettana. A meno che la condizione schiavistica non fosse già presente nei gruppi sociali in via di conquista, fin dal tempo del primi quattro califfi (632-660) ai vinti non veniva necessariamente imposta l’assimilazione sociale fino al punto di abbracciare l’Islam. Gli sconfitti, i conquistati potevano anche rimanere fedeli al cristianesimo o all’ebraismo: in questo senso erano pure «protetti» (dhimmi), cioè tecnicamente «sudditi», «sottomessi», «soggetti», così come nella lingua francese si intende sujets. Le popolazioni vinte dovevano produrre le spese dell’espansione araba pagando una tassa personale, la jizya (testatico), e un’imposta fondiaria, il kharaj, dovuta per evitare l’esproprio della terra. Non altro: per il resto essi erano liberi. Potevano attenersi al loro credo (il Libro), mantenersi i beni avanzati, trasmetterseli, sposarsi ed ereditare secondo le proprie leggi. Dal testatico erano sorprendentemente esclusi gli inadatti per natura al lavoro: donne, vecchi, bambini, mendicanti, malati e schiavi. Quest’ultimi non abbisognavano infatti di essere tassati, giacché già intieramente dediti al lavoro e facenti parte della «strumentazione» produttiva. I «soggetti», in tal modo sicuri e liberi, non potevano aspirare alla gestione degli affari pubblici (dominanza), non potevano montare a cavallo, circolare armati e non cedere il passo ai seguaci di Allah. Se ce ne fosse stato bisogno, anzi, erano obbligati a ospitare per almeno tre giorni i maomettani. E forse discende da questa imposizione a termine l’antico proverbio che l’ospite debba ritenersi come il pesce… Era perciò molto conveniente «arrendersi» alle pratiche sociali di Allah, in fondo più vantaggiose rispetto alle vere e proprie persecuzioni dei bizantini e dei romani, o di altre forme imperiali di dominio conosciute.

Sull’onda di questa nuova forza sociale, convincente sul piano religioso e cultu(r)ale, migliore su quello del regime fondiario nonché fiscale, l’Islam ingrossò progressivamente le fila espansive del suo occasionale esercito guerrigliero, e nello spazio di tempo compreso fra i due cicli califfali della dinastia omayyade (i quattro Omar del periodo 632-660 con capitale Damasco) e della dinastia abbasyde (discendenti di Abbas nel periodo 661-750 con capitale la neonata Baghdad: 500mila abitanti!) giunse a stabilizzarsi in tutto il Medioriente, Persia e penisola rossa comprese, fin su tutte le coste mediterranee dell’Ifriqyah (Africa), pronto a dare l’assalto all’altra sponda mediterranea, cristiana e bizantina.

   

Un impero nell’altro

Questa complessa epopea millenaria è ben spiegata nei minimi dettagli e angolazioni culturali dal libro di Bianchi. Non stiamo qui a ripeterla per meglio lasciare al lettore curioso la soddisfazione di mille e una scoperta. Tuttavia, non vogliamo perdere l’occasione di far risuonare qui l’importanza di alcuni controsensi reciproci che emergono da questo volume, dedicato peraltro a una storia sotterranea e disconosciuta, stupori che aprono a una concezione dell’Europa moderna del tutto differente da quella comunemente accettata.

Fra il 711 e il 715, gli Arabi, passando Gibilterra, conquistarono tutta la Spagna meridionale fondando un importante e duraturo emirato in Andalusia, la cui capitale, Cordoba, costituì l’avamposto per il successivo tentativo di conquista della Francia meridionale. La battaglia di Poitiers del 732 ancor’oggi viene presentata, troppo sensazionalisticamente, come la fermata definitiva dei Mori da parte di Carlo Martello, cosa che avrebbe impedito definitivamente, secondo una superata tradizione più letteraria che storiografica, la sicura musulmanizzazione dell’Europa fin alle porte di Oxford. In realtà quella battaglia non impedì ai caravanserragli arabi di dilagare ancora ad Arles, Avignone, in Provenza e a Narbona, facendo ognora rifornimento di «sudditi». Il precedente costrinse pure Carlomagno a trattative diplomatiche con certi emiri berberi che avevano preso talmente campo in Francia da sposarsi la figlia cristiana di Oddone d’Aquitania. Non solo, ma anche una parte dell’aristocrazia visigota della penisola iberica si era cautelata stipulando accordi e trattati con i musulmani, utilizzando proprio l’istituto del pegno e del legame matrimoniale. Per giunta, la famosa imboscata subita dai Franchi a Roncisvalle, che la tradizione epico-letteraria contenuta nella Chanson del Roland vorrebbe opera dei Mori, fu impresa dei Wascones, gli «europei» guasconi baschi, gente di montagna, assolutamente cristiana, che il gioco delle alleanze vedeva adeguatamente non allineati.

   

E poi l’Emirato di Palermo, fondato a partire dall’831 dopo un anno di accerchiamento della città. Eppure, anche solo dal punto di vista sociale ed urbanistico, l’originario borgo bizantino fu destinato con i musulmani a svilupparsi notevolmente, grazie a una regimazione delle acque a quei tempi impensabile, a una quartierizzazione assai particolare della pianta urbana. Solo i Normanni riusciranno a ridimensionare, senza cancellarla, la dominanza araba di gran parte dell’isola, quella occidentale. Ma chi sa infine dell’esistenza di un Emirato di Bari nell’VIII secolo, le cui tracce storiche e sociali, in particolare quelle architettoniche della moschea posta nel sito dove attualmente sorge la basilica di San Nicola, sono andate completamente perdute, tranne che nelle ricerche di storici ostinati quali Giosuè Musca (ben noto allo stesso Bianchi), o nella psicosociologia dell’Oriente in Italia?

   

Influenza musulmana

Meravigliano e stupiscono ancora certe impressioni di una strana presenza evidenziata da questo Sud e Islam, quando vi si legge che nel «l’Età di Mezzo…, in molti luoghi italiani c’è una Ronda… Quartieri febbrili che ‘sanno’ di “casbah” e di “suq”, paesi rotondi come la rotonda Baghdad, come i rotondi accampamenti di tende beduine nelle oasi pre-islamiche… Non è strano perciò che nella componente urbana degli abitati, soprattutto siciliani e meridionali, ma anche della Liguria fino alla stessa Provenza, sia ravvisabile una matrice islamica, tanto più forte quanto più miniscoli e meno rimaneggiati appaiono gli insediamenti. L’influenza si coglie fra area fortificata e residenziale, emerge dall’articolazione di agglomerato cittadino e villaggi frazionati nei dintorni, e si esalta nel tessuto viario “ad albero”, con una gerarchia fra strade che va dalle più grandi ‘shari’, ai secondari ‘adarves’, terminando negli aziqqa, i vicoli che portano ai cortili».

Per questo continente «liquido» e fluido dunque, il migliore esempio politico che proviene dal suo sud fortemente islamizzato pare proprio quello che. viaggiando su una diversa forma religiosa (cultuale), indica all’orizzonte una Mezzaluna: la società altra e sostanziale.

 

   

©2003 Fernando Giaffreda

   


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