Sei in: Storiamedievale ® Pre-Testi |
Transumanza sull'Appennino lucano
Sebbene non manchino attestazioni di un’economia dell’Europa
post-glaciale basata sulla raccolta e sul controllo di mandrie, è con il VI e V
millennio che - anche in Basilicata, grazie all’esistenza di un clima mite,
simile all’attuale ed alla spinta innovativa di popolazioni provenienti dal
Vicino Oriente che importano nuove tecniche di sfruttamento del territorio,
nonché, pare, di nuove specie animali - la vita si rifà più sedentaria: nascono
l’agricoltura, basata su un più regolare ritmo delle stagioni, e
l’allevamento che pone un rimedio all’estenuante movimento dei cacciatori,
indispensabile per procurarsi la carne ora più disponibile [1].
L’allevamento supera i limitati ambiti territoriali precedenti:
accanto a quello stanziale, gravitante in aree ristrette e capaci con la propria
fertilità di nutrire un certo numero di animali necessari a piccole aziende, la
grande massa del bestiame per poter sopravvivere deve cercare le risorse
alimentari in aree di montagna e di pianura ove si sposta stagionalmente lungo
sentieri interni, anche molto lunghi; questi permettono, avvicinando anche
località distanti, le prime forme commerciali che comportano fin da quel
periodo numerosi scambi di materiali e di tecniche utili all’evoluzione delle
società antiche locali.
Un nuovo impulso a questa attività proviene nuovamente dall’Oriente,
donde giungono, in varie fasi tra il 2500 e il 1800 a.C., genti di formazione
nomade, pastorale e guerriera, possessori della tecnologia per la lavorazione
dei metalli (metallotecnica) che li rende superiori alle popolazioni indigene.
Esse sono fondate su una struttura gerarchica patriarcale: venerano
divinità non più legate alla terra (ctonie), ma al cielo, e seppelliscono
collettivamente i loro morti in grotticelle
[2].
Le Culture di Serra d’Alto (dalla collina presso Matera) e di Diana (a Lipari), nelle quali si hanno scambi di prodotti tramite la transumanza tra la costa e l’interno, sono le prime attestate per quest’epoca, seguite da quella di Laterza e quella Gaudo (quest’ultima in territorio pestano): esempi di queste in territorio lucano si hanno a Latronico (PZ) e nella contrada Madonnelle di Policoro (MT).
è però con la cultura appenninica, diffusa nell’Età del Bronzo sugli
Appennini (dal 1700 a.C. circa), che la civiltà pastorale raggiunge uniformità
disponendo di recipienti e attrezzi semplici e funzionali (bollitoi, ciotole
carenate, ecc…), che permettono anche attività connesse all’agricoltura.
Un clima più umido, adatto ai pascoli, favorisce di più
l’allevamento che rimane una delle industrie più solide sebbene risenta
periodicamente e localmente nelle aree interessate dalla transumanza dei
rapporti spesso critici tra gli Indigeni e i nuovi gruppi etnici sopraggiunti
dal nord: questi si impongono con i nuovi riti della cremazione entro urne nel
Bronzo finale (1200-1000 a.C.).
Tra l’VIII e il VII sec. a.C. i Greci con le loro colonie della costa
ionica promuovono nella Basilicata interna, tramite scambi commerciali e
culturali, dottrine collegate ad una civiltà urbana piuttosto che pastorale: le
principali sono il consumo di carni nel banchetto e l’ideologia del guerriero.
Costui, quale esponente del potere, partecipa ai conviti escludendo le
donne, alle quali è delegata l’attività domestica della lavorazione della
lana.
Sono questi e pochi altri detentori del potere economico a controllare
anche l’allevamento che in un contesto di insediamenti sparsi, facenti capo ad
un centro politico e religioso ove risiedono il sacro ed i maggiorenti, si
pratica localmente in aree libere destinate ad esso.
I lunghi percorsi stagionali del bestiame sono effettuati dai membri
della società, liberi e di grado servile, che lasciano sul posto i propri
nuclei familiari o li conducono con sé [3].
La conquista romana porta ad una ristrutturazione territoriale che
privilegia alcuni assi della viabilità pastorale colleganti importanti centri.
Però non intendendosi stravolgere un’attività così importante per le
popolazioni sottomesse e per Roma stessa, anche nell’organizzazione coloniale
si lasciano accanto alle assegnazioni viritane più o meno estese ampie aree
destinate, come in precedenza, al pascolo ed alla agricoltura.
Non si distrugge nell’agro interno l’organizzazione precedente per pagi
(comprensori di insediamenti) e vici
(nuclei abitati), anche se questi faranno capo con la municipalizzazione a
centri politici ed amministrativi: ciò dipende dal fatto che essi sono la
condizione essenziale per la vita nelle campagne; qui vi si svolgono i mercati e
la vendita del bestiame e, posti lungo i tratturi, ne sono i maggiori garanti.
In particolare il territorio lucano, per la sua caratteristica di essere
lo spazio di incontro tra l'arco ionico e la sella di Conza, si caratterizzava e
si caratterizza ancora per la presenza di un denso e minuto reticolo viario,
funzionale ai servizi richiesti dalla pastorizia transumante e per lo
svolgimento dei mercati in punti strategici.
Il transito di questi luoghi avveniva percorrendo vie prefissate, note come calles, fra le quali possiamo annoverare certamente i tratturi Tarantino e Martinese, che costituivano la via più breve per l'itinerario Lucania-Calabria (l'attuale Salento), ricordato da Orazio.
Tratturo
per la Calabria presso Lagonegro
Tuttavia non era il solo: a nord le vie di collegamento tra la
Basilicata e la Puglia ripercorrevano le vie naturali segnate dagli alvei dei
fiumi lucani che hanno origine dal Monte Carmine immediatamente a nord di
Potenza.
Esempi di insediamenti scoperti presso i tratturi si possono osservare
nei resti materiali dell’agro di Venosa, del fiume Marmo-Platano in direzione
del Vulture o presso la via della transumanza che passava nei pressi di Tolve (PZ), di collegamento tra il Bradano, il potentino e la Puglia;
altre strade erano la cosiddetta strada preistorica che attraversava l’area
delle Tavole Palatine a nord di Metaponto, e quella che giungeva dal nord della
regione e che costeggiava nell’ultimo tratto l’Agri fino ad Heràkleia; ulteriore via
di comunicazione importante per l’economia della zona già all’epoca dei
greci era quella che oggi è chiamata tratturo Metaponto (o tratturo per
Pisticci) che collegava la Valle dell’Agri, Montalbano, la Madonna del Polegio
e Pisticci per giungere fino a
Metaponto.
Legate ai vici, e dunque anche
alle strade che vi passavano, erano le attività agricole. La grande
disponibilità di terreni abbandonati o confiscati dopo le guerre puniche
(264-241 a.C.; 219-202 a.C.; 149-146 a.C.) permise una maggiore concentrazione
dei latifondi in mano a pochi ricchi, anche se la piccola proprietà contadina
non venne meno.
Tali nuove prospettive indussero lo Stato ad una regolamentazione a
partire dal II secolo a.C.; il tentativo di redistribuzione della proprietà a
favore dei meno abbienti fu rivolto non solo alle aree comuni e destinate alla
pastorizia, ma anche a quelle coltivabili.
Comunque l’estensione di aree demaniali o private, in territori
lontani e difficili da raggiungere, e la vita seminomade ed isolata dei
“pastori-schiavi”, armati anche per difendersi da animali selvatici o da
attacchi di briganti, creò le premesse delle loro ribellioni, frequentemente
strumentalizzate dai pecuarii, che
talora favorirono sia le usurpazioni di terreni attigui ai pascoli o alle vie
della transumanza sia il falso pagamento delle tasse relative alla loro attività.
La Lex
agraria epigrafica del 111 a.C. è la prima che tutela sistematicamente la
compascuità di suoli pubblici per i terreni limitrofi e gli aventi diritto al
pascolo gratuito, con non più di dieci bovini ed alcuni capi di bestiame
minuto: libero era il percorso del bestiame transumante sulle calles e sulle viae publicae.
Infatti Varrone
nel II libro del De re rustica parla
anche della transumanza di pecore dall’Umbria a
Metaponto.
Le viae publicae che erano
anche utilizzate come strade tratturali erano la via Popilia, da Capua a Reggio Calabria (attraversando Sala
Consilina e Lagonegro), la via Appia,
che scavalcava l'Ofanto toccando Venosa, i territori di Spinazzola, Gravina,
Castellaneta fino a Taranto, la via
Herculia, che collegava Venosa e Rotonda passando per Potenza e Brienza, la via
Reggio-Taranto, che lambiva l'intero arco ionico e interessava anche la zona
della foce del fiume Bradano fino ad Heràkleia.
Nell’età tardo-repubblicana, per evitare
problemi fiscali, ma anche di furto del bestiame, si dovette dichiarare il
numero di capi, onde evitare una multa o anche la confisca dello stesso insieme
agli addetti al pascolo.
In età imperiale la creazione di grandi villae
non disturbò il fenomeno della transumanza, anzi questo sembra in
Basilicata affiancarsi facilmente all’allevamento domestico:
nell’alimentazione il maiale, anche cresciuto allo stato brado nei vicini
boschi, è al primo posto rispetto ai caprobovini ed ai bovini, utilizzati
soprattutto nel lavoro dei campi.
L’agro di Venosa, come si diceva, era ricco di insediamenti sorti nei
pressi dei tratturi, soprattutto il Melfi-Castellaneta che ha lo stesso corso
dell’Appia da Gravina a Palagiano: in contrada Santa Lucia è stata trovata una stele relativa ad un gregarius, mestiere legato alla pastorizia (I sec. d.C.).
Più frequentemente in periodo imperiale i
piccoli allevatori si univano per fronteggiare la concorrenza dei maggiori,
mentre l’imperatore con i suoi latifondi si assunse la cura della produzione
della lana, come a Canosa, Lucera e Venosa.
Nel corso del Medioevo i
tratturi sostituirono in parte l'antica
rete viaria, la Via Appia
in primo luogo, ormai caduta in disuso.
Nel periodo normanno e svevo vi furono episodiche regolamentazioni della
transumanza, ben sapendo quanto fossero importanti questi percorsi per
l’economia dell’epoca, tanto che lungo i tratturi sorsero le prime capanne dei pastori e successivamente
villaggi e luoghi di culto.
Le Costituzioni di Melfi del 1231 emanate da Federico II contengono numerose norme in
proposito, stabilendo che nelle terre dei conti e dei baroni non dovessero
transitare o soggiornare più di quattro forestieri, che dovevano pagare il
prezzo di affitto ed eventuali indennizzi per i danni causati dagli animali.
Con gli Aragonesi,
durante il regno di Alfonso I (1416-1458), con l’istituzione della Dogana
Menae
pecundum Apuliae (1447),
con sede inizialmente a Lucera, ebbe luogo la definitiva
sistemazione della rete dei tratturi, e la previsione di una serie di norme per la loro fruizione: i
pastori con più di venti pecore dovevano svernare nel Tavoliere, pagando una
tassa annua e vendendo i prodotti della pastorizia nella fiera di Foggia. In
cambio potevano percorrere i tratturi più importanti.
A partire dal 1480 venne utilizzato in modo specifico il termine tratturo
per indicare una via erbosa larga 60
passi napoletani (111,11 metri circa considerando che un passo napoletano
equivaleva a circa 7 palmi equivalenti ciascuno a 263,67 mm.), vale a dire il
percorso seguito dagli animali durante la transumanza.
Quattro secoli dopo, con la legge del 1865
molti territori e tratturi del Tavoliere non più in uso vennero venduti,
sebbene una legge successiva di tutela (1908) ne salvaguardasse i quattro più
importanti.
In epoca contemporanea, nel 1959, il
Commissariato delle vie armentizie ha contato lungo gli assi Puglia –
Basilicata 14 tratturi, 71 tratturelli e 13 riposi, dove le greggi potevano
sostare durante la transumanza [4].
Tuttavia solo un decreto del Ministero per i
Beni Culturali e Ambientali del 22 dicembre 1983 ha stabilito di tutelare, con
la legge del 1939, anche i tratturi della Puglia e della Basilicata.
Infine, nel 1984, fu edito l’inventario dell’Archivio del Tavoliere di Puglia: nel IV volume si evince per la provincia di Potenza l’esistenza di soltanto una parte delle mulattiere e dei tratturi documentati sui fogli di mappa in scala 1:10000, aggiornati tra il 1909 e il 1911. La spiegazione? I danni subiti nel corso della II Guerra Mondiale dagli archivi di Foggia e Napoli.
NOTE
1 S. BIANCO, La Preistoria, in Il museo Nazionale della Siritide di Policoro, a c. di S. Bianco e M. Tagliente, Bari 1985, p. 19.
3 A. BOTTINI, Principi guerrieri della Daunia del VII secolo, Bari 1982, p. 34.
4 L. ORUSA, Tratturi e trazzere, XIX (1973), pp. 655-659.
©2006 Domenico Asprella.