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di SILVANA FILANNINO e ANNANGELA GERMANO

In alto, una suggestiva immagine del castello di Rocchetta Sant'Antonio (FG). In basso, da sinistra, Raffaele Licinio, il sindaco Ranieri Castelli, Vito Bianchi, Victor Rivera Magos e Francesco Violante.

         

     

Il convegno, tenutosi il 22 agosto 2007 in occasione del cinquecentenario dalla nascita del castello d'Aquino, è stato uno dei punti qualificanti, sul piano delle iniziative culturali, del programma dell'amministrazione del Comune di Rocchetta Sant'Antonio (provincia di Foggia), in particolare del Sindaco prof. Ranieri Castelli e del Vicesindaco e Assessore alla cultura dott. Sebastiano Americo, in simbiotica collaborazione con il Centro di Studi Normanno-Svevi dell'Università di Bari.

Le relazioni e il successivo dibattito si sono svolti all'interno di una cornice suggestiva: alle spalle del tavolo dei relatori, dunque di fronte al pubblico numeroso e sempre attento, la solenne presenza del castello stesso, con la sua singolare torre a mandorla (o a prua di nave, che dir si voglia) attribuita (ma anche di questo si è discusso) all'architetto e ingegnere militare rinascimentale Francesco di Giorgio Martini, e tutto intorno l'incantevole intricarsi delle viuzze del centro storico. L'atteso incontro è stato preceduto da una eccezionale visita ai piani superiori della rocca per gentile concessione della famiglia Piccolo, che ne è la proprietaria. All'interno gli ambienti sono distribuiti su quattro livelli: al piano terra si trovano i principali locali di servizio, dai quali si accede al piano superiore dove sono ubicati tutti gli ambienti residenziali. Al secondo piano ritroviamo gli stessi vani presenti al piano inferiore, mentre al terzo si estende un'unica stanza dalla quale parte la scala di accesso alla torre ogivale, probabilmente in origine merlata.

A presiedere i lavori il prof. Vito Bianchi, docente di Archeologia nella Facoltà di Scienze dell'Università di Bari, che ha guidato il pacifico assalto alla fortezza rocchettana, introducendo e commentando ognuna delle quattro previste relazioni con l'abilità e l'ironia dell'archeologo capace di far storia con lo stile del giornalista (non a caso, oltre che autore di volumi di successo, Vito Bianchi è anche tra i più apprezzati collaboratori del mensile di alta divulgazione «Medioevo»).

Raffaele Licinio (Rocchetta Sant’Antonio 1507: nascita di un castello) ha "aperto le danze", focalizzando il suo intervento sulla interpretazione dell'epigrafe marmorea che sovrasta la porta principale del castello. Stando a quanto riporta l'iscrizione, posta sotto lo stemma della casa d'Aquino, la rocca sarebbe stata costruita, ex novo e con il proprio denaro, da Ladislao II d’Aquino, marchese di Corato e duca di Bisceglie (titoli acquisiti tuttavia dopo il 1507). In realtà Licinio ipotizza che la costruzione sia avvenuta in momenti differenti: dapprima la torre ogivale e parte del primo piano, forse voluti dalla famiglia del Balzo Orsini e riferibili alle tecniche costruttive quattrocentesche facenti riferimento alla scuola o ai metodi che si stavano diffondendo grazie a Francesco di Giorgio Martini (la cui presenza in Capitanata è testimoniata nel 1492-93); successivamente il completamento voluto da Ladislao, il quale aveva acquistato il feudo nel 1501 in seguito all'indebolimento degli Orsini nell'Italia meridionale, e deciso di destinare la nuova rocca a propria dimora di rappresentanza. Inutile sottolineare che il denaro utilizzato dal nuovo signore non proveniva esattamente dalle sue tasche, come formalmente affermato nell'epigrafe, ma almeno in parte da quelle degli abitanti sottoposti a tassazione. Infine Licinio ha proposto una nuova traduzione dell'espressione «baronie cripte dominus», che non significherebbe, come vogliono la tradizione e quanti del castello si sono occupati, «signore della sottoposta baronia», ma «signore della baronia di Grottaminarda», poiché il termine Cripta rimanda direttamente al nome di quella località, di cui i d’Aquino erano signori, e non al participio subscripte, come è stato precedentemente ipotizzato.

         

I relatori: Raffaele Licinio; Francesco Violante; Victor Rivera Magos; Massimo Magnotta; Vito Bianchi.

Il secondo intervento, quello di Francesco Violante (Rocchetta Sant’Antonio e il suo territorio tra Medioevo ed Età moderna), ha offerto un’ampia analisi storico-economica del territorio di Rocchetta Sant’Antonio sin dal secolo XII, rimanendo saldamente ancorato alle fonti sin dalle prime attestazioni documentarie relative ai casali di Santa Maria e Santo Stefano di Giuncarico. Sin dai primi momenti infatti il territorio sembra essere fortemente ruralizzato e coltivato a grano e vite, con una forte presenza insediativa ad aggregato sparso, cosa che potrebbe avvalorare la teoria di una dislocazione decentralizzata del sito almeno sino al Quattrocento. Con l’avvento della Dogana della Mena delle Pecore, istituita da Alfonso I d’Aragona a metà del secolo XV, la situazione produttiva cambia, inserendo sul territorio l’importante variabile del pascolo e della transumanza. Violante ha evidenziato inoltre la stretta dipendenza del territorio rocchettano dall’abbazia di Cava dei Tirreni per tutto il Duecento e parte del Trecento, momento dal quale la situazione del Regno, stretta tra rivolte, carestie e guerre dinastiche, genera anche in questa zona elementi di crisi.

Victor Rivera Magos (Feudi, baroni e sovrani nel Regno di Napoli alla fine del Medioevo. I d’Aquino tra fedeltà e rivolte) riprende queste teorie, percorrendo la storia della famiglia d'Aquino, dalle origini cavalleresche al tradimento nei confronti della casa regnante durante gli anni dell'invasione del Lautrec (1528-1529), passando per la progressiva ascesa in età sveva e primoangioina grazie anche ad una abile politica matrimoniale che la lega alle più importanti famiglie del regno (in particolare ai Caracciolo, del Balzo Orsini e Carafa). In tutto questo si inserisce la storia, a tratti oscura, del feudo di Rocchetta, forse proprietà dei Filangieri fino alla prima metà del secolo XIV e sicuramente di Sergianni Caracciolo dal 1431, quindi parte della dote matrimoniale portata dalla figlia di Sergianni a Gabriele del Balzo Orsini da quella data; non molto dopo troviamo anche i d'Aquino tra i probabili signori di Rocchetta, attraverso il matrimonio di Ladislao I con Eufemia Francesca del Balzo, nonostante sia necessario leggere tra le righe per affermarlo con certezza. A rompere il confuso quadro delle attribuzioni feudali è il 1501, anno in cui Ladislao II d'Aquino acquista la terra rocchettana ad una cifra apparentemente eccessiva. Sui motivi di tale acquisto e sulle ragioni che hanno spinto Ladislao II a “tradire” la corona spagnola, su cui Rivera Magos si è soffermato, lasciamo un velo di mistero, con la promessa di scioglierne i nodi in altra sede.

Alla professionalità storica si è aggiunta la conoscenza scientifica dell'ingegner Massimo Magnotta (Il castello d’Aquino. Analisi di architettura militare del ‘500), il quale, dopo anni di studi sul borgo antico, ha dapprima concordato con Licinio sulla costruzione in almeno due tempi della struttura castellare, poi rilevato come la composizione degli elementi architettonici della rocca rispecchi quell'equilibrio armonico da secoli ricercato dagli artisti attraverso l'utilizzo della sezione aurea. Infatti, non è casuale che la pianta del castello sia costituita da un triangolo isoscele, a sua volta divisibile in due triangoli isosceli, il cui lato in comune va dall’unico ingresso principale a una delle due torri della parte sud-orientale.

Queste e le altre interessanti tesi esposte dai relatori verranno ben presto pubblicate negli Atti del Convegno, di cui si è fatta coraggiosamente carico l'amministrazione comunale di Rocchetta Sant’Antonio.

    

    

©2007 Silvana Filannino e Annangela Germano

     


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