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La cuneddhra Vorelle
In Salento sono conosciute come “cuneddhre” (icuneddhra = iconella, piccola icona); cioè quelle che, nell’asetticismo della Lingua Codificata, si tradurrebbero come “edicole votive”.
Qui comincia a nascere già l’equivoco: l’essere edicola votiva è limitativo rispetto all’essere cuneddhra. L’edicola votiva, più o meno piccolo altare o tempietto dedicato ad una divinità, è eretta per personale devozione sul muro della propria dimora, sulla colonna del giardino, nel cortile di casa: è una forma d’esternazione di un culto personale, di un’affezione, di devozione, della concretizzazione di un voto, appunto, della consacrazione di un luogo. Potremmo affermare che le edicolette votive sono la trasposizione di quello che in tempi lontani furono i lariari, le nicchie dove si custodivano le statuette degli antenati e dei protettori della domus:
La cuneddhra, quella storicamente propria del periodo che va dall’VIII al XVIII secolo, è molto di più: è lo strumento fisico di congiunzione dei percorsi, è il raccordo ideale tra il realismo ed il simbolismo del viaggiare (Vulgo: «s’ha fattu totte li cuneddhre» = si è fermato in ogni posto; figurato: ha tentato ogni strada; «si ferma a totte li cuneddhre» = fig.: attacca discorsi con tutti, non va dritto per la sua strada). La cuneddhra è, però, intrinsecamente indicatrice di percorsi e non di strade.
Per questo sorge un altro imperativo distinguo: noi, figli della civiltà delle strade asfaltare o ferrate, ora anche di quelle virtuali ed informatiche, abituati a ragionare per tratte, linee rette, caselli e “siti”, difficilmente apprezziamo la varietà e l’intrico fisico e mentale del percorso arcaico, quello che gli urbanisti chiamano percorso antropico. In periodi della storia in cui il tempo era un luogo marginale dello spirito, e non un tiranno come lo è ora, quel percorso era più uno spazio mentale legato all’errare mistico e stranito nella ricerca di se stessi, o di qualcosa, o della sopravvivenza, che non mosso dall’impellente brama del giungere al più presto, propria delle mentalità legate al consumo.
Percorsi per cavalieri medievali, monaci predicatori e pellegrini, dunque; per tutto un popolo più errante che non viaggiante; non certo per avidi grossi commercianti, marziali spedizioni militari o pomposi ambasciatori, sempre più avvezzi alla rapidità e alla protezione offerte dalle grosse strade imperiali.
Percorsi per quella popolazione in perenne movimento del mondo scomparso: i Tarom oppure la Meute (nel latino volgare movita, nel francese muete, nello spagnolo movida). Un “Popolo dei Percorsi” soprannazionale, dalla lingua mista (basta pensare al linguaggio “meticcio” di Salvatore di Il Nome della Rosa), che vagava in cerca di pane da scambiare con sudore, caratterizzato a volte da specifiche competenze professionali legate al paese d’origine. Basti pensare ai Norcini, esperti macellatori ed insaccatori di maiali, che da Norcia, in Umbria, hanno vagato in tutt’Italia fino al secolo appena scorso, fornendo la loro opera per cascinali, borghi e case coloniche; così come gli spazzacamini della Valtellina, o gli arrotini di Scarperia, i costruttori Comacini (che comunque non erano di Como ma si chiamavano così solo perché avevano le macchine per l’edilizia - “cum machina” -, i muratori Bergamaschi, gli zampognari abruzzesi. Nel Salento vanno ricordati li craunari grichi (carbonai della Grecìa), li ‘cconzalimbe (aggiusta figuli, come quello pirandelliano della Giara), li ‘mmulaforfici (arrotini), li ‘mpagghiasegge e giustaseggie (impagliatori e aggiustatori di sedie), li cardalana (i cardatori) ecc.). Una plebe migrante a ritmo stagionale, della quale troppo presto si è persa la memoria (chi, dei nostri compaesani, più si trasferisce a Pisticci “a fare lu tabaccu”?) ora che si sfrutta per gli stessi scopi, con disprezzo, l’altra plebe che “fastidiosamente” proviene dal terzo mondo dietro l’angolo.
L’uomo arcaico ha sempre visto nel “viaggio” la metafora della vita, intridendolo di valori mistici, iniziatici ed evolutivi. Si partiva dalle antiche Città-stato ellenistiche verso la scoperta di una nuova terra da colonizzare, con il benestare dei Vati. Si dedicava il Viaggio ad un Dio benevolo (di Venere e di Marte, non si sposa, non si parte, non si dà inizio ad arte) e ai Lari della Città. Non si poteva fallire: se la nave avesse fatto repentinamente ritorno, senza successo, gli occupanti sarebbero stati lapidati dalla riva prima che fossero potuti riapprodare e il disonore sarebbe caduto sulle famiglie.
Nel Medioevo, il periodo della storia antica di maggiori spostamenti di singoli e di gruppi, si compivano pellegrinaggi verso le mete canoniche: Gerusalemme, Roma, S. Jacopo in Compostella (il campo delle stelle), i santuari dedicati all’Arcangelo Michele (primi fra tutti, Monte S. Angelo sul Gargano e Mont St. Michel in Bretagna). Fitti percorsi nell’Europa (convergenti sulla Via Franchigena, da Roma alle “Francie”, o su quella Romea, dalle “Germanie” a Roma) e nell’Oltremare segnavano la via a pellegrini muniti dell’occorrente per farsi riconoscere e rispettare come tali: cappellaccio a falde larghe, mantella, bordone di legno, fiasca, sacca, conchiglia - se di ritorno da Compostella -, foglia di palma -se di ritorno dalla Terra Santa, da cui Palmieri, così presente nei cognomi meridionali - e sandali pesanti a “zampa d’orso”. Un sistema semantico in cui “l’abito faceva il monaco” e costituiva una specie di lasciapassare, mettendo, ma non sempre, al riparo da cattive avventure; sicuramente favorendo l’ospitalità, anche se in un pagliaio o in una stalla.
In questo periodo medievale il labirinto, massima astrazione simbolica e metaforica del “Viaggio”, raggiunge il momento di maggiore connotazione allegorica, tanto da essere rappresentato sui pavimenti all’interno delle cattedrali per essere percorso in metaforica sostituzione di un pellegrinaggio vero. Si giunge persino a fare pellegrinaggi “conto-terzi”, cioè recandosi nei Luoghi Santi dietro corresponsione di danaro, e dietro stesura di regolare contratto, al posto di ricchi commercianti o facoltosi possidenti che si volevano salvare l’anima senza distogliere il corpo dalle loro lucrose attività o, molto più onestamente, al posto e per conto di fedeli malati.
Curiddhru
La terra salentina era soggetta a questa rete di percorsi obbligati verso il vicino Oriente per e da Roma, per e dal Gargano, per e dalla Terra Santa. Da ciò l’esistenza di ospedali, ospizi e xenodochia. A Galatone, in provincia di Lecce, a dimostrazione di un’antica posizione nodale, ne rimangono tracce più o meno ben conservate a Fulcignano, presso la Chiesa di Odegitria, in via Ospedale e appresso al Santuario del SS. Crocifisso; senza contare i vari conventi maschili e femminili, anch’essi attrezzati per l’ospitalità. Lo stesso recinto fortificato del castello di Fulcignano, così come quello del primigenio castello di Galatone, sono serviti per assicurare il ricovero militarmente protetto, scopo principe di ogni incastellamento dai Romani sino al Rinascimento, in cambio di pedaggio (tassa sul passaggio) e stallaggio (tassa sul ricovero e la sussistenza degli animali da soma, sella e tiro) a carovane in movimento.
Nella radice del nome percorso, così come nell’equivalente germanico “Baerentritt” (cammino dell’orso = scorciatoia) che deriva da Bär (orso), è presente la radice che unisce il per (l’andare) con l’orso. Il percorso è dunque la pista che l’intelligente plantigrado traccia su e giù per i colli, scegliendo il miglior tratto da compiere in rapporto alla pendenza, al soleggiamento stagionale, alla sicurezza e consistenza del terreno, alla occasione di ricovero, alla possibilità di guado e d’approvvigionamento alimentare.
Conoscevano bene, gli antichi, come un orso col proprio peso avesse lo stesso dispendio energetico, e quindi impegno fisiologico-muscolare, di un viandante carico. La medicina sportiva lo ha confermato. Quindi l’orso era sapiente: conosceva la migliore maniera di scollinare, di spostarsi, ed andava imitato (in Sila, quando non ci sono più stati orsi mi risulta da autorevoli fonti orali abbiano adoperato gli asini per tracciare le strade! Anche oggi, vedendo alcune strade “moderne” sorge il dubbio che siano ancora gli asini a progettare). Fu questa riconosciuta sapienza dell’orso, congiunta alla venerazione per la sua forza, a far sì che nel centro-nord europeo, e poi diffusamente, si cominciassero a donare ai bimbi i fantocci a forma d’orsacchiotto: il simulacro dell’orso doveva servire a passare per simpatia, e “magia”, le proprie virtù di forza e sapienza al bimbo, e ne conciliava anche il sonno, essendo così letargico.
Si tesse in questo modo, nelle civiltà senza strade, quell’intricata rete di vie che collegano i poli d’interesse tracciando arzigogoli, all’apparenza inspiegabili, sulla superficie della terra, similmente a quello che fanno le formiche o le capre in montagna.
Attualmente tutta questa tessitura è sottoposta alla rete delle diritte vie geometricamente e istituzionalmente tracciate, già fin dall’epoca romana. Una ragnatela di tratti larghi, pressoché diritti o con curve “logiche”, si sovrappone alla precedente tessitura arzigogolata. L’Istituzione non vaga ma tira dritto allo scopo, sicura di se stessa e dei propri mezzi non si pone problemi di fatica o di sole o di approvvigionamento; solo la fretta e la grandezza, concetti quantitativi, predominano. Gli antichi percorsi pre-Romani, infatti, sono al solito di monte così da controllare il territorio attorno al riparo da imboscate, da smottamenti, da alluvioni. Quelli Romani invece sono di valle: il genio disboscava e bonificava, i gromatici tracciavano stratae ed i pontefici ergevano ponti, l’esercito imponeva la sicurezza, le indicazioni erano date da cippi nell’“universale” lingua latina.
Risulta difficile ora staccare le due tessiture, quella antropica da quella istituzionale, sovrapposte ed integrate per secoli, anche perché si è persa l’abitudine mentale a calcolare le soste secondo i percorsi sostenibili con carichi a piedi o a cavallo o con pesanti e malagevoli carri. Così com’è difficile immaginare, ora, le nostre terre cosparse di terreni acquitrinosi, di fitte boscaglie frequentate da fiere e da grossi erbivori selvaggi, infestate da accampamenti di sbandati ed esiliati dediti al brigantaggio. Tutte situazioni da ben evitare, quest’ultime, e che imponevano deviazioni di percorso, incomprensibili e inapprezzabili nell’attuale situazione bonificata.
Se si riprendesse a fare quest’esercizio di trasposizione spazio-temporale su di una mappa, ritroveremmo ad ogni snodo dell’intrico dei percorsi la nostra cuneddhra, ed ogni nodo importante posto a circa un miglio romano dall’altro, circa 1400 dei nostri metri.
Ecco che viene fuori il significato essenziale della cuneddhra come segnavia a sema iconico: gli storici viaggiatori abituali (commercianti, artigiani ambulanti, saltimbanchi, prostitute, militi, stregoni, monaci “circantini”, portatori, mulattieri, carovanieri, cacciatori e pastori) ritrovavano, ben visibile, l’indicazione del percorso per raggiungere una meta, districandosi nell’intrico viario.
Come le storie bibliche, evangeliche o agiografiche venivano rappresentate in forma di vignette scultoree o pittoriche all’interno o all’esterno delle chiese, costituendo quella che viene chiamata la “Bibbia dei poveri”, così l’intero tessuto di edicole e chiesette costituiva quello che vorrei definire “l’Atlante dei poveri”.
Nel territorio della mia Galatone, in provincia di Lecce, che ho potuto ben studiare negli anni, la famosa, più volte ricostruita, Cuneddhra del Morrone (volgo ‘Mburrone) è, ad esempio, sul quadrivio di due strade antiche di importanza territoriale: quella tra l’insediamento romano dello Spina verso il casale di Fulcignano e quella dell’altro insediamento romano delle Rose verso le villae della zona di Aradeo. La contiguità con l’attuale retta via provinciale per Galatina è solo incidentale.
La Cuneddhra di Cristo di Mare è posta sul quadrivio tra la via detta Sferracavalli (antica Traiana Salentina occidentale) e la via istimica che collegava il porto Jonico di S. Maria (Portus Nauna) con Galatone, costeggiando l’abbazia bizantino-medievale di S. Nicola in Pergoleto, dirigendosi verso Soleto e Melendugno, fino al porto di Roca (oggi abbandonato) sull’Adriatico.
Gli esempi potrebbero continuare per ogni edicola pre-settecentesca.
L’iscrizione con l’indicazione della direzione di una strada, incomprensibile ai più per analfabetismo o per disomogeneità linguistica, era sostituita dall’icona di un santo. L’immagine del santo, invece, era allora chiaramente riconoscibile e riconducibile a tutto un codice iconico standardizzato legato ad un noto episodio agiografico, all’oggetto o allo strumento del martirio od ad altro riferimento oggettivo della vita del santo (vescovo con tre palle d’oro in mano = S. Nicola; donna con ruota dentata = S. Caterina; donna con mammella recisa = S. Agata; cavaliere che porge un mantello ad un povero = S. Martino; uomo con mantella di pellegrino, bubbone pestilenziale e cane = S. Rocco; monaco con maiale S. Antonio Abate ([solo perché nella sua festività si ammazzavano i suini], donna bella con veste rossa, capigliatura lunga e calice in mano = Maria Maddalena; e così via quasi all’infinito). A volte, ma solo in sparuti e poveri casi o nella connotazione esterna degli elementi architettonici della cuneddra, era lo stesso attributo distintivo del santo a semplificarne, come logo, la rappresentazione grafica, risparmiando a poco valenti artisti la storpiatura della figura umana (graticola = S. Lorenzo, tenaglie = S. Apollonia, chiavi = S. Pietro ecc.).
L’icona stessa annunciava anche le peculiarità del posto verso il quale la strada si dirigeva rappresentando uno dei suoi Santi protettori (S. Pietro per Galatina, San Gregorio per Nardò, il Crocifisso o S. Sebastiano per Galatone, i Santi Medici sulla strada per Oria, S. Oronzo sulla strada per Lecce ecc.), o annunciava le difficoltà da incontrare (S. Cristoforo = guado, S. Martino = freddo, S. Floriano = pericolo d’incendio, S. Sebastiano = pericolo d’assalti e di epidemie, S. Rocco = epidemie già scansate, Spirito Santo = disgrazie multiple ecc.), i servizi che si potevano prestare (S. Medici = ospedale, Madonna Galactofora [che allatta] = ricovero per pellegrini, Santo appartenente ad un ordine Monastico = Convento, Santo della santologia cavalleresca [Arcangelo, S. Giorgio, S. Giovanni Battista] = commenda, S. Rocco = lazzaretto), oppure era più semplicemente scelta per diversificarsi dalle cuneddhre circostanti.
E molte di queste cuneddhre sono state così importanti da attribuire il toponimo a qualche zona rurale. A Galatone possiamo ricordare le contrade di S. Biagio, Cristo di Mare, S. Luca, Santi, S. Cosimo, Martiri, Santi Medici, Sacramento, Sant’Angelo, Santo Vito.
Alcune di queste edicole portano anche gli stemmi delle famiglie che le hanno edificate, facendo coesistere contemporaneamente sia il codice iconico sia quello di proprietà della zona.
Banalizzando, si può pensare che l’attuale codice iconico degli autogrill autostradali, improntato alla semplificazione di una parte per il tutto (tazzina = bar, posate incrociate = ristorante, chiave inglese = meccanico, letto = albergo, croce verde = farmacia ecc.) sia l’evoluzione (o l’involuzione?) laica dei precedenti codici legati ad una cultura impregnata fortemente di elementi di religiosità.
L’immagine sacra, quindi, proteggeva il viandante indicandone la via non solo materialmente ma anche spiritualmente (la Madonna di Odegitria, in greco Indicatrice della Via: di quella morale, in Cristo bambino, ma anche di quella materiale).
Le cuneddhre a stanza, vere e proprie cappelle nelle quali si celebrava anche la messa in giornate particolari, assolvevano inoltre al ricovero ed alla protezione temporanea del viandante incappato in un temporale o sorpreso dal calare delle tenebre; qui si trovava riparo, acqua e fuoco (si rammenda la leggenda cinquecentesca del blasfemo Antonio Ciucculi, lo sfregiatore sacrilego dell’icona della Matonna ti la ‘Razia di Galatone, riparato nella cappellina per aver perso tutto al gioco e qui lasciatosi andare all’atto sacrilego che sfregiò l’icona tardo bizantina della Madonna causando il miracolo dell’ecchimosi all’occhio dipinto).
Ogni edicola, così come ogni campanile di un borgo, costituiva il riferimento per la descrizione orale dell’itinerario da compiere tra la “partenza” e l’“arrivo”. Per i più istruiti, per i chierici che si recavano da un convento verso le parrocchie delle vaste diocesi, si scrivevano gli “itineraria”, appunto, che altro non erano che dei rotolini di pergamena su cui venivano scritti in sequenza i nomi delle icone dei santi che si sarebbero incontrate tra partenza e arrivo, tra una città e l’altra. Bastava seguire la sequenza dei nomi dei santi, una specie di salvifica litania, per non smarrirsi geograficamente e anche spiritualmente (dei bellissimi esemplari di itineraria sono visibili nella biblioteca del convento dell’abbazia di Novacella, Neustiff, a Varna, presso Bressanone). Gli altri, quelli che non sapevano leggere, si accontentavano di mandare a memoria il percorso.
Questi viandanti, continuamente messi alla prova dalle tentazioni del viaggio (ai religiosi ed ai pellegrini era formalmente proibito alloggiare nelle licenziose taverne), erano richiamati “sulla retta via” da tanti sacri riferimenti agiografici. Anche se non va scordato come la morale medievale discerneva il momento in cui pregare da quello in cui poter o dover peccare affliggendosi, così da potersi poi pentire. La bella e giovane Maria l’Ezigiaca, assurta alla santità e quindi specchiato esempio di virtù, non avendo denaro, si prostituì per tutta la durata del lungo viaggio all’equipaggio della nave che le garantiva il trasposto verso la Terra Santa, dove aveva fatto voto di andare a pregare sul Sepolcro di Cristo.
Forse ai nostri giorni, nonostante tutta la tecnologia dei GPS e dei navigatori satellitari, è diventato più facile smarrirsi. In tutti i sensi.
Il senso del “viaggio” si perde nella fretta esasperata e in connotazioni smaccatamente consumistiche, irrispettose della diversità culturale e della comprensione dei popoli. Turisti ciechi e sordi si fanno inviare in posti esotici inscatolati in pacchetti tuttocompresobevandescluse, altri partono con provviste di spaghetti e pummarola in valigia, commercianti e manager passano senza soluzione di continuità dall’aria pressurizzata dell’aereo a quella climatizzata del quattrostelle senza mai mettere fuori il naso dalle comodità occidentali. I sentieri di tutto il mondo globalizzato si ricoprono di erbacce e rifiuti plastici, le cuneddhre si disgregano nell’incomprensione generale.
Ma per il nostro patrimonio culturale perdere una cuneddhra oggi significherebbe ancora perdere la “Via”, quella che ci lega ad un passato sempre più prezioso per la conservazione della memoria di quello che eravamo così, da comprendere ciò che siamo.
©2005 Giuseppe Resta