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In questa immagine e nelle successive: parti della prima cortina muraria di Montalbano.
Le notizie storiche finora
raccolte e studiate riguardanti l’epoca di datazione della prima cortina
muraria di Montalbano [1]
sembrano apparentemente discordanti e solo in parte credibili. Un buon lavoro al
riguardo è quello di Nestola
[2],
che ha cercato di rimettere ordine tra le carte, ma senza riuscire a dare una
risposta definitiva alla questione della datazione, per i suddetti motivi.
Fortunatamente, a differenza di
molti monumenti antichi di cui non rimane più traccia se non nelle fonti
scritte, parte della cinta muraria più antica di Montalbano è ancora in piedi
e dunque analizzabile materialmente.
Una prima, superficiale,
visione di tutta la struttura ne evidenzia la sua esecuzione: la cortina è in
ciottoli di fiume legati da malta sabbiosa e sporadici blocchi di arenaria, con
interpolazioni, sicuramente successive, di laterizi e tegole spezzati; inoltre
essa mostra la presenza di tre torri, di cui due quadrate e munite di feritoie
verticali, e una circolare. Elementi distintivi sono poi le merlature, sotto le
quali altre feritoie verticali si inseriscono tra una torre e l’altra.
Le feritoie verticali sono in genere indicate come arciere, ma in questo caso le loro aperture molto strette e la loro altezza ridotta fanno pensare ad un uso diverso da quello dell’arco: direi che il Troyli quando le definì balestriere fu nel giusto [3].
Questo e le due torri quadrate
sono due punti fermi importanti dal quale trarre le prime deduzioni
cronologiche, poiché sappiamo che la diffusione della balestra avvenne in tutto
l’occidente a partire dall’ XI secolo
[4]
e che le torri di questo tipo, per quell’epoca, sono propriamente normanne
[5].
Ora è necessario fare
un’ulteriore osservazione: le due torri, così come le feritoie sotto la
cortina, presentano le parti angolari, le balestriere e alcuni punti, dove il
peso della struttura è maggiore, rinforzate da blocchi squadrati di carparo. Il
carparo è un “tufo” calcareo-arenaceo (calcarenite), giallastro o
rossiccio, di formazione pliocenico-quaternaria d’ambiente marino, molto
diffuso in Puglia [6].
Le sue qualità fisiche e funzionali sono dovute agli altissimi indici di coibenza termica, alle capacità di assorbire i rumori e, soprattutto nel nostro caso, alla sua durezza, alla compattezza, alla facilità di lavorazione e alla resistenza alla compressione [7].
Questo materiale, che i Normanni conoscevano benissimo come d’altra parte conoscevano il territorio da cui era prelevato, cioè la Puglia [8], era usato in grandi quantità per la costruzione di interi edifici, sacri e militari [9].
Nella cinta muraria di
Montalbano, invece, solo alcune parti di essa, come abbiamo visto, sono state
costruite con il carparo, probabilmente perché fu prelevato da corpi di
fabbrica preesistenti in loco e in totale abbandono, che ovviamente non potevano
fornirne le stesse quantità delle cave pugliesi.
In effetti sarebbe stato più
logico se i Normanni, qualora in grado di trasportarne grossi quantitativi dalle
cave appule, avessero eretto per intero la cortina o almeno le torri con blocchi
di carparo.
Sorge così una domanda: chi può
aver costruito prima degli “uomini del Nord” degli edifici e delle strutture
con quel materiale?
Nel mondo antico, quando il
commercio e i trasporti erano floridi e più sicuri, in Puglia e Basilicata
(soprattutto nel Metapontino e nelle immediate aree interne di questo) il
carparo era molto usato nell’edilizia, principalmente quella greca: ne
troviamo grossi blocchi nelle fondazioni e nei basamenti di edifici imponenti,
nelle cinte murarie e nella messa in opera delle cosiddette tombe a semicamera
(tombe a lastroni di carparo).
Ci sono diversi esempi di
questo tipo tra Policoro, Metaponto e Taranto.
A Policoro appare chiaramente dagli scavi come l’antica Herakleia (nucleo originario della cittadina, dell’inizio del IV secolo a.C.) fosse difesa da un sistema di fortificazioni articolato con mura in blocchi squadrati di carparo, con presenza di torri e di porte di accesso e di un fossato esterno [10].
Per quanto concerne la
tipologia delle tombe, molto diffuse nel territorio di Policoro-Herakleia
sono quelle a cassa di lastroni di carparo (VI-III secolo a.C.), insieme a quelle
in cassa di tegole o del tipo a cappuccina
[11].
Nel periodo romano è accaduto spesso che lastre di carparo di tombe a
semicamera fossero reimpiegate in altre necropoli
[12].
A Metaponto la cinta muraria
della seconda metà del V secolo a.C. era (tutt’oggi in parte conservata) in
grossi blocchi di “tufo”
calcarenitico [13]
così come le fondazioni del cosiddetto tempio A II
[14]
(VI secolo a.C.) e le prime assise dell’alzato del tempio C I (inizi VI secolo a.C.),
forse limitatamente allo zoccolo
[15].
Anche l’Heraion
sul Bradano (Tavole Palatine, VI secolo a.C.) fu costruito in blocchi di
calcarenite [16].
Tombe a cassa di lastroni di carparo sono comunissime anche a Metaponto e nel suo territorio tra il VI secolo a.C. e la prima metà del III secolo a.C. [17].
Infine vorrei ricordare un sito
nei pressi di Taranto, Saturo-Porto Perone, che gli antichi individuarono come
area sacra, dedicata alla ninfa Satyria,
in cui a partire dal VII secolo a.C. una stipe votiva delimitata da lastrine
squadrate di carparo, conferma l’impiego di questo “tufo” già dalla prima
età arcaica [18].
In questa stessa area, i
rifacimenti di IV secolo a.C. di vari edifici videro un largo uso del carparo
nelle fondazioni (rimane solo quello) così come nell’elevato di un sacello
(piccolo edificio dedicato a culti civili o sacri) di IV secolo a.C. [19].
Questa serie di contesti archeologici può così fornirci utili indicazioni al fine di capire dove i Normanni si procurarono, nel nostro caso, questa “pietra” calcarea, evidentemente già pronta per l’uso e in loco: da eventuali corpi di fabbrica di epoca “classica” in Montalbano o nelle sue immediate vicinanze. Era del tutto usuale per loro prelevare materiale da costruzione da edifici antichi in abbandono o in rovina sia per praticità sia per motivi ideologici [20].
Tuttavia non bisogna dimenticare la tecnica e il principale materiale da costruzione dell’intera cortina, che fu eseguita quasi integralmente in ciottoli di fiume legati da malta grossolana: secondo il Fobelli le strutture murarie di tal fattura trovano confronti stringenti con complessi di edifici a carattere religioso e militare, in ambito italiano, tra l’XI e il XIV secolo [21].
Ora avremmo tutti i dati a disposizione per poter datare la cinta muraria oggetto di questa analisi; riassumendo:
1) due torri quadrate;
2) balestriere sulle torri e sulla cortina;
3) impiego del carparo, seppure in maniera limitata;
4) cortina costruita in ciottoli di fiume.
In realtà sarebbe stato più
facile se non avessimo avuto anche la presenza della sola torre circolare ancora
in piedi, poiché la tipologia della struttura rimanda a modelli bizantini
[22].
Sebbene questo aspetto non
spieghi la realizzazione dell’alzato in ciottoli di fiume che, come abbiamo
visto, in quanto tecnica da costruzione si diffonde in Italia dall’XI secolo, in
alcune zone della penisola esso è il sistema di fabbricazione più usato fin
dall’alto Medioevo per via della sua facile reperibilità, per i suoi costi
esigui e per la sua facilità di messa in opera
[23],
come anche a Montalbano.
A parziale conferma di questo è sufficiente
visitare due edifici di epoca bizantina dell’agro montalbanese. Uno è
In conclusione, rimettendo
ordine a questa serie di dati, ritengo che l’edificazione della prima cinta
muraria di Montalbano sia avvenuta in un primo momento per azione dei bizantini
e che successivamente con l’arrivo dei Normanni abbia visto una fase di
ristrutturazione e trasformazione che è rimasta invariata nel corso dei secoli,
probabilmente perché la stessa cadde in disuso con la comparsa dei nuovi
dominatori svevi.
Il recente ritrovamento di un’iscrizione di XII secolo presso il Circolo Ionio, adiacente alla cortina potrebbe ben presto mettere un nuova luce sulla storia e sulle ricerche in merito ad essa.
1 PIERFRANCESCO NESTOLA, Montalbano e il Medioevo I. La prima cinta muraria.
3 PLACIDO TROYLI, Istoria generale del Reame di Napoli, Tomo I, parte II, Napoli 1747, p. 146.
4 ALDO SETTIA, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Roma-Bari 2002, p. 277.
5 RAFFAELE LICINIO, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo d’Angiò, Bari 1994, pp. 11-115.
6 DIZIONARIO ENCICLOPEDICO ITALIANO, vol. II. Cfr. anche sotto voce Calcare.
8 LICINIO, op. cit., pp. 130-133.
9 RAFFAELLA CASSANO, Architettura e decorazione nelle chiese sotto le cattedrali, in COSIMO D. FONSECA (a cura di), Cattedrali di Puglia, Bari 2001.
10 DINU ADAMESTEANU, Heraclea, in SALVATORE BIANCO e MARCELLO TAGLIENTE (a cura di), Il Museo Nazionale della Siritide di Policoro, Roma 1985, p. 98.
13 ANGELO BOTTINI, in Atti del Convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1991, pp. 391-392.
14 D. MERTENS, Metaponto: l’evoluzione del centro urbano, in Storia della Basilicata, Bari 1999, p. 257.
15 ETTORE M. DE JULIIS, Metaponto, Bari 2001, p. 143.
16 F. G. LO PORTO, Ricerche e scoperte sull’Heraion di Metaponto, in «Xenia», 1, 1981, p. 28.
17 DE JULIIS, op. cit., p. 121.
18 ANTONIETTA DELL’AGLIO, Il parco archeologico di Saturo-Porto Perone, Taranto 1999, pp. 23-24.
21 M. L. FOBELLI, L’abbazia di S. Giovanni in Venere, in U. DE LUCA (a cura di), Chieti e la sua provincia. Storia Arte Cultura, vol. II, Chieti, pp. 342-344.
22 LICINIO, op. cit., pp. 11-115.
23 S. GELICHI, Introduzione all’archeologia medievale, Roma 1994.
24 Fino a poco meno di un secolo fa è stato una sorta di “lazzaretto”.
25
L. QUILICI, “Siris-Heraklea”, in Forma
Italia, Regio III, I, Roma 1967, pp. 214 e 218.
©2005 Domenico Asprella.