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Introduzione alla ristampa del saggio di Romolo Caggese, Intorno alla Origine dei Comuni Rurali in Italia, a cura del Centro Culturale Polivalente di Ascoli Satriano, Foggia 2005.
Nel 1905, quando nel fascicolo di marzo-aprile della «Rivista Italiana
di Sociologia» apparve il suo saggio Intorno
alla origine dei Comuni rurali in Italia, Romolo Caggese si era da pochi
mesi laureato con una tesi su Prato e il suo contado («Un Comune libero alle
porte di Firenze nel secolo XIII. Studi e ricerche», ottobre 1904, poi
pubblicata l’anno successivo), relatore Pasquale Villari, e aveva già al suo
attivo alcune pubblicazioni che avevano attirato l’interesse e il positivo
giudizio degli storici di quegli anni. Non aveva ancora compiuto 24 anni. Era
nato il 26 giugno 1881 ad Ascoli Satriano, in provincia di Foggia, e dopo aver
concluso gli studi classici dapprima nel Seminario locale, poi nel Liceo del
capoluogo, si era trasferito a Firenze dopo aver vinto una borsa di studio
presso l’Istituto di Studi Storici. Già a Foggia l’aver avuto come docente
Francesco Carabellese – uno studioso di storia pugliese e meridionale che
sarebbe diventato noto per le sue originali tesi su L’Apulia
e il suo Comune (1905); gli dobbiamo tra l’altro la prima edizione dei
documenti notarili di Terlizzi e poi di Molfetta, raccolti nei volumi terzo e
settimo dell’appena nato (1897) Codice
Diplomatico Barese – aveva contribuito decisamente alla sua formazione
culturale e al suo interesse per la storia medievale. è lo stesso Caggese a riconoscerlo, in uno dei suoi scritti.
Gli giovò anche l’insegnamento di Alberto Del Vecchio, che ricopriva la
cattedra di Diritto medievale nella Scuola di Paleografia e Diplomatica di
Firenze. Ma è soprattutto l’incontro con i principali esponenti della
cosiddetta “scuola economico-giuridica” – così la definì Benedetto Croce
– e il confronto con le loro ricerche, a rivelarsi decisivo nella costruzione
del suo percorso di storico: Gioacchino Volpe e Gaetano Salvemini, in
particolare, influenzarono per diversi aspetti la prima produzione del giovane
Caggese.
Di questo rapporto ha dato conto ampiamente e con notevole profondità
di analisi il volume di Enrico Artifoni su Salvemini
e il Medioevo. Storici italiani tra Ottocento e Novecento (Napoli 1990),
irrinunciabile punto di partenza per una rilettura attuale del ruolo di Caggese
nella storiografia medievistica tra fine Ottocento e inizi del Novecento. Ma già
in un precedente saggio, Medioevo delle
antitesi. Da Villari alla “Scuola economico-giuridica” (pubblicato nel
1984 nella «Nuova Rivista Storica»), Artifoni aveva indagato a fondo sulle
diverse aree e sulle composite “sensibilità” presenti nel “gruppo delle
antitesi”, una “scuola” che, strutturata intorno al fiorentino Istituto di
Studi Storici Superiori e alla Normale di Pisa, poteva essere definita tale solo
in termini assai generali, riscontrandone una “tripolarità” che a sua volta
va necessariamente scomposta e ricomposta per gruppi e per ogni singolo autore:
il polo rappresentato da Niccolò Rodolico, che più direttamente si collegava
alle posizioni di Villari; quello “pisano” di Gioacchino Volpe; e quello
“fiorentino”, il più numeroso, formato da Salvemini, Gino Arias e dallo
stesso Caggese, che più era debitore nei confronti del sociologo ed economista
Achille Loria e della sua concezione del materialismo storico.
E proprio ad un saggio di Salvemini apparso in prima versione tra 1897 e
1899 in tre fascicoli della «Rivista di storia e filosofia del diritto», poi
completato e pubblicato due anni più tardi con qualche modifica e con il titolo
Un comune rurale nel secolo XIII, si collegherano le pagine caggesiane
del 1905 sulle origini dei Comuni rurali, che sarebbero poi confluite
integralmente, con qualche correzione e rifacimento, nel primo volume
dell’ampia ricerca su Classi e Comuni
rurali nel Medio Evo italiano, costituendone il capitolo primo del libro
secondo (pagine 167-270), e rappresentandone dunque una parziale ma
programmatica anticipazione. Saggio di
storia economica e giuridica è, significativamente, il sottotitolo di
questo denso lavoro, che Caggese volle dedicare ai maestri Villari e Del
Vecchio; edito in due volumi tra 1907 e 1908, esso è giustamente ritenuto, oggi
ancora, tra le opere maggiori prodotte dalla medievistica italiana nella prima
metà del secolo XX.
Nel 1905, nel saggio anticipatore, Caggese ha già chiaro che la questione delle origini dei comuni rurali va posta innanzi tutto precisando «il significato che noi intendiamo dare all’espressione, in verità molto elastica, di “Comune rurale”», questione non «oziosa» proprio perché lasciata troppo spesso in ombra o mal definita. E solo dopo averne individuato caratteri fondamentali, strutture, organismi e funzioni, in sé e in rapporto ai Comuni di città, ha senso procedere ad una prima classificazione che dei Comuni rurali – anzi, dei Comuni di contado, espressione preferita alla prima – colga i differenti processi evolutivi. Da qui la critica alla tipologia proposta all’epoca dal Maurer e soprattutto da Arturo Palmieri, che distingueva tra Comuni rurali liberi e Comuni rurali feudali, da qui l’insistenza sulla necessità di riflettere in termini nuovi sulle origini di quegli organismi. Le critiche al Palmieri, che pochi anni prima, nel 1898, aveva dedicato una monografia ai Comuni rurali dell’Appennino bolognese, si infittiscono su un altro, decisivo punto: la genesi dei Comuni rurali dalla organizzazione della chiesa parrocchiale, teoria che Caggese definisce «scientificamente incompleta e inconsistente». Da un’analoga teoria interpretativa, quella che vedeva nella signoria vescovile la base della nascita del Comune, lo storico ascolano prende le distanze, riconoscendole tuttavia spunti e considerazioni degni di approfondimento.
Contestate vivacemente e non senza ironia sono anche le tesi
che, quasi senza soluzione di continuità, facevano discendere le nuove
esperienze comunali dagli antichi municipia
e pagi romani: qui, la fantasia degli
storici «si è sbizzarrita», con il risultato di proporre «costruzioni
assolutamente impossibili», come quella che trovava che «i 12 ufficiali o
consiglieri preposti all’amministrazione dei Pagi ai tempi dell’Impero, corrispondevano mirabilmente ai 12
consiglieri che si trovavano nei Comuni rurali del medio evo». Sciocchezze
fumose, irride Caggese: a parte il fatto che il numero dei consiglieri «è
questione affatto secondaria e potrebbe, se mai, interessare i cabalisti», «Cosa
volete che i contadini dei secoli X, XI e XII pensassero ai consiglieri dei Pagi
romani, oppure ai 2 Consoli della Repubblica, e a simili umanisticherie
inconcludenti? Che la coscienza giuridica dei lavoratori della terra fosse
davvero tanto imbevuta di tradizione latina?». Un’ironia che gli si ritorse
contro e assunse toni assai più pungenti, come vedremo, in un lungo intervento
recensorio dedicatogli da Gioacchino Volpe.
Il bersaglio principale rimane tuttavia la tesi sulla parrocchia di
campagna sostenuta del Palmieri, respinta come spiegazione «unilaterale» e
perciò «imperfetta, perché non tien conto della formazione delle classi
sociali e del conseguente rifiorire delle forme associative, della distribuzione
della proprietà fondiaria, come dell’esaurirsi della piccola aristocrazia
terriera del contado e del suo inurbarsi, ecc.». Si tengano nel dovuto conto,
conclude Caggese, la «forza accentratrice della Parrocchia» e il «sentimento
religioso dei contadini medievali», ma non se ne faccia la causa prima e
fondamentale della nascita dei Comuni rurali. Perché, «quand’anche fosse
dimostrato che i due momenti culminanti della storia delle classi rurali furono
per l’appunto quelli or ora esaminati», considerato che «v’è nella società
italiana dei secoli XI e XII un fascio di forze economiche, giuridiche, sociali
da cui si sprigiona, come risultante, il moto associativo che creò il Comune
rurale», la questione di fondo da affrontare e chiarire, impossibile da
rimuovere, rimarrebbe quella delle condizioni di vita, dei fatti economici,
degli interessi concreti della società contadina.
Lette nel 1905, queste pagine furono favorevolmente valutate dagli
storici dell’epoca. La loro stessa collocazione in una rivista che si
proponeva, lo ha sottolineato Artifoni, come «una sorta di organo ufficioso di
una parte del cosiddetto indirizzo economico-giuridico» (quella rappresentata
dagli storici “fiorentini” e dei sociologi influenzati da Loria), confermava
l’impegno di Caggese lungo un percorso di ricerca destinato a porre in primo
piano, nei termini e nel linguaggio storiografico tipici di quell’indirizzo,
una “visione marxista” delle campagne e dei ceti contadini medievali. E
poiché lo stesso Caggese faceva espliciti riferimenti ad un più ampio e
organico lavoro in corso su quelle tematiche, appariva quasi scontato che si
attendesse quest’ultimo per esprimersi compiutamente. Così fu: ma le
recensioni che apparvero già all’uscita del primo volume, nel 1907, furono
positive solo in parte. Non perché Classi
e Comuni rurali non mantenesse fede agli intenti programmatici del più
breve saggio precedente o se ne discostasse su aspetti rilevanti, ma, al
contrario, proprio perché non se ne discostava, proprio perché rendeva più
palesi i limiti strutturali del modello interpretativo prima solo abbozzato.
In sintesi, possiamo annotare che assai positive e quasi unificate dal
giudizio di «genialità» furono, nel 1907, le recensioni di Luigi Cesare
Bollea, nella «Rivista storica italiana», che definì l’opera «saggio dotto
e geniale», convincente sia nella contestazione dei precedenti studi, sia nella
ridefinizione del Comune rurale e curtense in termini sociali e istituzionali;
di Gino Luzzatto, nella «Rivista italiana di Sociologia», a sua volta prodigo
di lodi verso un’opera «di analisi minutissima» e «geniale», capace di una
ricostruzione «solida e definitiva», per quanto deliberatamente disattenta
alla situazione dell’Italia meridionale; e di Francesco Carabellese, che lo
esaltò come esempio «accuratissimo» di ricerca storica, «ricco di
osservazioni acute e geniali» e «assai originali», ma non mancò di rilevare,
a sua volta, che la sua debolezza maggiore consisteva nell’aver ignorato quasi
del tutto le campagne e le forme di aggregazione rurale del Mezzogiorno
medievale, e di aver tratto conclusioni che, di conseguenza, non potevano essere
in alcun modo generalizzate.
Ferocemente polemiche furono invece le pagine di recensione di
Gioacchino Volpe, pubblicate in due parti nella rivista crociana «La critica»
(poi riedite in Gioacchino Volpe, Medio
Evo italiano, Firenze 1923; la nuova edizione, con introduzione di Cinzio
Violante, è datata Roma-Bari 1998; noi citeremo qui dalle pagine della
rivista). A Caggese, pur riconoscendone meriti e impegno, pur apprezzandone la
tesi sull’origine del Comune rurale – «mai sinora una tesi siffatta era
stata presentata con tanto rilievo e con tanta ampiezza. Io ne riconosco qui
tutto il pregio, come riconosco e apprezzo il calore, il convincimento con cui
il C. la sostiene» (p. 369: sembra in pratica, lo si noti, un giudizio positivo
sulle questioni esaminate nel saggio caggesiano del 1905, ma è solo una
rincorsa per colpire più a fondo) –, pur dichiarando formalmente di
condividerne le «idee direttive», Volpe rimproverò in sostanza lo stesso
metodo d’indagine adoperato, la reductio
ad unum di una realtà estremamente diversificata e frastagliata. Trattando
la nascita dei Comuni rurali è impresa ardua e complessa, egli scriveva, porre
sullo stesso piano e leggere con la stessa lente interpretativa realtà
territoriali prodotte da uno «sminuzzamento» e da un «particolarismo» che
hanno profondamente differenziato «una Italia longobarda ed una Italia
bizantina; regioni di conquista franca, ed altre non tocche da eserciti e da
istituzioni carolingie; principati e monarchie accentratori e vigorosi
(Benevento, Salerno, Regno delle Due Sicilie) e rilassate signorie feudali;
isole occupate e quasi compenetrate dagli Arabi e dall’Islamismo che ne
deviarono le forse indigene ed altre lasciate fino all’XI-XII secolo in
isolamento profondo, capaci perciò di svolgere originalmente germi loro proprii
antichissimi (Sardegna e Corsica)». E si chiedeva: com’è possibile «ridurre
ad unità, in Italia, le multiformi apparizioni locali?» (p. 262). Affrontando
tematiche storiche specifiche, non potevano bastare, e rischiavano di rivelarsi
controproducenti, un approccio generalista e un metodo sociologico preferito a
quello storico.
Erano osservazioni critiche talvolta fondate, ad esempio nel denunciare
una lettura disinvolta ed una interpretazione dei documenti «raramente
sicura e precisa. Egli è spesso troppo spicciativo e facilone, in materia così
delicata e difficile» (pp. 373-374, e in nota: «Mi duole di dover fare rilievi
di questo genere, indici appunto di frettolosità e di poca cura nel leggere i
documenti, se non anche del desiderio grande di trovarvi molte cose, anche
quello che non c’è. Ma, “amicus Plato, magis amica veritas”»); talvolta
esasperate a fini polemici e in qualche punto ferocissime: «manca una
trattazione organica della materia» (p. 266), «molte pagine vuote, molte
questioni non viste oltre la superficie, molte lacune; e, viceversa, divagazioni
e scorribande fuori del seminato, fatte non si sa perché» (p. 277), «dobbiamo
constatare che l’opera sua è riuscita a metà» (p. 381).
In realtà le osservazioni di Volpe, motivate o esagerate,
oltrepassavano il lavoro di Caggese per colpire un altro bersaglio. Pubblicate
non a caso nella rivista di Benedetto Croce, che si opponeva alla lettura
fiorentina del materialismo storico, esse erano figlie e si nutrivano di una
contestazione di fondo che era sì rivolta a Caggese per l’uso di un certo
schematismo nell’uso e nella lettura delle fonti, e di una visione rigidamente
unidirezionale dei processi storici, ma soprattutto mirava a criticare non solo
Achille Loria e le sue categorie sociologiche ed economiche (giudizio che
accomuna Volpe e Gramsci), quanto soprattutto Salvemini e le strutture
concettuali e analitiche del gruppo fiorentino. Era già nello studio caggesiano
su Siena e il suo contado, per Volpe, un decisivo «errore di prospettiva»
storica, che poi tornava a presentarsi in termini ancor più netti e negativi
nel lavoro sui Comuni rurali: il determinismo, anzi la «sacra maestà del
determinismo economico», il metodo sociologico che Caggese sosteneva di voler
usare in opposizione ad un metodo storico, e che invece non produceva che «impurità
scientiste». Lo ha lucidamente notato Artifoni: siamo di fronte ad una polemica
per interposta persona, che stroncando Caggese intendeva scardinare non tanto le
scorie dello scientismo positivistico, quanto lo stesso sistema interpretativo e
la concezione storiografica che erano alla base del lavoro salveminiano.
Almeno sul piano storiografico lo storico molfettese non rispose (la
polemica si spostò piuttosto in ambito politico), né risulta un suo intervento
in difesa di Caggese, una lettera, una recensione, una presa di posizione
pubblica. Ci si è chiesti il motivo di un silenzio così fragoroso. Contò
probabilmente la decisione di Salvemini, già nel 1905, di abbandonare lo studio
del periodo medievale. Ma ebbe anche un peso la lettera che nel 1908, prima di
far pubblicare la sua recensione, gli aveva inviato Volpe, una lettera
d’intenti dura e che lo chiamava direttamente in causa, gli chiedeva
espressamente di pronunciarsi su Classi e
comuni rurali: «Son curioso di sapere se il nostro giudizio collima. A me
ha fatto l’impressione di un libro di effetto
ma che non resiste ad una occhiata penetrante. Se vi si metton le mani dentro,
cade a pezzi. [...] Io comincio a sentirmi scemare la fiducia per quel giovane
che pure ha invidiabili qualità d’ingegno e di laboriosità. Ma è un
facilone, un frettoloso […]. Ho trovato quel libro di una superficialità
desolante […]. A me duole di averlo dovuto un po’ maltrattare […]. Egli
certo protesterà; perciò voglio saper come la pensi tu, anche per tranquillità
della mia coscienza che sarebbe certo assai turbata se avessi avuto le
traveggole!». L’assenza di una risposta può essere la spia del fatto che
Salvemini avesse colto il vero obiettivo della richiesta. Né sembra che Volpe,
che pure aiutò concretamente Caggese cedendogli nel 1926 la sua cattedra di
Storia moderna all’Università milanese, si sia eccessivamente preoccupato di
inserire nella propria coscienza il seme del dubbio: anzi, alla sua morte nel
1938, pubblicò nella «Rivista storica italiana» un Necrologio
misero e desolante.
Sfrondate dagli eccessi polemici, attenuate nei toni più ingenerosi, le
critiche di Volpe sono state rilette e collocate dalla storiografia degli ultimi
decenni all’interno di una ridiscussione sui modelli interpretativi e sui
punti di riferimento metodologici e culturali dell’intera produzione
caggesiana, cogliendone per questa via gli elementi innovativi, il rifiuto della
assolutizzazione della obiettività dello storico, il debito nei confronti della
visione del materialismo storico di un Lamprecht (concezione che incontrava
l’aperta ostilità di Labriola e Croce), e il valore di vera e propria
“rottura” rispetto alla tradizione dell’indagine sui Comuni rurali. E
basti qui richiamare i nomi e le considerazioni di Artifoni nelle pagine già
citate, e di Antonio Ventura in un saggio edito in occasione del centenario
della nascita dello storico ascolano, Romolo
Caggese tra storiografia e politica (in «Rassegna di studi dauni», 1981);
di Francesco Capriglione nel volume su La
metodologia storiografica di Romolo Caggese tra positivismo e storicismo
(Foggia 1981), e di Giuseppe Normanno nel suo Il Medioevo di Romolo Caggese, testo (pubblicato postumo, Foggia
2000) della conferenza celebrativa del 60° anniversario della morte di Caggese;
sino alla Premessa di Giuliano Pinto e
al saggio di Francesco Salvestrini Per un
commento alle edizioni di Romolo Caggese pubblicati nella recente ristampa
anastatica degli Statuti della Repubblica
fiorentina editi a cura di Romolo Caggese. Nuova edizione (a c. di G. Pinto,
F. Salvestrini, A. Zorzi, Firenze 1999).
In termini e con accenti diversi, la storiografia più recente, senza tralasciare di porre in luce i caratteri “pionieristici” e i limiti intrinseci delle ricerche di Caggese, concorda in sostanza nel rivalutarne la capacità di individuare fenomeni di “lunga durata” e il tentativo di avviarne una lettura fondata su parametri di scientificità che, pur rigidamente intesi, si aprono alla dialettica delle forze sociali e agli stimoli della sociologia, dell’antropologia e delle altre scienze sociali. Ma già nel secondo dopoguerra, negli anni Cinquanta e Sessanta, il modello storiografico di Caggese era stato analizzato con attenzione e rigore in saggi scarsi per quantità ma storiograficamente di grande peso: così Enrico Fiumi nelle pagine Sui rapporti economici tra città e contado (in «Archivio storico italiano», 1956), uno studio che ha reso meno netta la distinzione tra ceti urbani e ceti rurali, e perciò negato la loro contrapposizione sociale; così Giorgio Chittolini nel suo Città e contado nella tarda età comunale. A proposito di studi recenti (nella «Nuova Rivista Storica», 1969), che ha mostrato la debolezza del modello fondato sul dualismo antitetico città-contado; così qualche anno più tardi Mario Simonetti nella voce Caggese Romolo per il Dizionario Biografico degli Italiani (Roma 1973), che ha posto l’accento sul rifiuto del positivismo erudito che già agli inizi del Novecento vale a connotare la produzione caggesiana.
Oggi, dopo la
pubblicazione del lavoro dello storico anglo-italiano Charles Wickham su Comunità
e clientele nella Toscana del XII secolo. Le origini del comune rurale nella
Piana di Lucca (Roma 1995), che ha mostrato come la costruzione delle
identità locali possa essere compresa indagando a fondo e senza fuorvianti
generalizzazioni sui meccanismi di aggregazione interni alle varie località
rurali, dalle relazioni sociali alle clientele, dai sistemi di proprietà
terriera alle istituzioni parrocchiali, abbiamo nuovi percorsi di ricerca da
sperimentare, superando la contrapposizione tra interpretazioni che appaiono,
anche quando si influenzano a vicenda, assai diverse tra loro. E rimane ancora
da approfondire per molte aree territoriali, con un’indagine specifica e nel
contempo da condurre su piani diversi, quel nodo problematico su cui Carabellese
aveva più volte insistito, che Caggese aveva trascurato di prendere in
considerazione, e sul quale invece, nella produzione dei medievisti meridionali,
non sono certo mancate negli ultimi decenni risposte di notevole spessore: il
ruolo delle autonomie locali prima e all’interno del regno, i caratteri
distintivi dei “Comuni” e delle Universitates,
il rapporto città-contado, le comunità e i ceti contadini nel Mezzogiorno
medievale.
«Impregnati di
economicismo sociologizzante», come ha sintetizzato Pinto, o anticipatori della
«teoria delle élites di Pareto e
Mosca», come voleva Normanno, i due volumi sui Comuni rurali, e dunque anche il
saggio del 1905 qui ripubblicato, come anche i due fondamentali e preziosi
volumi dedicati a Roberto d’Angiò e i
suoi tempi (Firenze 1921-1939, ristampa anastatica Bologna 2001), assicurano
a Romolo Caggese una presenza incontestabilmente di primo piano nel panorama
della medievistica italiana ed europea della prima metà del Novecento.
Ricordarlo può forse servire a far giustizia sia dell’opinione, consolidata
ma inesatta, che vuole gli storici del Medioevo diméntichi dell’importanza
dello storico ascolano o propensi a lasciarlo in ombra, sia di quelle critiche
che si esercitano, legittimamente ma semplicisticamente, solo sulle sue scelte
politiche, per altro infelici e contestabili, e comunque successive alla pubblicazione della ricerca sui Comuni rurali
(iscrizione alla massoneria, fortemente negata ma ormai dimostrata, verso la metà
del secondo decennio del secolo, all’epoca del cosiddetto “periodo
napoletano”; iscrizione al Partito fascista nel 1931). È soprattutto al
grande pubblico, agli “intellettuali di massa”, al mondo della scuola e
della ricerca non specialistica, che occorre spiegare meglio la figura e
l’opera di Caggese, un medievista e meridionalista verso il quale
l’attenzione deve saper rimanere costantemente viva.
©2007 Raffaele Licinio; testo pubblicato come Introduzione alla ristampa del saggio di R. Caggese, Intorno alla Origine dei Comuni Rurali in Italia, a c. del Centro Culturale Polivalente di Ascoli Satriano, Foggia 2005.