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Dal volume ‘Suavis terra, inexpugnabile castrum’. L'Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angioina, a c. di Fulvio Delle Donne [Testis Temporum. Fonti e Studi sul Medioevo dell’Italia Centrale e Meridionale, 3], Nuovi Segnali, Arce (FR) 2007.
Resti del castello di Rocca d'Arce
Scriveva Fulvio Delle Donne nella sua Prefazione al volume Ianua Regni: il ruolo di Arce e del castello
di Rocca d’Arce nella conquista di Enrico VI di Svevia
(2006), richiamando il pensiero di un noto storico dell’arte e studioso
di cultura dei primi del Novecento, Aby Warburg, che se è vero che «il buon
Dio si nasconde nei particolari, anche il dettaglio, considerato trascurabile se
osservato da una prospettiva di maggiore ampiezza, può costituire una
significativa tessera, necessaria a ricomporre un più vasto mosaico». Dal
particolare al generale, il percorso d’indagine al centro del Convegno
svoltosi nel 2005 ad Arce – le cui relazioni sono raccolte nel primo volume
della collana “Testis Temporum. Fonti e Studi sul Medioevo dell’Italia
Centrale e Meridionale”, diretta dallo stesso Delle Donne, edito appunto nel
2006 – ha saputo consegnarci alcune prime conclusioni capaci di illuminare non
semplicemente la storia dei territori di Arce, Rocca d’Arce e Colfelice, ma
l’intera Alta Terra di Lavoro e di conseguenza, anche per la importante
posizione strategica di quest’ultima, l’intero Regno meridionale.
Ora che appare questo nuovo volume di Atti, che comprende le relazioni
presentate al successivo convegno (Suavis
terra, inexpugnabile castrum, Colfelice, 22-23 luglio 2006), possiamo
misurare con maggiore profondità il percorso compiuto. E ribadire innanzi
tutto, come non a caso ha voluto sottolineare Massimo Miglio aprendo la prima
giornata di quei lavori, che per ampiezza dei temi analizzati, per sicurezza
dell’impianto metodologico, per le fonti di vario tipo utilizzate, parlare in
questo caso di ricerche di tipo localistico è senza dubbio riduttivo e
fuorviante, quasi che si possa studiare un insieme senza conoscerne le singole
componenti: per usare una sua felice espressione, «in questa manifestazione
“microcosmo” e “macrocosmo” convivono: l’uno dà senso e dà luce
all’altro».
In sostanza, si può a ragione sostenere che l’orizzonte che qui
abbiamo di fronte e che appare sotteso alle singole relazioni di questo volume
è un vero e proprio sistema, il sistema-Regno,
formato da elementi che si intrecciano e si definiscono in termini specifici,
originali e dinamici, nel tempo come
nello spazio. Ed è appunto il sistema-Regno nei suoi distintivi caratteri
culturali – sia nel tempo, la prima metà del secolo XIII e poi la fase del
“cambio dinastico”, sia nello spazio, l’Alta Terra
di Lavoro – che si può cogliere sullo sfondo nel contributo di Marino
Zabbia e in quello di Fulvio Delle Donne, il primo impegnato a far parlare e
confrontare le fonti cronachistiche, il secondo capace di dar voce, con il
rigore analitico e lo spessore culturale che gli sono propri, alla
produzione retorico-epistolare di letterati noti e meno conosciuti. Così come,
attraverso il concreto articolarsi di un suo territorio omogeneo e
strategicamente rilevante, è il sistema-Regno che si intravvede nelle relazioni
di Sabrina Pietrobono, dedicata all’analisi di dati, anche inediti,
relativi alla topografia dei luoghi e alla viabilità nell’Aquinate, e di
Carlo Ebanista, incentrata sulla storia della torre arcese detta di S. Eleuterio
(o di Campolato), di cui è fornita un’analisi stratigrafica che, sulla base
delle metodologie proprie dell’archeologia dell’architettura, si occupa per
la prima volta dell’intero complesso.
Arce, la torre detta di Sant'Eleuterio
Le conclusioni cui giunge Ebanista, sorrette da una mole considerevole di dati sempre sottoposti ad acribia critica, hanno il merito di far giustizia, finalmente, di stereotipi e luoghi comuni di lunga data, che su quella torre e sul recinto fortificato che la circonda hanno aggiunto al danno del degrado materiale la beffa del disconoscimento identitario. Allo studioso dell’incastellamento, esse forniranno spunti per ulteriori riflessioni su un tema, le forme e i caratteri dell’incastellamento nel Regno, su cui pure non poco si è scritto e dibattuto.
Con S. Eleuterio di Arce, fortificazione posta
sulla sponda sinistra del fiume Liri, a segnare il confine tra Regno e
Patrimonio di San Pietro, siamo in un arco cronologico compreso sostanzialmente
tra fine del XIII e pieno XV secolo. In quali termini e sulla base di quali
dinamiche si definisce in quel periodo il rapporto tra quella torre prima,
l’intero complesso più tardi, e le altre fortificazioni del territorio, prima
fra tutte la rocca di Arce? Possiamo parlare di una forma particolare, “di
confine”, dell’incastellamento? Senza entrare a fondo nella questione, che
merita senza dubbio un esame puntuale e particolareggiato, basti qui suggerire
che occorrerebbe porre l’accento, in prima istanza, sul significato di
“confine territoriale”, un concetto che non va certamente definito secondo
parametri moderni, ma che comunque trova nell’indubbio carattere di baluardo
del territorio dell’Alta Terra di Lavoro contro invasori e incursori
provenienti dal Nord, nell’età del Regno, un primo punto di riferimento. Da
chiarire, se mai, accettando la definizione di “incastellamento di confine”,
sono le funzioni che quest’ultimo è chiamato a svolgere o di cui comunque si
riveste: strategico-militari e difensive, certamente, ma solo militari e di
controllo del territorio, o anche, e in quale misura, simboliche e
rappresentative, di sviluppo colturale, di comunicazione, di “propaganda
politica”?
E in questo “incastellamento di confine”, quali relazioni e quali
dinamiche insediative intercorrono tra le rocche, i castra, le torri, gli abitati fortificati, le mura, e tra
l’insieme di queste strutture e i poteri e i ceti non solo locali? Sono
definibili, e sulla base di quali fattori, i “punti forti”, le strutture
fortificate di primo piano, le strutture di semplice avvistamento, le strutture
secondarie e di supporto? E queste caratteristiche, queste diverse e in qualche
misura mutevoli “gerarchie castellari”, come mutano, in seguito a quali
fenomeni e in conseguenza delle scelte di quali forze e interessi? Quando lo
svevo Enrico VI, nel 1191, decise di entrare nel regno, si preoccupò in primo
luogo di conquistare con la forza la munitissima rocca di Arce: a quel punto, lo
ricordava Fulvio Delle Donne nella sua relazione del 2005 citando un passo degli
anonimi Annales Casinenses, molte
fortificazioni della zona gli si consegnarono senza combattere, «unde multae
aliae munitiones stupificatae se dicto imperatori reddiderunt». La rocca di
Arce, all’epoca «inexpugnabile castrum», è un “punto forte” del sistema
castellare di confine: tuttavia, paradossalmente, può esserne il “punto
debole”, come si è visto. In circostanze solo militari? E a quali tensioni e
contraddizioni, tanto nel rapporto con le comunità locali e i suoi poteri,
quanto nelle relazioni tra centro e periferia del Regno, è soggetto un sistema
di quel genere? Il discorso, evidentemente, va ripreso e approfondito: ancora
una volta, è il sistema-Regno che ne verrà precisato.
Ancora molte domande, certo; ma anche qualche risposta concreta. A
partire dalla capacità di un programma di ricerche storiche e archeologiche che
poteva apparire inizialmente astratto e ambizioso (ma l’ambizione per fortuna
è ancora viva), di tradursi in termini di valorizzazione e fruizione pubblica
dei tanti “beni culturali” che spesseggiano nel territorio. L’avvio di un
progetto di recupero del complesso di S. Eleuterio ne è un esempio illuminante.
Non si tratta solo di un estemporaneo impegno degli amministratori locali: è
invece il segnale di una consapevolezza culturale nuova e matura, che mostra
oggi di saper leggere il territorio stesso, nella sua interezza, come bene
culturale e sociale, e la cultura come occasione irrinunciabile di sviluppo
territoriale.
Se oggi questa consapevolezza ha assunto dimensioni quasi di massa,
tanto da chiedere di concretizzarsi anche nella formazione di un Centro Studi
(che potrebbe a ragione contare sulla collaborazione di analoghe strutture,
primo fra tutti il Centro di Studi Normanno-Svevi dell’Università di Bari),
lo si deve all’impegno e all’intelligenza di molti: di Marco D’Emilia,
presidente dell’associazione culturale arcese “Nuovi Segnali”, da anni
generosamente impegnato, con il contributo di numerosi soci, nella difficile
arte di rendere visibile e fruibile l’intrigante complessità della memoria
storica (le diverse edizioni delle rievocazioni storico-spettacolari “In
Castro Archis”, ne sono diretto testimone, sono state sempre coronate da
successo); di sindaci e assessori di lungimirante sensibilità; di tanti
ricercatori e studiosi locali non afflitti dal virus del “patrio localismo”;
e dello stesso Fulvio Delle Donne, al quale non manca il coraggio di misurare
nel confronto con istituzioni e occasioni culturali i risultati delle sue
ricerche specialistiche.
Da tempo, il viaggiatore che giunga in questo territorio non può fare a meno di notare, con stupore e fors’anche disappunto, la presenza invasiva di antenne televisive a lunga portata sui resti della secolare fortificazione di Rocca d’Arce, visiva rappresentazione del dominio del presente sul passato. In realtà, il passato non ha mai smesso di trasmettere; siamo noi, piuttosto, a sintonizzarci oggi sui suoi canali in numero sempre crescente, ben oltre i “confinia regni”, ben oltre la “suavis terra” e il suo “inexpugnabile castrum”: eccolo, un altro grande risultato dei “piccoli” convegni arcesi.
©2007 Raffaele Licinio; testo pubblicato nel volume Suavis terra, inexpugnabile castrum’. L'Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angioina, a c. di Fulvio Delle Donne, Arce 2007.