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di GIOSUè MUSCA
1
Andrea, l’ungherese
Nata
nel 1326, Giovanna d’Angiò aveva soltanto sette anni quando fu promessa in
isposa, da suo nonno Roberto I re di Napoli, ad Andrea, figlio di Caroberto
d’Angiò re d’Ungheria [1308-1342] e fratello del successore di questo, Luigi I
il Grande [1342-1382]. Con quel matrimonio politicamente astuto Roberto detto il
Saggio intendeva conciliare le pretese dei due rami della famiglia angioina al
trono di Napoli. Malgrado il prestigio acquisito al di fuori del regno ed i suoi
tentativi di porre qualche riparo ai danni della guerra, che dopo la rivolta del
Vespro nel 1282 e la perdita della Sicilia aveva impegnato Carlo II lo Zoppo
[1285-1309] e lui stesso contro Pietro II d’Aragona [1337-1342], quando nel
gennaio 1343 morì ottantenne e senza prole maschile Roberto lasciò il regno
indebitato con le banche settentrionali, specie fiorentine e senesi, a causa
delle esigenze finanziarie del conflitto.
Ormai
malmaritata in obbedienza alla ragion di Stato, a diciassette anni Giovanna
sedette sul trono del nonno. Ma la saggezza politica dei nonni raramente va
d’accordo con l’amore dei nipoti: i due giovani sposi (che erano cugini alla
lontana) si odiavano. Andrea, cui non fu concesso di prendere la corona di
Napoli insieme alla consorte, aveva modi rozzi ed insolenti, ed i numerosi
ufficiali e cortigiani ungheresi che lo seguirono nella capitale disgustarono i
napoletani che li consideravano poco più che barbari, e soprattutto Carlo duca
di Durazzo che aveva sposato Maria sorella della regina. Andrea divenne oggetto
d’irrisione e bersaglio di scherzi grossolani da parte di nobili e parenti della
regina che lo vedevano come il fumo agli occhi, ed egli lo avvertì
rabbiosamente.
Per
soprammercato, Giovanna già se l’intendeva con un giovane cugino del padre Carlo
duca di Calabria scomparso nel 1328: quel Luigi principe di Taranto titolare di
possessi feudali che per la loro estensione erano quasi un regno nel regno.
Ludibrio e corna sono una miscela esplosiva: un bel giorno Andrea minacciò
incautamente di volersi vendicare. Molti tremarono, e pensarono di dovervi porre
rimedio. Andrea pretendeva la dignità della corona regia e fece condur maneggi
ad Avignone, sì che il papa francese Clemente VI [1342-1352] ordinò che fosse
incoronato, accelerando in tal modo i disegni dei cospiratori tarantini e
durazzeschi.
Nella
notte del 18 settembre 1345, mentre la Corte era in vacanza in una villa presso
Aversa, Andrea fu buttato giú dal letto coniugale e fatto uscire dalla camera da
camerieri prezzolati, col pretesto di un urgentissimo affare di Stato, quale un
tumulto scoppiato a Napoli. Fu strangolato su due piedi nel corridoio dai
congiurati, e gettato dalla finestra nel giardino sottostante, quasi vi fosse
caduto per accidente. Lo scandalo fu enorme, Giovanna si precipitò a Napoli e,
temendo una sollevazione generale, non poté impedire l’inchiesta e il processo
dei presunti responsabili. Caddero i pesci piccoli. La regina, Luigi di Taranto
e Carlo di Durazzo protestarono a gran voce la loro innocenza, ma tutti
mormoravano che Giovanna fosse ispiratrice del complotto e mandante
dell’omicidio. Pesanti indizi non mancavano, se si pone attenzione al
comportamento della regina durante e dopo il misfatto.
Giovanna sapeva e voleva? Quasi a futura memoria, nella notte fatale fece mostra
di non voler fare allontanare dal suo letto il legittimo sposo, ma a cose fatte
condusse grandi manovre per celare l’identità degli assassini. Si aggiunga che i
funzionari ai quali il papa ordinò d’indagare sul delitto presero ogni
precauzione a che le confessioni dei torturati non avessero testimoni e
ascoltatori. Si voleva evitare che la regina ne rimanesse implicata? Giovanna e
il suo amante tarantino ne uscirono provvisoriamente indenni ma senza che si
acquietasse il generale sospetto, e convolarono a sante nozze nel 1347.
2
Luigi, il tarantino
Questa
tragicommedia giudiziaria non fu bevuta da Luigi re d’Ungheria, che l’anno
seguente invase il Mezzogiorno per vendicare l’assassinio del fratello Andrea,
ma soprattutto per impadronirsi del regno. Evitando l’esercito regio condotto da
Luigi di Taranto che intendeva fronteggiarlo sul Volturno, accolse a Capua i
nobili che passavano dalla sua parte (compreso Carlo di Durazzo che continuò a
protestare la sua innocenza ma fu proditoriamente ucciso), entrò in Napoli e si
sfogò su alcuni nobili sospettati di aver favorito la congiura. Dopo averlo
nominato duca di Calabria, spedì in Ungheria il figlioletto della regina Carlo
Martello, che vi finirà i suoi giorni. L’ungherese Luigi pretendeva dal papa
l’investitura della corona napoletana, ma Clemente VI dichiarò che legittimo
erede era Carlo Martello, sulla cui vera paternità (Andrea o piuttosto Luigi?)
era tra l’altro ragionevole nutrire qualche dubbio. Ma presto re Luigi dovette
far fagotto a causa della peste che stava mietendo vittime in tutta Europa.
Giovanna era fuggita ad Avignone, seguita dal marito tarantino.
Re
Luigi tornò nel Mezzogiorno nel 1350 ma poiché le sue truppe, avendo espletato
il servizio feudale dovuto, scalpitavano per tornare in patria, fu costretto ad
accettare una tregua con Giovanna e ad accontentarsi della condizione che la
colpevolezza o l’innocenza di questa fosse decretata dal papa: se colpevole, la
regina avrebbe abdicato; se innocente, avrebbe conservato la corona ma dopo aver
ampiamente indennizzato il re ungherese per le spese sostenute nella guerra. Ma
come si potevano nutrire dubbi su cosa avrebbe deciso Clemente VI, legato agli
interessi francesi? Non si poté affermare che Giovanna fosse completamente
all’oscuro del complotto, ma si sostenne in tutta serietà che era rimasta
vittima di una fattura stregonesca. Fu dunque dichiarata innocente e assolta
dall’accusa infamante, e fu approvato il risarcimento per re Luigi. Giovanna,
che aveva gran bisogno di denaro per pagarsi il ritorno a Napoli col marito,
quale duchessa di Provenza vendette allora al papato, a prezzo di liquidazione e
col beneplacito dell’imperatore Carlo IV [1347-1378], Avignone con il suo
distretto, che da quel momento divenne Sede Apostolica.
Giovanna, rientrata a Napoli nel 1349, mise ogni impegno a riconquistare (a caro
prezzo) le terre meridionali che ancora le resistevano. Ma il suo governo rimase
sotto il segno dei conflitti cortigiani e dell’anarchia politica. I grandi
feudatari del regno si rifiutavano di obbedire a suo marito Luigi, che in fondo
era il più potente tra di essi, e la stessa regina cominciava a disprezzarlo per
la sua incapacità d’imporre quell’autorità regia che infine gli era stata
riconosciuta. Malgrado l’impegno di Luigi e qualche suo successo, i mercenari
dei suoi avversari continuavano a saccheggiare le terre meridionali e giunsero a
minacciare la capitale: solo il denaro riuscì a tenerli lontani.
3
Giacomo, l’aragonese
Dopo
la morte a quarantadue anni di Luigi di Taranto nel maggio 1362, Giovanna,
probabilmente stanca di rissosi parenti angioini, decise di mutare orizzonti e
di sposare un principe della prolifica galassia aragonese, Giacomo III, che
sulla carta era figlio ed erede del re di Maiorca ma in realtà soltanto
pretendente a quel piccolo trono. Giacomo giunse a Napoli l’anno seguente. I
patti nuziali prevedevano che non assumesse il titolo di re di Napoli e si
accontentasse di quello di duca di Calabria, ma il fresco sposo si mostrò assai
scontento che la comunanza di letto non fosse anche condominio di seggio regale.
E presto, o che temesse per la sua vita o che tentasse di ricuperare il suo
regnetto insulare, fece marcia indietro, tornò in Spagna dove rimase impigliato
nelle guerre che colà si combattevano, fu fatto prigioniero, fu riscattato dalla
regina e tornò povero a Napoli. Fu insomma quasi sempre assente dal letto
coniugale, sino alla sua morte nel 1375. Intanto Giovanna aveva in qualche
maniera reso meno traballante il suo trono e, dopo aver dilapidato uomini e
mezzi nel tentativo di riconquistare l’isola perduta, nel 1372 aveva dovuto
riconoscere Federico III il Semplice [1355-1377] come re di Sicilia, così
ponendo fine provvisoria al conflitto tra Angioini e Aragonesi nel Mezzogiorno.
4
Ottone,
il tedesco
Nel
marzo 1376 Giovanna, alla ricerca dell’uomo forte, sposò il duca Ottone di
Brunswick, un nobile guelfo che era in fama di gran guerriero e che per i
servigi resi era stato nominato da Carlo IV vicario generale dell’Impero. Ma
nemmeno a lui fu attribuito il titolo di re di Napoli. In aprile 1378 divenne
papa, col nome di Urbano VI [1378-1389], l’energico Bartolomeo Prignano
arcivescovo di Bari. Scoppiò lo scisma e si spaccò la Chiesa: in settembre a
Fondi quindici cardinali elessero antipapa il francese Clemente VII [1378-1394].
Giovanna si dichiarò a suo favore, e questo fu il suo errore più grave e
l’inizio della sua rovina. Dopo una visita dell’antipapa a Napoli nel 1379,
contestato da una sollevazione del popolo che preferiva l’«italiano» Urbano,
Clemente portò la sua sede ad Avignone.
Un
altro secondo cugino di Giovanna, Carlo duca di Durazzo (nipote dell’omonimo
duca assassinato), ultimo maschio del ramo napoletano degli Angiò, si assicurò
la protezione di Urbano VI, infuriato contro la regina cui non poteva perdonare
di essersi legata all’antipapa scismatico. Questo Carlo aveva anche qualche
titolo al trono d’Ungheria, e in quella Corte aveva assorbito l’odio contro
Giovanna. Urbano lanciò nel 1379 un’offensiva contro la regina, e la scomunicò
l’anno seguente, ponendo il regno sotto interdetto. Priva di un erede a causa
della morte in Ungheria di Carlo Martello e delle figlie Francesca e Caterina in
tenera età, Giovanna decise di adottare e riconoscere come suo erede al trono
Luigi duca d’Angiò, fratello del re francese Carlo V [1364-1380], ma la morte di
questo ritardò l’arrivo degli aiuti attesi e dell’erede designato.
Per
tutta risposta, Urbano incoronò a Roma il durazzesco Carlo [III] re di Napoli
[1381-1386]. Il prode Ottone tentò una resistenza ma, abbandonato dai suoi
uomini al primo scontro, cadde con Giovanna nelle mani di Carlo, che s’impadronì
di Napoli nel luglio 1381 e vi fece il suo ingresso trionfale. Mise sotto blanda
custodia l’ex regina, e in un primo tempo la trattò con cortesia, sperando che
consentisse a riconoscergli la successione, ma quando Giovanna si pronunciò
pubblicamente a favore del francese Luigi gratificando Carlo d’ingiurie
pesantissime, la fece rinchiudere in una prigione più dura, e temendo che
potesse esser liberata dall’accorrente Luigi, dette l’ordine della sua
eliminazione. Narrano che la facesse soffocare, forse per riguardo al suo sesso
ed alla sua età non più tenera, con un cuscino di piume. Era il 22 maggio 1382,
e l’ex regina moriva a cinquantasei anni intensamente vissuti.
Giovanna, che alcuni testimoni del tempo dicono bella, ricca di fascino e
persino intelligente e saggia, protesse poeti, letterati e musici. Ma come ai
giorni del nonno Roberto e del bisnonno Carlo, la sua Corte non fu centro di
produzione di cultura ma luogo di consumo, cioè d’importazione d’intellettuali
ed artisti che dall’Italia centrale e settentrionale venivano a lavorare nella
capitale del regno, dove sovrani e sovrane amavano atteggiarsi a modelli di vita
cavalleresca e cortese. Mecenate anche lei per tradizione di famiglia, Giovanna
fu grazioso e prezioso vaso di coccio che collezionò scacchi e sconfitte, nel
vortice di rancori feroci e di ambizioni insaziabili, in un carosello avvelenato
di cugini, di Carli e di Luigi.
Sangue
angioino non mente, e non si vuol qui dire che gli uomini fossero migliori di
lei. Giovanna finì uccisa da un uomo del suo stesso sangue, di una stirpe
dilaniata da fosche rivalità famigliari, che coltivò l’arte dell’intrigo e dei
colpi bassi ma assai meno quella del buon governo, e seppe far poco di più che
esporre i sudditi agli orrori dei saccheggi e della guerra, e mungerli
efficacemente per costruirsi splendidi monumenti sepolcrali. Dei suoi quattro
mariti, il primo, l’angioino ungherese, fu subìto ed odiato; il secondo,
l’angioino tarantino, fu passionalmente amato ed infine disprezzato; il terzo,
l’aragonese, fu sposato forse per calcolo ma rimase una presenza fantasmatica;
il quarto, il tedesco, fu guerriero prode ma iellato. Si può dire che con le sue
opzioni coniugali, come con le decisioni politiche, Giovanna non ne indovinasse
una. Quanto ciò fosse da imputare all’eredità genetica e quanto alla nequizia
dei tempi, non lo sapremo mai.
©2005 Giosuè Musca, edito in Premio Mecenate 1999 (Napoli, 23 ottobre 1999), Milano, Amici della Scala, 1999, pp. 62-67.