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di FERNANDO GIAFFREDA

 

 

    

Banale, inutile, noioso ripetere: sommo, insuperato ed eterno poeta sublime!

Ma per opinione comune, ormai collocato (relegato) all’inizio del basso Medioevo, ad onore, grandezza e vita della Letteratura… e degli scaffali di quella. Lo si considera perciò, per lo più vagamente, un caso chiuso (roba da medioevo!), un quid sui generis per antonomasia. Gli studi ulteriori, solo eventuali e quasi fine a se stessi (per non dire retorici), non possono far altro che aggiungere, distratti come sono da vecchie altrui [1], scartoffie, particolari e curiosità dell’ambito assegnatogli dalla moderna epistemologia (filosofia “positiva della scienza). Tranne Roberto Benigni, che lo apprende e lo sa apparentemente, cioè lo ripropone in contesti “negativi” alquanto appropriati.

Ma veramente, è possibile ri-visitare Durante in modo globale, esaminarlo cioè dal lato della storia medievale (della morale, dello spirito in senso finanche hegeliano), della politica, della civiltà, più o meno occidentali!? E perché no? della lingua intesa come concetto, anzi: come prodotto tipico medievale a denominazione non del tutto controllata? O meglio, se il latino è considerato vieppiù una lingua morta, quando è de-ceduta esattamente? L’eventuale risposta definirebbe meglio e più sicuramente il termine del Medioevo. Costei (la “nuova” parlata volgare che usiamo tutti a contrappasso della parola scritta), così “dolce”, stilizzata, melodica e piena d’Amore agostiniano (l’infinito), è nata solo per grazia ed esigenza poietica di un Alighieri-nutrice che partorisce una figlia nuova, sostituta della defunta (ma quando mai!)? O, invece, l’espressione contiene in sé le più volgari ragioni del caso?

Storia (medievale) appunto! Quando si riapre una qualsiasi vecchia storia si presuppone l’esistenza di una fine di quella storia, fine che può coincidere con il suo fine, pure diverso da quello comunemente atteso. In quell’epoca così antesignana - sebbene retrograda e primordiale agli occhi dell’illuminato uomo moderno (ma quando mai!) - il futuro di questa “serva Italia”, come Lui Durante la dipinse, poteva attendersi diverso? La storia insomma non è anche un metodo prima che una “scienza”, un procedimento dell’essere oltre che un suo atto? E allora, è davvero fuor di luogo ipotizzare oggi (2002) che Durante, per la sua vicenda, per l’immensa sua cultura (così globale per quel tempo così acerbo) ed erudizione autodidatta, si sia trovato per ventura, da solo e persino senza volerlo, di fronte a un obiettivo storico del Medioevo? Che il suo assoluto “caso” d’esilio personale (volontariamente ri-vissuto più tardi da un Nietzsche, per esempio) abbia posto oggettivamente un compito generale che personalmente Lui ha fallito, per centrarlo poi, ad acqua passata, solo nel suo linguaggio e nel suo stile (nuovi), nella nostra letteratura (consegnataci a Commedia [2] nelle sembianze di un vero e proprio criptogramma, da leggerne il significato, nascosto e crudo, in filigrana, attraverso la luce inesauribile di quel «Sole che tutto move»)? Cioè, nel concetto?

Insomma, esiste davvero un “caso Dante” al pari di un “caso Bruno”, di un caso “Machiavelli” o di un “caso Moro”? Politica appunto!

Apriamo il dossier.

   

Nasce a Firenze nel 1265, fra il 14 maggio e il 13 giugno, ma quasi certamente, come Lui indica, sotto il segno dei Gemelli. E si comincia già con l’incertezza anagrafica tipica. Primogenito maschio di una famiglia di piccola nobiltà residente nel “sesto” di Porta san Piero (sito rintracciabile anch’oggi se dal Mercato Vecchio si va in centro), esattamente nel quartiere di S. Martino del Vescovo, accanto alla Torre del Castagna. Pur non ricchissimi, gli Alighieri stanno bene: vivono della rendita fondiaria (feudale) proveniente dalle terre possedute nella periferia di Firenze, situate appena fuori dell’originaria prima cinta di mura romane. Aggiungevano poi gli introiti del piccolissimo commercio (paglia) che praticavano in città, e in più possedevano case e torri nel quartiere d’origine. La proprietà terriera di cui dispongono è frutto di precedenti scomposizioni dell’originaria stirpe che diremo.

Il nodo genealogico della famiglia, “tecnicamente” ghibellina per origine di censo, ma guelfa per matrimoni, tradizione e opportunità politiche, si cristallizza all’inizio con l’armatura (in-vestitura) a cavaliere del trisavolo Cacciaguida, anche lui nato a Firenze il 25 gennaio 1091, in un giorno d’Annunciazione. L’avo riceve il cingolo di soldato a cavallo direttamente dalle mani dell’imperatore Corrado III Ottone di Frisinga (il primo Staufen), più alcune terre in feudo fuori Firenze, quasi certamente poste lungo il fiume e nel “popolo” di Ema; e si aggiungono a quelle, già in possesso, di S. Miniato a Pagnolle, Camerata e Sant’Ambrogio. Per la seconda crociata in Terrasanta, Corrado Staufen nel 1134 raduna truppe e volontari in nome di Dio e del Papa: a 42 anni il devoto progenitore si vota con slancio al bando imperiale, che ode risuonare, fra l’altro, dal pulpito della chiesa benedettina della Badia, dove Bernardo di Chiaravalle predica focosamente la campagna cristiana di liberazione. Siffatti prodromi danteschi denotano affatto la ghibellinità di sangue, la genesi “romana” della casata. Solo il voto è guelfo.

Adamo Cacciaguida parte per Gerusalemme lasciando casa, moglie [3] e due figli. Non tornerà più indietro, come succede. Cade in battaglia e si guadagna il titolo di “martire della fede”. E non è detto che sia così (paradosso dell’incertezza). Perché se è vero che Dante (uomo di affidabilissima memoria ma pur sempre unico mentore di se stesso), non si confonde, per malcelata enfasi familiare, con Corrado II (come fa nel Canto XVI del Paradiso, ciò significa, per esattezza cronologica, che Cacciaguida in realtà non è partito per la Crociata, ma più modestamente per una battagliuola contro i Saraceni. Però i possedimenti terrieri, ricevuti per diritto medievale di vassallaggio e per meriti di guerra, restano, atto ad personam cum rito, in mano agli orfani, e assicurano vieppiù fortuna e ricchezza nobiliare alla casata Alighieri, che gli sopravvive e gli prosegue. Fin dalle sue radici, questa aveva contribuito direttamente a fondare Firenze già in epoca latina, perché discendeva con ogni probabilità dal ceppo romano dei Frangipane, possessori del Colosseo già al tempo dell’incoronazione di Corrado. C’è da sconcertarsi per la faticosa nodosità della ricostruzione (che pure occorre!), ma la sostanza e l’“assenza” del ramo femminile di questa genealogia [4] dantesca, costituisce il presupposto più propizio a comporre il quadro pratico e psicologico del “bandito” Dante, e lo fa apparire per questo quasi un predestinato: Uno che “vive” tuttora.

Messer Cacciaguida aveva due fratelli, Moronto ed Eliseo. Del primo non si sa nulla, se non qualcosa che risulta da qualche carta conservata nell’archivio della chiesa fiorentina della Badia. Del secondo invece sappiamo che formò quella famiglia degli Elisei, piuttosto importante e conosciuta nella storia del Dugento fiorentino. Palazzi e torri Elisei sono rintracciabili tuttora a Firenze, intorno ai quali allora si correva, ogni anno, il Palio equestre di San Giovanni, una giostra rituale a cavallo, il cui scopo era pressappoco analogo a quelli di altre città comunali: quello di rinsaldare contraddittoriamente il senso d’appartenenza cittadino. Solo che si “volava” fra le viuzze e gli incroci del borgo [5], e non in aperta piazza.

L’aspetto mitico, quasi al limite dell’edipico in Dante, della discendenza vissuta dal lato psicologico, consiste nel fatto strano che il fiorentinissimo Cacciaguida va a sposarsi in “Val di Pado”, cioè fuori, all’“estero”, in una città alle foci del Po (Ravenna, Ferrara?). Forse per la superiore e diversa importanza della casata cui apparteneva Donna Aldighiera (nome e cognome)? Gli sposi ebbero due figli: Aldighiero e Preitenitto (padre di un Buonareddita, nome esemplare per effetto di ricaduta). E’ significativo che al primogenito venga imposto il nome del suocero padano, tanto per continuare e sottolineare l’uso e il costume di imprimere il nominativo della casata “maggiore” fra i coniugi. Alighiero I visse poco, documentatamente fra la fine del XII secolo e il 1201, e si sposò a Firenze con una figlia di Bellincione de’ Berti, generando due figli, Bellincione e Bello, rampolli con nomi imposti palesemente in onore al ramo femminile dell’unione (ancora!). Giunto fra la gente di Firenze, l’estraneo fonema “aldighiero” risuona spontaneamente tronco, senza la “d” (come dirà Boccaccio nella sua Vita di Dante), cioè secondo il costume “noverco” del dialetto fiorentino. E come il Durante fu troncato in Dante, così il volgo fiorentino, che appiccica sempre soprannomi gratuiti a tutti, chiamò il futuro poeta “degli Alighieri”.

Perché? Non solo per la ragione che il Poeta alle spalle ne aveva due di “Alighieri”, pur con in mezzo il nonno Bellincione, ma perché il tipo e il comportamento sociale e cittadino del padre Alighiero II era già stato discutibile e discusso, a suo tempo. Il nonno Bellincione era molto affermato nella città del Giglio. Aristocratico e benestante, intratteneva stretti rapporti d’affari con le più potenti casate fiorentine. Era anche un abile mercante di successo e prestava credito con misura e moderazione, ma principalmente lavorava di persona le sue terre, conducendole onorevolmente a lode della gloria imperiale che gliele aveva fornite. Però gli faceva difetto il figlio, Alighiero II, il quale aveva puntato tutti i suoi interessi sul commercio e sul prestito cittadini (borghesi e volgari), più che sulla cura e la conduzione dei possedimenti paterni. A differenza del padre Bellincione, il genitore di Dante aspirava a diventare un grasso borghese, disdegnando apertamente l’appartenenza aristocratica e il criterio nobiliare. Non era certamente un uomo di “coltura”, ma gli piaceva vivere bene e sfruttare le situazioni. Dante infatti non ne tesse mai l’elogio, limitandosi a collocarlo coscienziosamente in Purgatorio, a purificarsi per cent’anni dalle deviazioni patite e a riscattare l’assenza di un’adeguata coscienza patriarcale. A differenza del padre, il ruolo maggiore nell’educazione di Dante lo esercita il nonno Bellincione, il quale se ne fa padre anteposto, fino a organizzare per il nipote adolescente il senso della continuità e della memoria storica e familiare, sia pur esse traslate, nella ricostruzione della Commedia, sul trisavolo martire e non conosciuto, messer Adamo Cacciaguida.

In presenza di un padre così debole “di carne”, peccatore nell’anima, il nonno si fa tutore del nipote primogenito, e punta su di Lui per la continuazione della stirpe nobiliare, che nei suoi intenti di certo non va perduta! E’ una miniera di visioni storiche, di notizie familiari questo nonno, fonte inesauribile di storia “orale”, notizie e leggende. A Dante gliele tramanda e gliele fissa nella memoria, in un esercizio anche collettivo sul mito dell’avo armato cavaliere, lavoro cui partecipa anche l’ex cancelliere comunale Brunetto Latini, il quale gli fa scuola su incarico e gli fornisce un’erudizione adeguata per quelle aspettative. Bellincione nasconde a Dante la condanna penale che il padre ha riportato per la losca conduzione di una serie di affari a cui si era lasciato andare, e che più gli piacevano: prestito al limite valicato dell’usura, commercio smoderato, cambiavalute, affari che per tradizione di famiglia si fanno solo “volgarmente” e senza alcun senso religioso verso lari e penati. Alighiero II insomma è considerato da suo padre un de-generato più che un debosciato, di costumi troppo diversi rispetto alla sua stessa linea generazionale. Per esempio, gli muore la moglie nel 1275 (circa), e convola subito a nuove nozze con Lapa di Chiarissimo Cialuffi, costituendo senza il dovuto timor di Dio un nucleo familiare composto da diversi fratellastri e sorellastre, con la presenza in casa di una matrigna di cui Dante non parla (scrive) mai, ma che gli diventa per lo più l’occasione per coniare, insieme al termine, il concetto di “noverca”, nova mater a valore aggiunto.

L’adolescente cresce in campagna, nei feudi degli avi, sotto la protezione e la pia devozione del nonno. Finchè questi vive, Dante in città c’abita poco, giusto il tempo di prendere lezioni private da ser Brunetto, che lo prende a suo modo e a cuore forse oltre misura [6], sollecitato com’è dalla raccomandazione dell’amico Bellincione d’Alighiero. Il ragazzo cresce in una perfetta situazione da ordine francescano, nel senso che da un lato studia in civitas la lingua scritta con la mediazione della grammatica e della retorica latina (Virgilio, Cicerone, Catone, Esopo, ecc), dall’altro lavora e vive nel piccolo feudo in assoluta naturalità. I due pontificati “francescani” di Innocenzo III e Onorio III avevano fatto da precedente sfondo e lasciano un segno. Natura e cultura giocano in lui la loro incondizionata dialettica. Il senso logico di questo dualismo vissuto distintamente tosto lo predispone alla tensione verso la risposta col pensiero trinitario [7]. Vita all’aria aperta in protezione dal mundus, visione di cose naturali, intelletto precoce, memoria eccezionale ed acuta sono il contorno di una doviziosa esperienza le cui tracce evidenti si ritrovano impresse nel verseggio delle innumerevoli allegorie animali e naturali della Commedia.

   

Questa purezza-forza dell’istinto e del conoscimento rende Dante assai più sensibile-debole su altri fronti dell’esperienza. Distacco, privazione e lontananza precoci ne sono la fonte sotterranea. Nel giugno 1273 giungono insieme a Firenze il papa Gregorio X e il re Carlo d’Angiò fra feste e gran risonanza di cerimonie pubbliche, e Dante rimane fortemente impressionato per l’aspettativa inevasa di pacificazione fra Guelfi e Ghibellini in cui si colloca. Questa lotta lui non la capisce giovincello com’è, ma per come si manifesta ne rimane scosso, quando sfocia per le vie della città in decine di episodi violenti a cui assiste, testimonianze di un contrasto interno insanabile: ad esempio la decapitazione in aperta piazza di uno dei fratelli di Farinata degli Uberti. Intorno allo stesso anno gli muore la mamma Bella, e i sentimenti di cui lascia traccia sono tuttora difficili da interpretare, se poi li lascia scritti nel Canto VIII, 45, dell’Inferno: «benedetta colei che in te s’incinse». Che vuol dire? Volgarmente intendendo, non può voler dire velatamente pure il contrario di ciò che si interpreterebbe un po’ troppo gratuitamente? La “situazione di mamma” gli si para sempre difficile, fino a esporlo a critiche e malocchi, a canzonature da cui dovrà difendersi più oltre: la Tenzone in versi scambiati fra lui e Forese Donati. Eh sì, perché la madre naturale gli muore fra il 1270 e il 1275, lasciando orfano di madre in una famiglia numerosa, in compagnia fra l’altro di un fratellino piccolino e una bimba di pochi mesi; poi, fra il 1273 e il 1280 gli nascono tre “fratelli”; e infine fra il 1275 e il 1278 Alighiero padre si risposa. Insomma, acquista piuttosto da grandicello una nuova madre, Lapa di Chiarissimo Cialuffi, la quale però, pur nel contesto poco amorevole del legame ad interesse con Alighiero II, si comporta più che bene nella dedizione alla numerosa prole: 8 fra fratelli, fratellastri, sorelle e sorellastre. Ma è una vita abbastanza movimentata lo stesso, che gli si complica ulteriormente quando nel 1281 gli muore anche il padre Alighiero II, trascinandolo a diventare capofamiglia a 16 anni, maschio più adulto fra tutti con a carico la matrigna, sia pur assai benigna. Adesso quasi imberbe deve condurre lui gli affari ereditati dal padre, e i possedimenti feudali che gli derivano dai Padri!

Era in possesso nel frattempo di un titolo di diritto reale: un instrumentum dotis garantito dalla guelfissima famiglia dei Donati, che con un documento notarile del 1277 - e tanto di accantonamento di beni e averi - gli promette in moglie una loro figlia, Gemma. Viene combinato il più classico dei matrimoni d’interesse, come se ne fanno tanti nel Medioevo, giù giù fino a noi che viviamo in tempi post… Un interesse anche squisitamente politico, cioè vantaggioso, perché la promessa giunge dalla più solida e rappresentativa famiglia guelfa benestante di Firenze. Ma l’amore dov’è? Roba da medioevo! Eppure, sulle tracce di Agostino un secolo prima l’oltrequarantenne Abelardo, grazie alla sua avventura con la sedicenne Eloisa, aveva “pre-dicato” (offerto ragioni), in una già vasta eco europea, l’idea dell’amore individuale (e perciò pericoloso per il legame sociale), un amore passionale, carnale, in lotta o in simbiosi con l’amore divino, infinito.

In simili capitoli (contratti) d’epoca medievale, in simili giovani cittadine (Firenze), l’Amore neanche sotto forma di Spirito Santo poteva essere considerato, comunemente, come oggetto privato di transazione fra persone (per giunta prive di diritti reali, ma dotate di oneri sociali). Fuori della sua condizione divina, cristiana, il sentimento dell’Amore era considerato un in sé ancora acerbo, magari un presupposto dato, certo. Più avanti daremo conto di ciò. Ma fatto si è che per esperienza vissuta (legami commerciali con il sud della Francia, dimestichezza familiare con il Roman del la Rose, l’eco di Abelardo), il giovinetto Dante si era trovato, per sua ventura, in un’idea tutta particolare di questo affetto dell’anima. Infatti avrà modo, com’è noto, conoscerlo e approfondirlo, cioè formularlo nella sua poetica prossima. Esso affondava le radici nel bel bagaglio di esperienze romantiche très-très-avant-la-lettre, da lui vissute in modo primordiale, forse non applicate strettamente al sesso (così come oggi Noi post-medievali pretendiamo di intenderlo spudoratamente), ma certamente nate nell’alveo di un originale, cioè aristotelico sentimento, rivisitato, cresciuto nella devozione ereditata in famiglia. Oppure sì, se si pensa che già 3 anni prima, nel 1274, all’età di nove anni, Dante “incontra” Bice di Folco Portinari, un’angiola «chiamata da molti Beatrice, i quali non sapeano che si chiamare». Quello sì che è il suo Amore vero, la “donna della sua mente”, lo “spirito de la vita”. Questa famosa visione dell’amata testimonia del desiderio reale, effettivo e consumato che la presuppone, che la invoca: anche quello carnale molto probabilmente. Come spiegare il dato che Lui stesso ha fissato quell’incontro, non a caso, nella memoria e nella Vita Nova, in eterna ricorrenza col numero 9 (l’infinito arabo): 1274 primo “incontro”; 1283 secondo “incontro” all’ora nona di un giorno di maggio (nascimento); 1291 morte di Beatrice e depressione totale. Sospendete un momento l’angelicazione e la sublimazione propinateci come immagine diafana del fatto e dell’evento, le quali appartengono più quell’attuale economia politica che vuole sempre ri-presentarci un Dante olimpico e distinto, non “volgare”. Sarebbe meglio, per il nostro intendimento più sano, attenerci realisticamente alla ordinarietà quotidiana della vita, alla sua semplicità banale, quasi volgare, che sottende e svela sempre il mito (dantesco): la “visione”, l’”incontro”, l’“apparimento” di una bambina a un bambino di 9 anni, che cosa ci lasciano immaginare se non un “contatto”, un gioco, un divertissement cittadino (popolare) fra due ragazzini impuberi!? Se non fosse così, a che titolo un accadimento poi in fondo così privo di senso (il vedersi, l’incrociarsi forse?) entra nella coloritura poetica, nella fantasia lirica, nella rimuginazione letteraria, nell’arzigogolo mitico, individuale e collettivo, per ripetersi poi e rimbalzare nella storia nostra, medievale e moderna?

   

E poi, l’incontro del 1274 in sé non avrebbe mai fatto testo senza il mitico saluto del 1293! Alcuni dipinti olografici ci hanno perfino confezionato (spiritualizzato) l’iniziativa del primo sorriso di Bice, sul ponte dell’Arno, a un Dante che non s’aspetta di esser salutato, cioè scelto e ricordato: una donna così bella, ben vestita, semplice e onesta, che lì per lì crede di vedere la prima volta. Perché? - si domanda. Ed è così: pur precoce e di grandissima mente, al ragazzo i fatti precorrono più che la memoria, la sensazione è così forte che gli obnubila la percezione. Il sorriso di lei è un atto sicuro di “ri-conoscimento”, di assenso alla persona, di disponibilità e di promessa. Dante è basito dall’occasione, ma la situazione psicologica della rivelazione d’Amore sarà formalizzata dapprima nella Vita Nova e poi nella totalità della sua poetica (canto centesimo della Commedia).

Ma ragioniamo adesso dell’episodio (1283) che fa onore/disonore, testo comunque, alla personalità e alla psicologia tipica di un poeta predestinato: la famosa “vendita di un credito di ventun lire”, peraltro riconducibile a dimensioni modeste. Un fallo che gli costa la perdita del ruolo di capofamiglia non appena diventato maggiorenne. E tosto il subentro del fratellastro Francesco nella conduzione del patrimonio Alighieri, a cui questi pare assomigliare di più dal punto di vista commerciale. E poi l’imbocco dell'iter studiorum. Si vede proprio che il ragazzo non è tagliato affatto per le feroci transazioni commerciali che si operano nella città del Fiorino, e che stanno per risucchiare le “ricchezze” di casa. È meglio indirizzarlo agli studi, al noviziato in qualche conventualità cittadina, dove sicuramente può trovare la concentrazione necessaria a pensare un suo qualche destino. Ma perché? Tecnicamente il credito è un diritto, già scaduto o da scadere, di pretendere dal debitore il pagamento di una somma di denaro, o di pretendere da lui l’adempimento di una prestazione di carattere patrimoniale. È una dilazione di pagamento, che presuppone la cambiale, che si “inventerà” giù di lì (nel tempo e nello spazio) a Prato, per opera e ingegno di Messer Francesco Datini. A sua volta, la “vendita” di un credito, presumbilmente a un terzo, è l’attività di una banca! Un baratto di titoli a tempo! L’accusa del 1301, quella che gli costerà l’esilio perpetuo e mai più riscattato (riscattabile). Però, l’atto di Dante poteva anche essere considerato un’idea geniale, tanto più che la vendita avviene per la morte di Alighiero. Il padre, morendo lascio un debito personale: la sua morte doveva essere “pagata” in solido. Le ipotesi degli “studiosi” sono molte: non si sa se fu ucciso, se era morto invendicato, o se, trapassando per causa naturale, il debito derivasse dalla scomunica per eresia e per usura. L’inghippo era grosso, e difficile il momento politico.

Il giovane Dante aveva tentato anzitempo una soluzione: una prova precoce che gli viene rifiutata, in città e in famiglia. Intaccare il patrimonio, la credibilità, cedere l’attendibilità. La questione è ancora oggi irrisolta, e lo sarà finchè non ne conosceremo esattamente le condizioni di specie al caso.

  

  


1 È inutile ricordare che di Lui non esiste scritto autografo alcuno?

2 In senso tecnico, la commedia è parodia letterale della vita concreta, la sua rappresentazione (ri-presentazione) posta su un altro piano (ampiamente mediano e mediatico fra il comico e l’idilliaco).

3 Caso illustre, ma negativo, di prima mater semper certa che fa ancora fantasticare i genealogisti di Dante e lui stesso, tanto che nella sua autoanalisi spirituale, individuerà nella trisavola la probabile scaturigine del tipo psicologico cui ritiene di appartenere. Quando si metterà definitivamente l’anima in pace sulla possibilità di ritornare a Firenze (gente cattiva), il poeta stabilisce la sua sede ultima a Ravenna, luogo probabilissimo, accanto a Ferrara, dell’origine di Aldighiera. L’incertezza del ramo femminile della casata dantesca si ripete paradossalmente con Donna Bella, madre naturale del Poeta, tuttora di ignoto casato e di cui lui non ha mai lasciato scritto nulla. Non si sa da chi provenisse esattamente la “signora” Aldighiera di Val di Pado (Ferrara?). Certo è che il giovane Cacciaguida la dovette sposare nel suo paese d’origine, segno del superiore appannaggio nobiliare, altresì accentuato dal nome imposto al primogenito dei coniugi Cacciaguida: Al(d)ighiero. La dote perciò doveva essere maggiore a quella del marito. Recentemente alcuni hanno vagheggiato una lontana origine araba o orientale di Alighiera, rinvenibile dal fonema bivovale così singolare, e dall’antica colonizzazione bizantina della Val di Pado, che generalmente si può intendere come le foci del Po.

4 Tanto per nota, posto che ve ne sia bisogno: l’epoca medioevale non si basava su un codice “civile”, ma su una normativa simbolica basata sulle qualità della “persona naturale” in senso stretto, cioè cristiano (padre-figlio, natura-madre, nascita-evento, matrimonio-patrimonio, averi-poteri, ecc. ecc.). La ricchezza si basò per lungo tempo (è utile dirlo?) solo sulla quantità di terra disponibile al possesso, terra intesa come natura spontaneamente feconda. Il lavoro che vi si applicava non si staccava dalla naturalità, ed era inteso in quest’epoca, anche psicologicamente, più come guerra alle avversità naturali che come “moderna” organizzazione. E d’altra parte, la morale biblico-cristiana assimila in contrappasso il commercio e lo scambio (giusto agli inizi, nella Firenze di Dante) alla contaminazione, quale sinonimo di corruzione (Gesù che sbaraglia i mercanti introdottisi nel Tempio).

5 Quando era in vita Cacciaguida, Firenze contava 14mila abitanti, e all’epoca di Dante già se ne calcolavano 80.000! Se si tiene conto della dimensioni relativamente piccole del Comune, in centocinquantanni Firenze ha subito un fortissimo inurbamento praticamente senza paragoni, in sé dovuto al generale miglioramento del clima e all’aumento della temperatura, che gli studiosi hanno scientificamente dato per certo dopo il Mille nel Mediterraneo. Si è verificato perciò, più che altrove, il tipico fenomeno dell’epoca comunale: crescita esponenziale delle nascite e attrazione di un gran numero di popolazione dalle campagne vicine verso il centro cittadino (cfr. Paradiso, Canto XVI).

6 Non è sintomatica per la ricostruzione dell’esperienze puerili di Dante la collocazione di Brunetto Latini nell’Inferno, girone dei sodomiti? Vi si può vedere, in certo qual modo, il segno apparente della passione e della sincerità profuse con l’insegnamento, profondo e attento, della grammatica e delle materie formali.

7 Secondo le più verosimili e accreditate ricerche storico-antropologiche, è proprio all’epoca di Dante che l’Occidente europeo interiorizza praticamente il pensiero trinitario, elevandosi alla coscienza come forma della cristianità precedentemente preparata (Agostino e Abelardo). Con la fissazione al suolo, la costituzione di un’agricoltura stabile e il formarsi dei villaggi (tre fenomeni caratteristici in esito alle grandi migrazioni e “invasioni” medievali), continua e trasforma il concetto dei Greci, i quali pensavano per triadi: caso-determinismo-volontà. È in Occidente che il dogma cristiano della Trinità prende forma, sbaragliando le eresie unitarie (le dottrine monofisiche) e dualistiche (il manicheismo così influente nel medioevo con i Catari). A quali condizioni? Forse in ragione della struttura triadica delle comunità agrarie (la casa e il giardino; le terre arabili in proprietà “privata”-feudale; i pascoli e le foreste in possesso collettivo). Forse anche a causa di un processo originale: la formazione delle città (comuni) su una base agraria già sviluppata, cosicchè la città appare come una unità superiore, che unisce borghi e villaggi, luoghi familiari e luoghi esterni (estranei-stranieri) perché lontani. Forse infine perché questo modello ternario affonda la sua ragion d’essere nella geometria euclidea e nella teoria dello spazio a tre dimensioni (benché sembra preesisterle e dispiegarsi anche al di là della scienza). Perché non cercare nello spazio sociale (o mentale) le ragioni delle rappresentazioni dominanti?

  

  

©2002 Fernando Giaffreda

  


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