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Le fonti e la vita Temi e problemi Bibliografia
Ghinotto è una personalità storica medievale realmente esistita fra il XIII e il XIV secolo, la cui problematica non è del tutto conosciuta.
Nonostante l’involontaria dignità politica e l’inconsapevole disgrazia storica attribuitegli nella unilaterale relazione postuma con un personaggio assai più recente - il più conosciuto Bettino -, fra i due scomparsi serpeggia ancora un’improba tenzone: il rimpallo del titolo immeritato di bandito-fantasma.
Come accade per ogni analisi pratica, cioè nella pratica di ogni analisi, l’intento è di separare i due e render statura storica, per ora, più al primo che al secondo, verso il quale non è ancora possibile restar freddi e distaccati nel giudizio. Ecco infatti che per fortuna dei medievisti interessati, Ghino di Tacco è cronologicamente nato assai prima, cosicché costoro si possono rivalere col maggior conforto del trarre da Lui lo studio dei fondamentali di un’arte antica allo stato puro e primordiale: rubare, rapinare, portar via l’altrui valore. Si sa, dal furto al sequestro, e da questi alla confisca, il passo è breve, ma Ghinotto, per quanto a chiunque possa risultare, non sembra aver mai sconfinato dalla rapina secondo il suo intendimento: riprendersi alla peggio ciò che riteneva appartenere alla “natura originaria”, secondo gli usi e costumi più tradizionali di famiglia.
Nella Commedia, il coevo Dante ce lo dipinge uomo forte e fiero
Quiv’era l’Aretin che da le braccia |
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte |
(Purgatorio VI, vv. 13-14) |
per aver vendicato la morte del padre, Tacco di Ugolino, giustiziato dopo un anno di prigionia e tortura a Siena nel 1286, in piazza del Campo col fratello, Ghino di Ugolino, e il figlio, Turino di Tacco.
Per conto del comune e su iniziativa dei conti di S. Fiora, la sentenza del giurista Benincasa da Latrina (“l’Aretin”), giureconsulto a Bologna prima e giudice del podestà di Siena poi, ascrisse a quella “banda dei quattro” - quattro col piccolo Ghinotto - la colpa di aver commesso numerose sottrazioni e taglieggiamenti nei feudi limitrofi al loro, di avere occupato e incendiato il castello senese di Torrita, di aver ferito gravemente il confinante Jacopino da Guardavalle, amico guelfo di Siena. Il decreto risparmiò la pena capitale a Ghinotto perché minorenne, cosicché di quella antesignana stirpe ghibellina senese, i Cacciaconti Monacheschi Pecorai, rimase solo il giovane rampollo, il quale assunse nome Ghino di Tacco, più gli attributi del titolo di bandito: condannato, estradato e però graziato. Benincasa invece fece carriera: qualche anno dopo la sentenza passò al servizio della corte papale in qualità di senator ac auditor di Bonifacio VIII, l’inventore del Giubileo a sfondo economico. Ma di lì a poco l’aspettava il contrappasso dantesco di una morte cruenta: postosi a capo di una spedizione punitiva formata da alcune centinaia di uomini, Ghino piombò in Tribunale al Campidoglio, gli tagliò la testa in aula infilandola all’asta, e se la portò nel castello di Radicofani, dove a lungo ne espose lo scalpo appeso al torrione. Pare questo essere l’unico omicidio commesso da Ghino, attuato per estremo e paradossale senso di una giustizia che riparasse ai suoi occhi la morte precoce del padre, dello zio e del fratello. Per il resto condusse una personalissima e isolata lotta politica, paragonata più nella leggenda che altro a quella di un Robin Hood della Val d’Orcia e Val d’Ombrone.
Al di là del mito, le circostanze politiche sono ben diverse da quelle inglesi del dodicesimo secolo, giacché il contesto sociale in cui Ghino di Tacco “opera” è tipico di un qualsiasi conflitto politico delle classi sul regime fondiario nel Medioevo. La lotta ingaggiata in Toscana fra lo Stato di Siena e la Donazione di S. Pietro sulla proprietà e la rendita dei territori di confine a nord dell’Amiata, si innestava con quella fra ghibellini e guelfi del XIII secolo. Il prelievo (rendita) della ricchezza terriera esercitato dalla Chiesa senese a favore della Curia romana, pareva eccessivo a nobiluomini ghibellini della Fratta dei Cacciaconti, tanto più se della maledetta detrazione usufruivano ceti e città avulsi dai luoghi, per scopi separati dalle circostanze locali. I primigeni Monacheschi Pecorai s’accanivano molto sulla “legittimità” dei gravami imposti alla rendita agricola e demaniale dal potere centrale, in questo caso rappresentato dalla proprietà ecclesiastica senese e curiale romana. Da fisiocrati avant-la-lettre, si assumevano in proprio il compito autonomo di indebolire con razzie, saccheggi, furti e rapine la parte avversa ovunque si organizzasse. Pensavano che l’estorsione fosse il metodo più equo ed efficace per ripristinare comunque al luogo il surplus prodotto nel feudo d’appartenenza. E si ha notizia che questa pratica non fosse completamente isolata fra i nobili senesi. I furti di Tacco insomma facevano il pari con i prelievi fiscali della “straniera” autorità pontificia, e dei suoi ricchi sostenitori in terra di Siena. Da questo punto di vista la storia di Ghino di Tacco è un esempio largamente anticipato del futuro brigantaggio francese, nonché italiano, del Sette-Ottocento, inteso come la tipica “questione meridionale” che ha come sfondo la lotta faziosa sul modo di impadronirsi e sfruttare la terra.
Il castello di Radicofani (Siena)
Reduce da un’ulteriore condanna in contumacia al pagamento di 1.000 soldi per una rapina commessa a S. Quirico d’Orcia, e altresì sottoposto ad un’indagine nel 1290 per l’intenzione di voler costruire una fortezza fra Asinalunga e Guardavalle, l’orfano Ghino si rifugia nel castello di Radicofani, di cui s’impadronisce grazie alla sua esuberante abilità militare, strappandolo altresì alla proprietà papale. Da quella postazione obbligata per chi viaggiasse da Siena a Roma, organizza imboscate a danno dei pellegrini di passaggio, specie i più apparecchiati che dalla via Francigena alla Cassia si dirigevano a finanziare il potere di Roma. Ma nella sua magione spesso ospitava i poveri e gli studenti, pellegrini anch’essi, li nutriva e offriva loro qualche possibilità di lavoro: la fine del viaggio. Paradossalmente Ghino di Tacco rispettava e attuava il codice militare più remoto, anteriore alla Donazione di S. Pietro: si metteva in lotta con facilità e combatteva apertamente, attentava sì con mano armata alle persone e alla proprietà, ma a quelle ritenute eccessive, ne prelevava parte della ricchezza senza ucciderle, seguendo gli scopi di una giustizia tutta sua, diversa da quella riconosciuta. Soldato romano all’antica, avventuroso ma appiedato suo malgrado, orfano e per giunta fuoriuscito, bandito e condannato dalla città, Ghino diventa nemico dell’ordine pubblico e del potere stabilito. È il classico uomo d’arme “che briga”, opposto al cavaliere, ma che agisce lo stesso in obbedienza ai principi dell’uomo romano a cavallo. E nell’antica Roma questi apparteneva a quella classe distinta cui erano riservati il grande commercio e gli appalti pubblici.
Finalmente il certaldino Boccaccio toglie a Ghino di Tacco ogni titolo negativo, aggiungendo alla “fierezza” di Dante la qualifica di grande “dietologo dei devoti”, ancora très avant-la-lettre.
Ghino
di Tacco piglia l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi
il lascia quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio
papa e fallo friere dello Spedale |
(Giovanni Boccaccio, Decameron, X, 2a) |
Nel suo viaggio d’andata il facoltoso Abate di Cluny era sfuggito all’attenzione di Ghino di Tacco, ed era riuscito a portare indenne tutta la devozione e il credito della chiesa francese nelle mani di Bonifacio. Nell’aria e nel cibo di Roma consistettero la più piena approvazione che papa Caetani riconobbe al priore. Ritrovatosi però alquanto costipato e avaro nel corpo, questi ottenne dal papa il consiglio e il permesso di andare ai Bagni di San Casciano, stimato luogo termale e di cura vicino Siena, per sanarsi il fegato e l’organismo. Informatosi però dell’importante arrivo, Ghino di Tacco allestì per l’abate il consueto trattamento riservato ai soliti pellegrini facoltosi, questa volta indirizzato non alla borsa, che aveva lasciato ormai a Roma, ma alla sua persona fisica. Il ghibellino fece catturare l’abate e lo rinchiuse nel castello di Radicofani, senza percosse o ferite. Fave, pane e vernaccia furono gli unici alimenti disponibili, fino a che l’abate si ritrovò guarito. Lasciato libero e salvo, l’ecclesiastico francese intercesse di ritorno sul papa, in maniera molto convincente, perché avviasse un processo di riabilitazione di Ghino. Che si concluse con la cancellazione di tutte le pendenze penali causate dall’assassinio di Benincasa, con il perdono della Repubblica di Siena e con la nomina di Ghino di Tacco a Cavaliere di S. Giovanni e Friere dello Spedale di Santo Spirito, titolo quest’ultimo che annetteva una vasta commenda.
Il monumento a Ghino di Tacco eretto a Radicofani (Siena) dallo scultore Aldo Fatini
Se da codesta laconica figura di “brigante” Ghino di Tacco non riesce ancora ad uscire completamente forse è perché da qualche parte conviene lasciare nel “reale” e nell’“attuale” il suo alter-ego moderno. Meglio sarebbe inquadrarlo allora come un “giustiziere fisiocrate” o come un dietologo naturista per vocazione sociale. Ma se di brigantaggio si deve seguitare a parlare, è bene svelare la “leggenda” di un fenomeno al quale Ghinotto era legato per un’affinità e una discendenza romana fra le più “classiche”.
Il brigantaggio nel mondo romano era una manifestazione sociale conosciuta sin dai tempi della Repubblica prima e dell’Impero poi. Se ne ha notizia nel 185 a.C., quando il pretore Postumio organizzò una serie di grandi spedizioni di polizia per reprimere il brigantaggio colpendolo nel covo d’elezione: Taranto. Cesare fece altrettanto in Sardegna e a sua volta Augusto se ne servì come pretesto per costruire postazioni militari armate in Asia Minore e in Spagna. L’imperatore Tiberio organizzò la deportazione di 4.000 ebrei liberi in Sardegna per cacciare e combattere i briganti, i quali venivano puniti solitamente con la crocifissione qualora non si fosse riusciti a correggerli o ad avviarli ai lavori agrari. Nel Medioevo il fenomeno si ripresenta in maniera endemica tutte le volte che l’autorità statale è debole e manca un’organizzazione militare regolare. Prive del comando e degli ordini codificati dal più tradizionale diritto romano, le milizie mercenarie si disperdono, si autoorganizzano, cioè “brigano”, trasformandosi in bande di cani sciolti che il mondo medievale denomina appunto briganti. Risulta poi che fra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV, in Germania alcuni piccoli e grandi feudatari, in specie cavalieri, si siano dedicati a svaligiare monasteri e singoli cittadini ecclesiali arricchiti, intervenendo unilateralmente nelle faccende politiche locali e mescolando il carattere del capo politico con quello del capo militare (“brigatore”). Che sia stata allora una misteriosa “corresponsione di umani sensi” con Ghino di Tacco la semina del terrore nelle vicine città praticata dal famoso cavaliere Franz von Sickingen, poi glorificato da Ulrich von Hutten come “spada di Lutero”? Comunque sia, il “brigante” mette il più delle volte in mezzo una quaestio politica quando appartiene alle classi alte; e un problema fiscale quando appartiene alle classi subalterne.
Il
monumento eretto di recente a Sinalunga in onore di Ghino di Tacco lo raffigura
come un omone minaccioso e bronzeo, che impugna una gigantesca spada. Privo però
di un elemento determinante e caratteristico: il cavallo. Ghino ha sempre scelto
quello giusto per ogni sua battaglia se è vero che gli riuscì di morire
“commendatore”. E quando glielo tolgono o lui stesso vi rinuncia, ci rimette
comunque di persona: come accadde nel giorno della sua morte, avvenuta ad
Asinalunga nel primo ventennio del ‘300, in seguito al suo nobile tentativo di
sedare una rissa plebea fra fanti e cittadini.
Bibliografia
(cui si rimanda per le indicazioni sulle fonti)
B. Bentivogli, La vendetta di Ghino di Tacco. Per il commento a 'Purgatorio ', VI 13-14, in «Filologia e Critica», XVI (1991), pp. |
267-71. |
Ghino di Tacco nella tradizione letteraria del Medioevo, a cura di Bruno Bentivogli, Salerno editore, Roma 1992. |
B. Craxi, Ghino di Tacco. Gesta e amistà di un brigante gentiluomo, Koinè Nuove edizioni. |
©2006 Fernando Giaffreda (I ediz. 2002)