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di COSIMO DAMIANO FONSECA

 

 

   

Se volessimo rinvenire l'antecedente storiografico al tema di questa lezione inaugurale amabilmente affidatami dal Magnifico Rettore e dal Senato Accademico della nostra Università, non esiteremmo di far riferimento alla prolusione, ovviamente depurata dalle scorie dell'ideologia imperante, che Pietro Fedele tenne ottantatré anni fa e precisamente il 5 marzo 1915 all'Università di Roma dando inizio alle sue lezioni di storia medievale, incentrata su «La coscienza della nazionalità in Italia nel Medio Evo». In essa lo Storico minturnense si poneva la domanda se «l'idea di nazionalità sconosciuta al mondo antico» si fosse smarrita durante il Medioevo schiacciata tra i due poteri universali del Papato e dell'Impero; domanda a cui faceva seguire chiara e netta la risposta e cioè che l'unità morale della Penisola creata da Roma e basata sull'unicità della lingua e del diritto non subì incrinature di sorta; né l'avvento dei longobardi, né il particolarismo feudale, né tantomeno il movimento comunale offuscarono la coscienza della nazionalità italiana o attentarono all'unità morale del suo popolo in quanto permansero i valori della tradizione, della cultura, dell'arte, della poesia, della religione. La coscienza della nazionalità, concludeva Fedele, «è una delle correnti perenni della nostra storia».

Una visione ottimistica, se non oleografica, quella di Pietro Fedele, che intravvedeva quale fondamento dell'idea di nazionalità, l'unità morale della penisola basata sull'unicità della lingua e del diritto, anche perché la storiografia degli ultimi anni ha dimostrato con dovizia di argomenti, almeno per buona parte del Medioevo, l'esistenza di più Italie, non senza rilevare che proprio per l'età sveva l'Italia aveva ben più angusti limiti territoriali includenti la Padania, parte del Veneto e, talvolta, secondo le contingenze politiche, i domini della Chiesa.

è pur vero che una tale fondata constatazione sembrerebbe a prima vista contraddetta dal tema stesso di questa lezione che assume onnicomprensivamente l'Italia quale categoria geografica e storica più o meno nell'accezione attuale, ma a ben riflettere si tratta di una apparente contraddizione in quanto ponendo l'accento sulla difficile coesistenza tra potestà universali e poteri locali, emergono immediatamente le varie Italie segnate, volta a volta, dal particolarismo feudale, dal movimento comunale, dalle repubbliche marinare, dallo Stato della Chiesa, dalla monarchia sicula.

è su questa variegata realtà che questa lezione ha voluto verificare la politica di Federico II operando in una duplice direzione, quella del Papato e dell'Impero e quella dei poteri locali entro cioè quei due nodi che continuamente si intersecano nella nostra storia nazionale.

E cominciamo dall'altra potestà universale e concorrente nella politica federiciana costituita dal Papato con la sua eredità temporale incentrata sul patrimonio di San Pietro e con la sua eredità spirituale e culturale innervata su Roma esaltata, non a caso, come sedes Imperii. Non è certo questa la sede per effettuare una ricognizione delle vicende del patrimonio di San Pietro tra Impero e Regno: un patrimonio dalla costituzione molto complessa entro cui convivono città che aspirano all'autonomia e formazioni feudali che mirano a realizzare un potere forte sui singoli territori.

Nell'arco occupato dalla presenza federiciana il governo papale sul patrimonio di San Pietro opera tenendo conto di tale situazione: con Innocenzo III si assiste a un consolidamento del patrimonio in forme statuali sempre più nette e precise: basti pensare al riconoscimento del patrimonio nella sua estensione da Radicofani a Ceprano effettuata da Ottone IV di Brunswick nel 1201, alle campagne condotte da Innocenzo III per piegare comuni e nobiltà nel Lazio settentrionale, all'opera di pacificazione compiuta dallo stesso pontefice nella Sabina e nella Campania tra nobiltà e città in conflitto. Vengono così riconosciuti al Papa poteri quasi statali (riconoscimento del supremo tribunale pontificio, obblighi militari dei comuni e dei baroni, obblighi finanziari, approvazione delle nomine di podestà forestieri). Insomma con Innocenzo III si assiste a una ristrutturazione dello Stato della Chiesa e vengono potenziati i Rettorati con la nomina di due per il Lazio e di uno per rispettivamente per la Marca di Ancona e per Spoleto con il compito di mantenere la pace, di presiedere le cause in primo e secondo appello, di amministrare i castelli. [...]

I rapporti del Patrimonio di San Pietro con l'Impero non furono l'unico problema che tra XII e XIII secolo interessò le relazioni diplomatiche tra le due supreme potestà; ad esso se ne aggiungeva un altro, quello dei rapporti tra il Regno di Sicilia e l'Impero, che innovava profondamente negli equilibri politici del tempo in quanto saldava una parte consistente dell'Italia - sulla quale peraltro il Papato vantava antichi diritti feudali - a un esponente della nobile famiglia degli Hohenstaufen che in quel tempo deteneva la dignità dell'impero romano-germanico.

 

Un evento, questo, dell'unione del Regno all'Impero, gravido di conseguenze in quanto l'apertura all'Impero dei territori meridionali della penisola spostava decisamente l'asse di gravitazione del Regno dalla sua naturale vocazione mediterranea a un destino europeo inserendo il Mezzogiorno nella comunità culturale dell'Europa occidentale.

In questo contesto istituzionale, ideologico e politico entro cui si consumò il conflitto tra Papato e Impero sullo sfondo della realtà italiana, vediamo comporsi il mosaico dei poteri locali con le loro marcate specificità, le singole identità, le proprie individualità: a cominciare, tra le repubbliche marinare, da Pisa dove, pur nell'adesione della città alla parte imperiale, emerge una robusta «coscienza cittadina» in un solido intreccio tra Comune e Città, tra forze locali, Vescovi e Ordini mendicanti, quest'ultimi acclamati come veri «coadiutores episcopi et civitatis»: la Piazza dei Miracoli nella sua superba singolarità esprime nella maniera più alta questa conurbazione tra potere politico e potere religioso.

Mentre ad Amalfi, o più in generale nei Comuni marittimi campani, pugliesi e siciliani, il quadro delle realtà locali assume ancora variegate e diversificate articolazioni. In queste aree urbane l'incombente governo dei Sovrani normanno-svevi aveva drasticamente limitate le autonomie cittadine. Le energie borghesi e le tendenze autonomistiche furono completamente soffocate, a volte con atti di inaudita brutalità. Queste azioni facilitarono l'ingresso dei mercanti del nord e favorirono l'economia produttiva dei comuni delle aree settentrionali che importavano dal Sud, oltre i grani e le vettovaglie per le loro crescenti popolazioni, anche materie prime come cotone, lino, canapa, lana, pellami ecc. che poi ritornavano al Sud come manufatti innescando quel processo economico di tipo coloniale che, in larga misura, sarebbe alla base del problema del Mezzogiorno. [...]

Ma questa Italia, anzi queste Italie di differenti origini, di composite matrici culturali, di frastagliate realtà politico-amministrative, contava altri ambiti di potere locale, altri gangli vitali nel controllo del territorio italiano. Ci si intende riferire alle grandi signorie monastiche che da nord a sud della penisola giocavano un ruolo decisivo, oltre che di natura religiosa e spirituale, di impronta giuridica, politica ed economica. Basti considerare [...] per l'Italia meridionale le grandi signorie monastiche di Montecassino, Santa Sofia di Benevento, Cava dei Tirreni, Venosa, Montevergine e Monreale.

Ebbene, di fronte a questa Italia come si rapportò il grande imperatore svevo? Quale coscienza ebbe della sua costruzione geopolitica e della sua dimensione territoriale? Come visse la ricchezza dei molteplici patrimoni territoriali e, specialmente, l'incombente presenza dell'altra potestà universale il cui peso morale era ben maggiore di quella del titolare della dignità dell'Impero?

L'analisi dei documenti emanati dalla sua Cancelleria ci restituisce, sottesa alla parola «Italia», una ben precisa dimensione territoriale, cioè l'aggregazione di province dell'Impero comprese tra il Regno di Sicilia e la Germania in cui, volta a volta, a secondo le contingenze politiche, potevano gravitare anche le terre soggette alla giurisdizione pontificia. Ne fornisce, tra l'altro, una prova il solenne documento emanato il 27 novembre 1220, a cinque giorni dalla solenne incoronazione imperiale, in cui egli si rivolge ai più alti rappresentanti della Chiesa e della feudalità, ai consoli e alle comunità cittadine e castellane, ai rettori e al popolo della Lombardia, della Romagna e della Tuscia accomunati e indicati con il termine «tota Italia».

E ciò che ancora rende singolare questo documento è che a portare avanti l'opera di pacificazione, Federico invia un suo fedelissimo collaboratore, il principe e vescovo Corrado di Metz, con la funzione di legato: comincia così ad assumere più nitidi contorni anche il disegno politico di Federico II che negli assetti istituzionali di questa «Italia» prevede una direzione unitaria affidata a un Vicario o legato generale cui competerà il coordinamento dei cinque distretti in cui era divisa l'Italia.


     
Di questa Italia Federico ha piena consapevolezza dell'essere un microcosmo dalle precise coordinate geografiche. Questa Italia Federico vuole che mantenga la sua unità politica fortemente interconnessa con l'autorità imperiale per la quale, a sua volta, non rivendica il fondamento della legittimità del suo potere sulla tradizione ottoniana del Regno italico, cioè entro un ambito di sovranità distinto dalle prerogative dell'Impero: da questo punto di vista rimane una testimonianza emblematica la lettera inviata da Federico alla fine del 1236 alle città e ai sudditi del Regno di Sicilia che parla dei Lombardi come di «Italie quedam factiosa collectio intenti ad obtinendam Romani imperi monarchiam»; per questa loro attività scissionistica e minoritaria che rompe l'unità degli «universi imperii nostri fideles per Italiam constituti», egli con linguaggio colorito ed efficace li bolla come il loglio nel granaio e la putredine nella sentina («velut in granario lolium et putredo remanserit in sentina»).

Insomma Milano con i Comuni confluiti nella Lega lombarda costituivano una turbativa all'autorità; la loro aspirazione all'autonomia colpiva al cuore l'unità delle province e comprometteva all'interno e all'esterno, specificatamente nei confronti del papa e dei principi tedeschi, l'onore imperiale.

Ma dove Federico II investe la sua stessa credibilità politica in piena coerenza con il suo progetto politico è nel legame che instaura tra l'Italia e Roma. L'occasione gli era stata offerta dalla fortunosa conquista, nel novembre 1237, del Carroccio che, come è noto, assolveva a una duplice funzione, l'essere cioè contemporaneamente una macchina da guerra e un vessillo blindato che, durante la battaglia, diveniva essenziale punto di riferimento per i soldati. Alla conquista del Carroccio da parte dei nemici veniva dato un grande significato propagandistico.

Ebbene, l'esercito imperiale in maniera del tutto fortuita aveva sottratto l'ambito trofeo alle truppe milanesi e ai loro alleati, ma Federico nell'intento di utilizzare a fini propagandistici l'episodio, volle celebrare la grande vittoria facendo organizzare a Cremona una marcia trionfale durante la quale il podestà di Milano, il veneziano Pietro Tiepolo, venne issato sul carroccio trainato da un elefante e additato al pubblico ludibrio.

Successivamente l'Imperatore decise di inviare il carroccio milanese o molto più verosimilmente alcune parti di esso a Roma «sede del nostro Romano Impero», per essere esposto con una iscrizione scelta, con rammarico del papa, dallo stesso Federico. Il documento che accompagna il dono del Carroccio altro non è che l'esaltazione dell'ideologia imperiale entro cui trova una consapevole collocazione il rapporto con i Comuni dell'Italia padana. In esso Federico instaura uno strettissimo rapporto tra il «decus imperiale» e l'«honor Urbis»: è questo honor, inteso nella sua pregnanza giuridica e politica, il fondamento dell'Impero. Dopo aver rilevato che la maestà imperiale, quantunque non soggiaccia ad alcuna legge, se non a quella della ragione che è la madre del diritto, proprio in forza di questa, cioè della ragione, è dato a lui, quale erede del fulgore dei Cesari, di illustrare ai Romani i motivi profondi del tripudio per la vittoria conseguita. Una vittoria conseguita in nome di Roma se è vero che i soldati nel clamore della battaglia gridavano «Miles, Roma! Miles imperator!».

Una vittoria che, sulla scorta della tradizione, il Senato e il popolo romano decretavano ai vincitori, mentre questi a loro volta portavano in trionfo i trofei catturati ai nemici. Ed è in questo contesto che Federico colloca la cattura del Carroccio ai Milanesi considerati una fazione rispetto all'unità politica dell'Italia («currum civitatis utique factionis Italie principis») e la destinazione del trofeo a Roma, sede dell'Impero («romani imperii nostri sedem»), beneaugurale auspicio per la pace dell'Italia. [...]

è stato giustamente affermato che sarebbe grottesco condannare il governo federiciano, che durò solo un trentennio, per una condizione che si sarebbe protratta per oltre sette secoli, giungendo drammaticamente fino a noi. Da parte dei difensori di Federico si è voluto affermare che l'accentramento del potere e il rigoroso controllo dei centri urbani non sia un ostacolo al progresso economico, che non è certamente legato ad un regime di libertà e di autonomia. Se questa tesi non può essere negata in assoluto, non si può non rilevare come la storia economica dall'antichità ai nostri giorni ci insegni con dovizia di esempi che libertà economica e autonomia politica sono strumenti e condizioni indispensabili per il progresso e la prosperità dell'uomo..

   
  

Lezione inaugurale dell'anno accademico 2002-2003, Università di Bari, marzo 2003 (qui pubblicata con il consenso dell'Autore).

  

©2003-2004 Cosimo Damiano Fonseca

  


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