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Quasi
a dispetto della discreta quantità di letteratura storica a taglio
smaccatamente agiografico [1],
riguardante l’Hohenstaufen, che circola in questo senso postuma come se fosse
estratta da un misterioso testo olografico di esclusiva conoscenza e
disposizione degli specialisti determinati in storia politica, David Abulafia
conclude il suo realistico libro biografico sull’imperatore e re di Sicilia
con una frase disarmante: Federico «fu in realtà un uomo del suo tempo, e non
quel despota rinascimentale ante litteram
che la tradizione ci ha consegnato»[2].
Sia
pur necessario ed inevitabile, l’ottimo lavoro del britannico Abulafia pare si
presenti come una caratteristica risposta antitetica, di tipo interdittivo sul
piano dell’impostazione interpretativa, al monumentale tomo del cattolico
polacco Ernst Kantorowitcz [3],
Ecco
allora che misticismo e scetticismo si ripartiscono l’argomento, ancor’oggi
più o meno equamente, giustapponendosi. Le due correnti di pensiero
storiografico si confrontano e si affrontano sul terreno della ricerca,
nondimeno ponendo in evidenza un sensibile scarto differenziale a favore della
scepsi anglicana che, si sa, in campo scientifico (e la storia è ancora, anche
suo malgrado, una scienza: ragionata,
ma una scienza), ha ancora del fiato. La visione mitica e mistica (alla
polacca)
però è di sicuro più popolare, forse un po’ troppo populistica, e per
questo perfino comica, anche se
ottiene risultati per lo più ripetitivi, e in fondo derisori.
Tutto
qui? La presentazione binaria del «problema Federico» e del suo personaggio
non invoca, com’è d’obbligo in dialettica, una via terza a sintesi, una
risoluzione e, insomma, un’uscita dall’impasse?
Prima
di segnalare l’esistenza, in campo storiografico, di una classica «terza via»
già in movimento, che pure, come vedremo più avanti, non presenta le
caratteristiche editoriali così solenni dei Kantorowicz e degli Abulafia,
osserviamo brevemente i vantaggi e gli svantaggi delle due linee interpretative.
Non senza segnalare in anticipo che in realtà l’apparente conflitto fra i due
modi di configurare Federico II oscura e nasconde l’oggettiva «mancanza di
una tematica» [5]
appropriata su ciò che effettivamente l’ultimo
Imperatore ha rappresentato nella storia cosiddetta occidentale.
Il
Kantorowicz ha dalla sua la forza della personalizzazione
della storia (racconto) e dell’evento nella Storia; di avere cioè in qualche
modo delimitato, entro certi contorni particolareggiati, assai definiti e
peculiari per un «grande» personaggio, con la sua caratterialità, una serie
univoca di problemi storici perenni [6],
come a ricordare, a chi lo avesse dimenticato, che sono solo gli Uomini, assunti
più o meno grandi, a fare la loro storia (anche se non sanno poi come, visto
che falliscono per lo più...). Se non ci fosse stato questo storico polacco
naturalizzato tedesco a porre il tema in maniera pur così surrettizia e anche
inammissibile, soprattutto quando estrapola l’immagine dello «stupor mundi» [7],
o quando veicola l’idea che Federico identificasse se stesso nel Cristo
redentore rinato a Jesi, chissà per quanto tempo ancora si sarebbe largamente
confuso il primo Federico col secondo e viceversa, la barba fulva del nonno con
quella del nipote, e chissà chi [non]
avrebbe saputo portare avanti i primi e disconosciuti studi sul normanno-svevo,
tipici del più classico storicismo nostrano, quei saggi sul ruolo e la funzione
dell’Impero medievale, dello Stato laico, della lotta fra Stato e Chiesa, in
Italia e in Europa [8].
Peccato che questa impostazione monumentale e assoluta evacui definitivamente
il tempo e il movimento nella storia fissandolo, finendo col non saper porre più
l’evenement, costituito dall’uomo
Federico, nel processo e nello sviluppo generali, nel non saper riconoscere più
il significato di un momento storico
determinato rispetto alla sua genesi e alla sua fine, posto in un più ampio
percorso da esaminare. Viene così disconosciuto il fatto che l’Impero conosce
la sua crisi più profonda, e langue già nell’inizio della sua fine, proprio
quando, nella prima metà del XIII secolo, sembra essere arrivato alla soglia
dell’affermazione. Kantorowicz non s’accorge, diversamente da Falco [9],
che «di fronte all’Europa dei comuni e delle monarchie, che si veniva
progressivamente differenziando e articolando, l’impero universale, feudale ed
elettivo [nella versione germanica di Enrico VI], non più sorretto da una fede,
era un anacronismo», una struttura inadeguata anche quando, con Federico, aveva
spostato il suo baricentro dalla Germania al Mediterraneo.
D’altra parte, non è assolutamente sicuro che il lavoro di Abulafia, al contrario di quello di Kantorowitcz, sia completamente al riparo dal sospetto di essere anch’esso funzionale a qualcosa, o di essere al servizio, sia pur meno pubblico, del soggetto politico del rispettivo paese, nel momento in cui fu scritto. Se è vero che Federico II Imperatore può essere collocato nello sforzo di restituire dignità ideale e ruolo internazionale a una nazione messa eccessivamente in ginocchio dal Trattato di Versailles del 1819, altrettanto può dirsi del declinante imperio economico-finanziario del Commonwealth britannico dopo il secondo conflitto mondiale.
Il circostanziato lavoro del professore di
Cambridge ricostruisce pedissequamente, e meritoriamente fra l’altro, gran
parte della profondità e complessità della situazione continentale che si era
venuta a determinare nel periodo dell’Imperatore, che lui stesso, con quel
duplice appannaggio dinastico, aveva contribuito involontariamente a determinare
nei rapporti fra le due istituzioni ereditiere dell’antica romanità. La
ricomposizione dinamica del quadro generale del XIII secolo mediterraneo non fa
difetto in Federico II, un imperatore
medievale, anche se in Abulafia la necessaria risoluzione del quadro storico
generale assume il chiaro sapore di un costante riferimento non esplicito. Nel
legittimo affanno di ridimensionare la veste mitologica fin lì attribuita allo
Staufen, lo storico inglese esagera alquanto a mettere in luce gli aspetti
fallimentari di alcuni tratti basilari della politica di riscatto imperiale di
Federico, tradendo più d’una volta un vago e sottile senso di inglese
autocompiacimento, che si avverte nitido in più d’un capitolo. Giacché non
è detto che il fallimento di un’azione, anche involontaria, o anche di un
movimento necessario nella storia, sia pure accidentale ed evenemenziale,
pregiudichi il senso o il significato di quell’azione o di quel movimento.
Perché
quest’approccio? Cui prodest? Per il
momento, forse non è abbastanza noto quanto alla scuola inglese e ai suoi
appartati studiosi da college «faccia
difetto proprio il demone storico» [10],
specie quando si occupano di certi conflitti d’oltremare a sfondo morale. Né
si può dire che nello scontro concorrenziale con la Chiesa del XIII secolo non
si avverta distintamente il lato etico della quistione
imperiale di allora. Proprio su questo
aspetto distintivo della politica di Federico, cioè lo scontro passivo e sordo
fra Chiesa e Impero sul problema del potere, l’Abulafia tradisce i limiti
dell’angusta visione solo psicologica o personale, cioè soggettiva e non
storica, del problema, quando afferma che, fermo restando l’assunto che «le
capacità di governo di F. non vanno sminuite», l’imperatore in realtà fu «lungi
dall’essere un implacabile avversario della Santa Sede, quale di solito è
raffigurato, [anzi] egli fu sincero
nei suoi tentativi di compromesso, persino di conciliante arrendevolezza, e per
tutta l’esistenza fu un genuino assertore del movimento crociato»
[11].
Ahimé il tema sfugge, la situazione storica sfuma perdendosi
nell’ombra del non detto.
Ma
quel ch’è peggio, ai fini del disconoscimento del significato di quel mezzo
secolo di storia medievale, è che il monarchico costituzionale Abulafia con ciò
dà prova di ascrivere, in un assurdo paragone postumo ma sottinteso, alla
successiva esperienza britannica dei Tudor quelle capacità decisive di
risolvere in privato lo scontro politico fra Chiesa e Impero, fra potere
temporale e potere spirituale, facoltà che mancarono evidentemente, secondo
questa sua visione generale, al «fedele crociato» Federico II.
Viceversa,
se la preoccupazione circa Federico fosse invece quella di dare la caccia a una
tematica seria e accettabile, puramente storica – e che manca come è stato
denunciato[12]
–
cioè scevra finalmente da quelle moderne lotte politiche e statuali che
tengono in ostaggio il senso della
storia, allora non sarebbe proprio questo il caso di concepirla, e magari
descriverla, non già più come un racconto puntuale, un romanzo epico, una
biografia incidentale, quanto piuttosto come un sviluppo, un movimento conforme
a un fine della storia [13]? In esso pre-istoria (presupposto) e post-storia (scopo) avrebbero titolo e
diritto di comparizione, di voce, di ruolo, no? Nel lavoro di Kantorowicz e di
Abulafia manca proprio questo movimento, questa connessione. Se il testo appunto deve essere Federico II Hohenstaufen, qual è il con-testo
storico in cui operò, suo malgrado e buongrado, l’Imperatore e re di Sicilia?
Dov’è il senso? C’era uno scopo, una direzione in quella storia?
È
evidente però, per il contesto dei rapporti di potere venutisi a determinare
con la comparsa in scena del primo normanno-svevo, che all’inizio del Duecento
si presenta oggettivamente una situazione nuova, inedita e inaspettata, gravida
di significato, e se si vuole di possibilità, così come nel clima generale di
misticismo religioso Gioacchino da Fiore l’aveva presagita e preparata alla
coscienza generale del tempo. Oggi certamente si parlerebbe di quel momento come
di una vera e propria «possibilità della storia».
Dopo il deterioramento degli antichi e originari rapporti imperiali tipici del mondo romano, che si basava – non lo scordiamo – su una religione politeista naturale, su una lingua esatta e sullo sfruttamento schiavistico della rendita altrettanto naturale della terra, sostenuta però da tecniche di lavoro molto avanzate, il tema della sovranità assunse presto [14], con l’epopea carolingia, una veste giuridica concreta e determinata, e con Innocenzo III una sistematizzazione teologica ben strutturata.
Quel tema divenne
tuttavia anche un problema pregiudiziale. Dopo che la saga capetingia e
carolingia ebbe trasformato, nell’Impero d’Occidente, il potere militare in
spada di Cristo, nei lunghi secoli dell’alto Medioevo Chiesa e Impero, potere
spirituale e potere imperiale avrebbero dovuto regolare costantemente i loro
rapporti in maniera funzionale e reciproca, attraverso il mutuo riconoscimento,
evitando il più possibile contrasti e conflitti di competenza, soprattutto per
quanto riguarda l’investitura (infeudamento) dei vescovi – da intendersi,
anche allora, come un’importante carica amministrativo-militare in civitas.
Un certo vantaggio la Chiesa di Roma se l’era già preso, grazie alla
Donazione di Costantino
[15].
L’accordo politico si ripartiva in Occidente la sovranità,
coprendo gran parte dei territori e delle
civitates
originari del mondo romano: il mondo islamico era tenuto ormai sufficientemente
sotto controllo e ai margini delle prerogative sovrane, mentre quello bizantino
andava sensibilmente delimitandosi nel luogo d’appartenenza, non senza qualche
propaggine.
La
Sicilia (o le Sicilie, in senso più largo) era il punto di frizione più
importante, fors’anche per il cospicuo e differenziato popolamento, non del
tutto distinto dal punto di vista della sovranità. Ad incastro con la teologia
della crociata, la conquista normanna e lo stanziamento progressivo e sicuro nei
territori meridionali di quella nuova gens
mercenaria armata ancora di spada cristiana, avevano prodotto nel frattempo, cioè
a partire dall’XI secolo, un precedente politico notevole: la creazione di un
regno indipendente e sovrano che compie, a richiesta e sul posto, da un lato un
processo di latinizzazione (in funzione antibizantina) di quegli angoli sfuggiti
alla divisione costantiniana, e dall’altro una cristianizzazione anzitutto politica
delle presenze estranee al sacro mondo romano.
Per
rispetto dell’antica tradizione franco-germanica, la Chiesa pretendeva che i
normanni antenati di Federico ripetessero ciò che i carolingi avevano
inaugurato: la congiunzione fra spada e pastorale, e il recupero dei territori
sovrani alla cristianità. Su questa base, la teoria della crociata avrebbe
dovuto riconquistare al cristianesimo universale anche i territori originari di
Cristo, e ripristinare finalmente lo spazio primitivo dell’imperium
romano.
L’ironia
della storia tuttavia si vendica, creando nello stesso tempo, proprio in
Sicilia, un precedente importante, destinato a condizionare, sia pur in maniera
non evidente e inespressa per lungo tempo, il mondo cristiano e i rapporti fra
Stato (impero) e Chiesa. Il 12 marzo 1088, Urbano II fu nominato papa a
Terracina, ma non poteva prendere possesso del soglio romano per la presenza al
trono dell’antipapa Callisto III, protetto dall’imperatore svevo Enrico IV
Hohenstaufen. Otto giorni dopo, Urbano giunse in Sicilia a chiedere l’aiuto
militare dei normanni, i quali avevano dato prova di grande valore in quella che
la Chiesa e molti studiosi avrebbero considerato, a copertura e rimozione
successive, una sorta di pre-crociata in tutte le Sicilie. Le trattative di
Troina, prima capitale normanna in Trinacria, durarono otto mesi perché
apparentemente gli Altavilla non erano per niente interessati a
internazionalizzare la «latinizzazione» in corso. Com’era sua indole Urbano,
l’ideatore della crociata popolare, si sbilanciò presto a cedere di fronte a
Ruggero, prima promettendo e poi concedendo ad
personam una prerogativa squisitamente ecclesiastica: la Apostolica Legazia.
Assegnò
a Ruggero d’Altavilla, che divenne appunto il Primo, il titolo di Gran Conte
di Sicilia istituendone di diritto il Regno; riconobbe il possesso del
patrimonio frattanto confiscato alle chiese bizantine unitamente al diritto
generale di imposizione fiscale; conferì la facoltà di nominare direttamente i
vescovi nel regno in quanto titolare di speciale «mandato apostolico». I
conti-re normanni di Sicilia si sarebbero presentati d’ora in avanti, coram
populo, armati di spada e col pastorale in mano: apostoli di Cristo.
Grave
precedente storico. Un compromesso dannoso per i destini successivi della Chiesa
nel Mediterraneo. Essa ha tenuto sempre nascosta e nell’ombra questa pesante
concessione. La Legazia Apostolica si presentava come un istituto a dimensione
spirituale ed ecclesiastica, ma di grosse ripercussioni non solo sul governo
della conquista alla religione di Roma, ma anche nell’esercizio politico
tout-court del potere in Sicilia e in tutto il cosiddetto Mezzogiorno, a
dominazione normanna. In poco più di cent’anni, la Legazia Apostolica si
consolida fra i re normanni in una serie di comportamenti politici (tradizione)
assolutamente sovrani e indipendenti dal pontificato romano, e passa nelle mani
di Federico II mediante la duplice trasmissione dinastico-ereditaria del potere
regale (Regno di Sicilia) e imperiale (Sacro romano impero), che in lui si
fondono ad unum.
Quanto
questa investitura ha pesato nel comportamento di Federico? In che misura
la Legazia Apostolica è espressa nel
discorso storico e nell’azione del soggetto storico considerato? Quanto
quell’aspetto soggettivo del Sovrano imperiale è stato indagato e raccontato
dagli storici nelle monografie biografiche disponibili? E soprattutto
l’istituto politico-ecclesiastico in se stesso è stato assunto come lente di
ingrandimento per leggere ed esibire le caratteristiche peculiari,
dell’acquisizione normanna prima e del governo federiciano poi, della Sicilia
all’Europa medievale attraverso la sua latinizzazione e ricristianizzazione?
No,
almeno nei lavori di Abulafia e di Kantorowticz. Per natura diremmo che le loro
interpretazioni, le chiavi di lettura adoperate, hanno il difetto del punto di
vista «nordico», cioè distante e non autoctono, applicato su un processo
storico che in sostanza vede l’Impero mediterraneizzarsi più di quanto fosse
consentito, e venire finalmente e in forme nuove a contatto diretto con
l’Islam. Questo rapporto nella storia medievale conta più di quanto non conti
il rapporto «intestino» con il patriarcato di Costantinopoli o con la stessa
Chiesa romana, il primo da intendersi meglio come sede trasferita del vecchio
imperatore romano convertito al cristianesimo per ragioni di opportunità
organizzative. E questo difetto riguarda anche e soprattutto l’approccio al
personaggio Federico, proprio quando lo si voglia espungere, come fa la
storiografia nordica, dal contesto in cui è collocato.
Non
si insisterà mai abbastanza sul fatto che la Legazia Apostolica consiste in un
potere apostolico sovrano autonomo sulla Chiesa di Sicilia, essa intesa, come si
deve per allora, non come l’attuale distretto amministrativo del regno
italiano unito del XIX secolo, non l’isola geograficamente disegnata, ma tutto
il Mezzogiorno peninsulare a dominazione normanna [16]. Ancora nel ‘700
[17],
questo privilegio attribuiva al monarca siciliano, in quanto «legato apostolico»
sovrano, il potere di presentare i vescovi al Papa per la nomina, esercitare il
patrocinio sulle diocesi e sui beni materiali, rendite comprese, subordinare la
validità dei provvedimenti pontifici al suo regio
exequatur, applicare il diritto di spoglio della manomorta dei vescovi. Lo
stesso Tribunale della Regia Monarchia era costituito da una magistratura unica,
con competenze giudiziarie ed esecutive vertenti anche sugli ecclesiastici
sottoposti direttamente alla Santa Sede, fino al potere di annullamento dei
provvedimenti canonici stessi.
Certo,
all’epoca in cui Federico II ereditò questo privilegio, di cui era già in
possesso il nonno Ruggero, la giurisdizione apostolica non era così sviluppata
dal punto di vista tecnico, ma gli era sufficiente per ripetere ogni volta
l’antico cerimoniale di presentazione ai sudditi col pastorale in mano. Di qui
allora, si può dar conto altrimenti della celebrata audacia di Federico a
catturare nel mare del Giglio i vescovi per impedire il concilio di Gregorio IX?
Oppure, diversamente, è spiegabile in altro modo l’«arrendevolezza» a cui
si riferisce Abulafia nel trattare diplomaticamente, cioè da pari a pari, con
l’apostolo romano di Cristo? O ancora, come valutare il disincanto, la
curiosità e la sicurezza con cui trattava i rapporti con i rappresentanti
politici di altre religioni coinvolte col regno e con l’Impero? Si può
tranquillamente ponderare, a dispetto dell’odierna autoesaltazione
nazionalista britannica, che per ottenere gli stessi poteri personali per il re
d’Inghilterra Enrico VIII, anch’egli d’ascendenze normanne, si dovette
produrre apposta uno scisma religioso nel XVI secolo col pretesto di garantire
immediatamente la possibilità di una generazione maschile al trono. Ma perché
si potesse arrivare a tanto, occorreva che già nel ‘500 la formazione degli
Stati nazionali (con relativa lingua nazionale unitaria) fosse già da un pezzo
in buon stato d’avanzamento; e con questo ponesse un classico criterio
storiografico, comunemente accettato del resto, per il necessario distacco
dall’epoca Medioevo.
Già
appunto: lo Stato nazionale!
Si
potrebbe assumere di nuovo la figura di Federico come Spirito del Mondo
medievale? Kantorowitcz ne esalterebbe intimisticamente subito la veridicità
magica; Abulafia scuoterebbe il capo scetticamente lasciando che per induzione
la supremazia britannica riscuota le migliori considerazioni mediterranee.
Federico
come Napoleone, allora? Due evi storici, «l’un contro l’altro armati», in
mezzo ai quali, arbitro loquace e di buonsenso, si assise Lui per loro? Sì e
no. No perché il Bonaparte a differenza di Federico fu vittorioso, terminò
l’Impero, e almeno politicamente (di
diritto) pose le basi per la fine effettiva e acquisita del vecchio mondo
aristocratico, su cui il Medioevo si fonda. Sì perché l’anticipazione dello
Stato nazionale, contenuta già nell’eredità del regno (multietnico) normanno
di Sicilia, e sia pur nella forma differente di un esteso neoimperialismo
latino, interno e onnicomprensivo, non avvenne. Insomma un Federico perdente. Ma
che un uomo, sia pure «importante» perda
o sia sconfitto clamorosamente dalla storia non pregiudica affatto l’obiettivo
storico non realizzato. La storia, che è movimento, si svolge impersonalmente
attraverso l’uso delle persone – che muoiono e passano. Resta sempre
l’obiettivo. Che attende altri uomini. Ma con Federico stava per nascere
davvero qualcosa. Qualcosa di diverso da quello che poi è effettivamente venuto
fuori nel racconto successivo, ma in forme diverse e per certi versi abnormi. Un
assurdo: sia l’uno che l’altro. Lo Stato concorrente e vittorioso sulla
Chiesa, che riassume a sé la separatezza di un dualismo inconciliabile,
intrinseco alla Logica medievalizzata (anima e corpo). Certo, Federico non
sapeva cosa stava facendo, almeno coscientemente. Ma lo faceva. Possibile e
impossibile si danno insieme in quel momento storico, come in pochi altri
La
cosiddetta «scuola siciliana», che oggi si presenta come una corrente
letteraria qualsiasi, in realtà altro non era che la lenta formazione di uno
dei presupposti classici perché uno Stato «nazionale», cioè universale e
totalizzante, si formi: la lingua. Le costituzioni melfitane, o il Liber
augustalis, che possono essere viste, come lo sono effettivamente oggi, la
stesura formale e formalizzata della prerogativa «privata» di un re vincitore,
o anche il trionfo della filosofia (politica) personale del suo estensore
notarile, sono (possono essere) un’anticipazione di ciò che nel pensiero solo
filosofico ha rappresentato la volontà del giusnaturalismo costituzionale
moderno. Il senso del discorso storico allora si fa duro: ciò che è può
essere altro; altro non è che ciò che può essere! La creazione (o
l’invenzione) dell’universitas può essere
intesa, in sede di analisi di quella storia determinata riguardante Federico e
la sua epoca, come la celebrazione e il compimento del sapere e non-saputo
personale del sovrano, ma altrimenti può essere anche presagita come
pre-assunzione di uno Stato moderno (successivo e attuale): sorda produzione di
una classe media e dirigenziale che fonda, giustifica ed esegue il potere
costituito, non si sa come. L’accusa storica dell’eretismo di Federico? la
sua collusione con l’anticristianesimo musulmano? Ancora sì e no, ma balle
possibili: già sottomessi dagli antenati normanni, i saraceni pagavano
tranquillamente le tasse a quei mercenari conquistatori e vincenti, in cambio di
una relativa libertà religiosa che è quella che conta, e mentre entravano a
far parte della classe contabile e amministrativa (entourage) del Regno prima e dell’Impero poi. Insomma, un’altra
possibilità di esistenza dello Stato etico moderno.
Capitolo
a parte poi l’attività di costruzione dei castelli. Retaggio ed esigenza
predeterminati di parte normanna ma anche di parte sveva, in fondo tipicamente
medievale ma che ha importanza perché solo di castelli e non di chiese nel suo
caso si tratta, in Federico tale attività assume un aspetto considerevole, che
si è voluto da più parti far discendere da una personale preoccupazione
religiosa, mistica, esoterica, astratta insomma, e in definitiva priva
assolutamente di contesto e di senso, riferita in chiave misterica solo a se
stessa. Come è stato largamente provato [19],
e al di fuori di ogni idea di progetto precostituito per l’avvenire, questa
estesa e intensa edificazione veniva a fondare di fatto la produzione di uno
spazio politico [20],
economico e amministrativo preciso, tipico di un potere costituito determinato,
nonché dava visibilità distintiva a quel potere: un marchio di fabbrica.
Questi
ed altri argomenti, visti come questioni in movimento, raccomandabili solo a vantaggio di un altro
modo di pensarli, costituiscono la
tematica su Federico. Il suo spettro si aggira in mezzo a noi alla ricerca di un
riscatto, di un riconoscimento, di una più giusta messa in scena degli atti che
furono. Atti che oggi sono i nostri concetti congeniti, la nostra in-nata
psicologia storico-politica del profondo. Impossibile? Forse. Ma l’Impero è
morto, sbriciolato com’è in una miriade di cocci chiamati Stati moderni; la
Chiesa invece, cattolica, apostolica, romana, gli è sopravvissuta nella stessa
volontà di totalizzare tutto sotto lo stesso principio omogeneo.
Una terza via di lettura storiografica dell’argomento Federico? Un altro modo di vedere la stessa cosa dal punto di vista attuale? La storia non è scritta sempre in funzione del presente, e da persone che non erano laddove è successo qualcosa? Ciò vale tanto più per gli autori Abulafia e Kantorowicz. Eppure questa via altra esiste già. E si trova, in loco, nelle falde più velate dello storicismo italiano, anche quando lo si voglia assumere nella veste più classica eppur desueta. Una parte consistente del mondo universitario italiano sta riflettendo molto su siffatto argomento remoto. Il Centro di Studi normanno-svevi (e il trait d’union è eloquente per Federico) raccoglie come in un foyer tutte le più diverse e differenziate tematiche alternative a quanto si è prodotto fin qui sullo spettro normanno-svevo. Manca, è vero (mentre è in cantiere la voluminosa Enciclopedia federiciana della Treccani), una monografia che raccolga il lavoro collettivo e si contrapponga per giustizia e correttezza storiche all’impostazione invasiva di stampo anglosassone. Noi l’attendiamo, non senza aver ricordato, semmai ce ne fosse ancora bisogno per il moderno criterio del diritto oggettivo acquisito, che Federico II imperatore e re di Sicilia era italiano, ed elettivamente un uomo del Sud.
1 Non ci riferiamo solo, ad esempio, al Federico II di Svevia di Eberhard Horst, Dusseldorf 1977, che è di nuovo un’elegia biografica alla tedesca, ma soprattutto ai più svariati e disseminati saggi e siti web che incensano, e in fondo mistificano, il «grande» Imperatore».
2 David Abulafia, Frederick II. A medieval emperor, Londra 1988, - col titolo letterale, Einaudi, Torino 1990 e 1993, p. 365.
3 Ernst Kantorowitcz, Kaiser Fredrich der Zweite, Berlino 1927 prima edizione senza note; poi 1931, edizione in veste di Supplemento di sole note e digressioni. Edizione italiana E. K. Federico Secondo Imperatore, Garzanti, Milano 1976.
4 La politica statalista, cioè strumentalista, del Cancelliere verso i movimenti politici popolari dell’epoca, in particolare verso i cattolici tedeschi, e di conseguenza anche verso i socialisti tedeschi, andrebbe esaminata proprio in funzione del tipo di impostazione storiografica legittimante che K. presenta e ordina attraverso il suo Federico.
5 Questa espressa denuncia è stata formulata da Raffaele Licinio a conclusione del suo intervento alla seconda seduta di un convegno su Federico II, che ha avuto luogo nel 2002 presso l’Università di Bari, relatori Max Siller, Hannes Hobermair e altri (cfr. www.mondimedievali.net/Album/indice.htm).
6 L’origine del potere dal re bambino è uno di questi. La leggenda e le gesta di re Artù hanno a lungo alimentato, e alimentano tuttora, le chiavi storiografiche alla Kantorowicz, ma anche alla Burckhardt.
7 A proposito di questo pseudoconcetto, cfr. l’interessante dibattito svoltosi sul «Corriere della Sera-Corriere del Mezzogiorno» e nel forum di www.storiamedievale.net, nel quale Max Siller ha collocato seriamente, soprattutto dal punto di vista della storia della letteratura latina medievale, il valore originario della significazione «stupor mundi».
8 Niccolò Machiavelli fu il primo commentatore a caldo della politica di Federico. Nel paragrafo XXI delle sue Historie fiorentine, l’officiale della Val di Pesa vi evidenzia una meritoria efficacia nella lotta imperiale contro il Papa (non la Chiesa) che gli aveva scatenato contro la scomunica, quando cioè Federico «soldò assai Saraceni», i quali non temevano le «papali maledizioni». Il carattere mercenario degli eserciti di Federico è sottoposto qui all’analisi critica del Machiavelli, il quale com’è noto reputava più stabile quello Stato che preferisse la coscrizione cittadina. Vi sono poi, sulla scorta degli scrittori settecenteschi, gli studi di Gabriele Pepe sulla politica economico-fiscale di F., Lo stato ghibellino di Federico II, Laterza, Bari 1938; o quelli di Michelangelo Schipa, che promuove l’illuminismo di F., Italia e Sicilia sotto Federico II, Batoli, 1929.
9 G. Falco, La Santa Romana Repubblica. Profilo storico del Medioevo, Ricciardi, Milano-Napoli 1958.
10 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale – Prima dissertazione, 2, (secondo periodo). Adelphi, 1968, edizione critica di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, «Opere di Friedrich Nietzsche», volume VI, tomo II, pag. 224. Si consiglia di indagare attentamente la visione che Nietzsche ha di questi «microscopisti dell’anima», come lui chiama i filosofi inglesi della morale. A distanza di oltre un secolo, costoro potrebbero essere assimilati tranquillamente ai moderni biografi dei personaggi storici.
11 Abulafia, Frederick II cit., p. 364.
12 Cfr. la nota 4.
13 A questo fine (volendo scusare le ripetizioni), è d’obbligo confrontare come Henri Lefebvre, La fine della storia, Sugar Editore, Milano 1972, abbia indicato che la storia, per il logos europeo, non possa essere de-finita se non con un «fine», che può coincidere appunto con la sua fine: «Se è vero che i suoi fondatori l’avevano definita per mezzo di un fine, è venuto il momento di farne scaturire il senso non tanto dalla storia quanto dalla sua fine!» (p. 20, Avvertenza).
14 Già gran parte della patristica e della scolastica medievale aveva a lungo riflettuto e fornito contorni precisi al tema, fino a che con Dante (De Monarchia) si rese possibile e concreta la teoria del primato dell’Impero sulla Chiesa, per l’ordinamento della società cristiana occidentale.
15 Atto diplomatico con il quale nel 314 l’imperatore avrebbe ceduto a «papa» Silvestro, vescovo dell’Urbs, la giurisdizione civile su Roma, l’Italia e l’Occidente imperiale, fornendo alla chiesa cristiana il titolo per il diritto di appropriazione dei beni terreni e materiali disponibili. Da notare che il pensatore politico Dante Alighieri condanna in quanto colpa tale decisione, la quale opera la confusione fra un potere e l’altro, con la deleteria congiunzione fra spada e pastorale: la chiesa si allontana dal sacro concetto dell’ideologia pauperista, che Francesco intende ristabilire per la salvezza; l’impero si rovina impoverendosi semplicemente («la cagion che ‘l mondo ha fatto reo», Purg. XVI).
16 La conquista normanna della «Sicilia» - come ha detto Giosuè Musca in un’intervista rilasciata all’edizione barese de La Repubblica il 7 ottobre 2004 in occasione delle XVI Giornate nomanno-sveve dedicate appunto alla «conquista» – «è di fatto la prima unificazione politica del Mezzogiorno. E resterà tale fino all’arrivo dei Mille di Garibaldi, passando dalla dominazione normanna a quella sveva, angioina, aragonese e borbonica, fino all’epilogo dell’Unità d’Italia». Di tale epilogo e del modo in cui si è manifestato, si dà conto nella nota successiva.
17 L’istituto giuridico della Legazia Apostolica è stato abrogato recentemente con atto di rinuncia di Vittorio Emanuele II di Savoia dalla «Legge [“nazionale”] 13 maggio 1871, n. 214, per le guarentigie delle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede e per le relazioni della Chiesa con lo Stato». Tutto il Titolo Secondo, nell’abolire espressamente la L. A. ne definisce la sostanza; ne riportiamo per l’utilità della retrospettiva storica, se da effettuare, solo l’art. 15: «È fatta rinuncia dal Governo al diritto di legazia apostolica in Sicilia, ed in tutto il Regno al diritto di nomina o proposta della collazione dei benefizi maggiori. I vescovi non saranno richiesti di prestare giuramento al Re. I benefizi maggiori e minori non possono essere conferiti se non a cittadini del Regno, eccettochè nella città di Roma e nelle sedi suburbicarie. Nella collazione dei benefizi di patronato regio nulla è innovato»; e l’art. 16: «Sono aboliti l’exequatur e placet regio ad ogni altra forma di assenso governativo per la pubblicazione ed esecuzione degli atti delle Autorità ecclesiastiche. Però, fino a quando non sia provveduto nella legge speciale di cui all’art. 18, rimangono soggetti all’exequatur e placet regio gli atti di esse Autorità che riguardano la destinazione dei beni ecclesiastici e la provvista dei benefizi maggiori e minori, eccetto quelli nella città di Roma e nelle sede suburbicarie. Restano ferme le disposizioni delle leggi rispetto alla creazione e ai modi di esistenza degli istituti ecclesiastici ed alienazione dei loro beni».
18 Se si volesse disquisire oltre, tanto per introdurre il criterio della differenza fra gli uomini che hanno dato, anche involontariamente, colpi d’accelerazione alla storia (Napoleone, Enrico VIII) e coloro che hanno «perso» (Federico II), non dovremmo mai perdere di vista la presenza-assenza del sentimento religioso nell’uomo di potere: la ragion di Stato non ne ha mai bisogno. Questo può spiegare che è uno svantaggio politico porre un ordine supremo all’esercizio del governo (a questa conclusione è giunto - ma sempre dopo la fine di una storia - solo Machiavelli).
19 Si vedano in particolare le conclusioni dei lavori di R. Licinio sul tema: Masserie medievali, Mario Adda Editore, Bari 1998; Castel del Monte e il sistema castellare nella Puglia di Federico II (a cura di), Edizioni dal Sud, Bari 2001; più altri lavori ed interventi che sostengono la teoria della «produzione dello spazio» politico.
20 Quanto questo concetto apparentemente astruso per lo storicismo della politica (la produzione dello spazio) sia un importante strumento pratico ed efficace per l’esercizio del potere nelle sue forme generali e particolari, è stato dimostrato da un interessante lavoro di H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Mozzi, Milano 1976.
©2004 Fernando Giaffreda