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di GIUSEPPE FEBBRARO

  

    

Introduzione

Il passaggio normanno in Puglia ha costituito, come noto, un’importante svolta nella storia economica, sociale e politica di questa terra: la nuova fase espansiva inaugurata dal Guiscardo, e poi continuata dai suoi successori a partire dalla battaglia di Civitate sul Fortore (1053), in un arco di tempo molto breve che portò il condottiero prima a farsi riconoscere conte di Puglia, quindi (1060) a ricevere da Niccolò II l’investitura papale di Duca di Puglia e di Calabria, segnò un passo decisivo rispetto all’insediamento cominciato circa quarant’anni addietro con le prime scorribande della cavalleria nordica, la fase «mercenaria» (1023-1040) delle diverse bande e l’occupazione graduale delle terre campane e lucane, sino all’invasione della Capitanata.

Popolo disomogeneo, costituito da gruppi di cavalieri «in cerca di signore», beneficiari, loro malgrado, della legge che escludeva i cadetti delle famiglie francesi (non solo «normandesi») dall’ereditarietà del feudo, e costretti dunque alla diaspora fuori dai loro confini, i Normanni che circolavano nella penisola sin dall’inizio del sec. XI erano probabilmente ben lontani dall’idea che di lì a non molti decenni sarebbero stati protagonisti della nascita della prima monarchia unitaria nella storia d’Europa e che il loro insediamento nelle regioni meridionali d’Italia avrebbe lasciato una traccia la cui importanza è tuttora tema di accesa disputa storiografica e culturale; nei loro spostamenti, essi si configuravano unicamente come un insieme disunito di gruppi di mercenari che, tuttavia, disponevano di un importante patrimonio militare, ossia l’armatura pesante, pressoché sconosciuta alle fanterie delle regioni meridionali d’Italia e per questo utilissima nelle continue lotte di cui esse erano protagoniste. L’assoldo di questi drappelli scattava quasi automatico da parte, indifferentemente, di dominatori o ribelli; l’inizio, poi, della stagione delle politiche matrimoniali e delle alleanze nei ducati longobardi favorirono in modo irreversibile l’insediamento normanno nel territorio.

Dunque, i Normanni della prima ora non erano animati da uno spirito nazionale o etnico di qualsivoglia dimensione, bensì da una semplice volontà, e si direbbe necessità, di conquista di terre, che, per quanto riguarda particolarmente la Puglia, si mise in pratica né più né meno che con un’impressionante quantità di scorrerie, il cui successo era garantito sempre da quella potenza militare concentrata soprattutto nella cavalleria, che come detto ne aveva già fatti degli appetibili soldati mercenari. Il loro stanziamento nel territorio soprattutto costiero e precostiero (la scelta non era casuale) avveniva sistematicamente in maniera molto semplice: al signore locale si sostituiva, ad ogni scorribanda coronata da successo, il capo della determinata spedizione, che diventava così il nuovo feudatario.

Tuttavia, con il passare del tempo e con la costituzione progressiva delle diverse signorie locali, in particolare a partire dalla concessione della Contea di Aversa a Rainolfo Drengot nel 1030, cominciarono a delinearsi anche le prime strategie comuni di dominio da parte dei nuovi signori. Da questo periodo in poi, si assiste ad una sottomissione del territorio sempre più attenta a costanti quali le etnie, le identità cittadine (di identità regionali non si può parlare nella Puglia dell’XI secolo), la società e la religione locali.

L’insediamento assume le forme di una conquista che va più o meno coscientemente nella direzione di quello che sarà poi un regno; la battaglia di Civitate e la pace stipulata dopo sono, insomma, aldilà della retorica possibile, qualcosa di più di un simbolico episodio.

Tra le costanti di cui si diceva, una in particolare colpisce l’interesse degli storici tanto da essere da ormai parecchio tempo oggetto di studi approfonditi: quella, cioè, del rapporto fra i nuovi dominatori e le “città soggette”. Un rapporto stretto, preciso, cercato: i Normanni ebbero sempre presente l’importanza della città, dello spazio e dell’identità urbana, del forte simbolismo sotteso alla loro presenza in una zona piuttosto che in un’altra.

Detto questo, tuttavia, va subito aggiunto come, riguardo a questa tematica, non sia possibile fare sempre un discorso di carattere generale: sia per i motivi, accennati prima, di una sostanziale disomogeneità tra le avanguardie dei primi invasori e di differenti, quindi, forme di insediamento a seconda delle circostanze, sia per l’altrettanto marcata differenza delle condizioni preesistenti tra i vari centri del Mezzogiorno che furono terreno di conquista, il risultato è una casistica non poco differenziata al suo interno. Certo, però, dovunque calarono, i vari Riccardo Quarrel, il Guiscardo, il gran Conte Ruggero e gli altri condottieri accordatisi a Melfi per la spartizione del sud della penisola dovettero fare i conti con problemi comuni quali l’identità delle popolazioni o meglio delle cittadinanze, le loro organizzazioni difensive, le loro prerogative sociali, economiche e, spesso, religiose.

   

La Puglia e la penetrazione normanna

Terra di frontiera, ricca porta dell’est, zona di confine; oggi più che mai, la Puglia è al centro di un’attenzione geostorica spesso retorica e traballante, ma che coglie tuttavia l’importanza da sempre attribuita a questa regione dalle schiere di dominatori succedutisi nei secoli. I Normanni, che tanta parte hanno avuto in questa storia, non furono esenti da tale valutazione e a giusta ragione, se consideriamo che tra il X e l’XI secolo le città soprattutto costiere della Puglia rappresentavano una delle realtà economico-sociali più notevoli dell’intero Mezzogiorno continentale, pur non costituendo un sistema unitario.

Verso la metà del XII secolo, il geografo arabo Edrisi parlava ancora in termini encomiastici di questo territorio affacciato «sul golfo di Venezia», ponendo l’accento in modo particolare sulla distribuzione dei centri abitati della Murgia bassa e della preMurgia costiera; distribuzione, come sappiamo, non casuale ma rispondente ad un preciso sistema, costituendo le città affacciate sull’Adriatico della fascia Monopoli-Barletta lo sbocco costiero naturale della fascia Conversano-Andria posta sull’entroterra e a sua volta rappresentante la zona di convogliamento delle risorse agricole provenienti dalla fitta rete interna di casali, monasteri, borghi rurali. Regione fondamentalmente agricola e non commerciale, infatti, era la Puglia, sia per quanto concerne la zona adriatica che le altre, all’arrivo dei cavalieri normanni, tanto da avere sviluppato per larga parte un ceto di piccoli e medi proprietari terrieri, ubicati nelle città principali, consci e gelosi dei propri privilegi e, naturalmente, poco flessibili alle imposizioni dei poteri centralisti.

Da questo punto di vista, la città diviene spesso teatro di un vero e proprio scontro che si consuma, oltre che in rivolte e sanguinosi assedi, anche in interventi e scontri meno materiali, ma invece ideologici, culturali.

Assistiamo nella Puglia già del X secolo alla crescente importanza dello spazio urbano, alla presa di coscienza da parte di chi lo abita del suo possibile uso strumentale, del grande potenziale simbolico che vi si può impiantare. è una consapevolezza che investe, però, anche i dominatori, e quest’arma sarà anche di essi, servirà ad imporre la loro presenza e il loro potere (quando lo avranno) sulle stesse comunità cittadine che vi si oppongono.

L’elemento religioso e devozionale diventa, all’interno di questo processo, uno dei momenti decisivi. Esso serve innanzitutto alle popolazioni soggette, e non di rado in rivolta, come punto di riferimento dello stato di malessere e di giustificazione anche dell’azione violenta; le radici della sua importanza, tuttavia, sono più profonde. Esse affondano nei secoli più alti del medioevo, nell’epoca oscura delle invasioni barbariche, delle frequenti distruzioni e in generale di una vita urbana difficile già da molto tempo dopo gli antichi fulgori. I tempi, ad esempio, della diffusione della fama tutoria e spesso taumaturgica della figura del vescovo cittadino, inteso come unico protettore spirituale ma anche (per certi versi, soprattutto) materiale e concreta delle comunità; i tempi, non a caso, dell’ormai dibattutissima identificazione vescovo/mura, vescovo/fortificazione. I tempi, in definitiva, di una nuova sensibilità urbana, che si fa cogliere particolarmente rispetto all’idea di santità ed alle presunte epifanie del sacro, un fenomeno che si diffonde in tutta Europa e fa sentire i suoi influssi nei secoli successivi in zone diverse e rispetto a fenomeni storici differenti, trovando il suo campo di applicazione nell’edilizia sacra e il suo luogo di elezione privilegiato nelle cattedrali che vanno diventando il simbolo stesso - con i loro reliquari carichi di titula e spiegazioni storiche - della coscienza cittadina. Si precisa, cioè, un rapporto che lega indissolubilmente le reliquie al luogo nel quale vengono rinvenute (inventa) o meglio ancora traslata: la santità della reliquia trasmette sacralità alla chiesa o al santuario che la ospita, e questi a loro volta garantiscono altrettanto alla città nella quale sorgono, le cui classi dominanti quindi possono sentirsi allo stesso tempo beneficiarie e custodi di un rapporto sacrale e, di diritto, inattaccabile. Una rivendicazione di «intoccabilità» da esibire ad ogni occasione.

Non è un caso se il secolo XI, secolo dell’affermazione definitiva di questa tendenza come fatto storicamente e geograficamente diffuso, veda svolgersi appunto un’intensissima attività reliquiare, favorita in modo impressionante, nei decenni successivi, dall’esperienza crociata; non è un caso perché‚ è anche l’epoca di ciò che la storiografia passata ci ha, forse esageratamente, tramandato come «rivoluzione urbana», ma nella quale innegabilmente assistiamo alla nascita dell’istituzione comunale e, nel Mezzogiorno (ben prima dell’occupazione normanna), dell’ affermazione di ceti cittadini di origine rurale ma ben impiantati nello spazio urbano.

Affermazione, questa, accompagnata da una grande vivacità politica, evidentemente visibile - ad esempio - nelle torri che iniziavano ad adornare, sì, città come Firenze, ma anche città dalle vicende molto diverse come Bari; torri di difesa, dalla forte valenza simbolica; di difesa, ma anche «autonomistiche», ed infatti, in molti casi, sistematicamente assaltate e distrutte.

Ma quella vivacità è visibile anche negli edifici sacri, nelle cattedrali e nelle loro fabbriche, nelle chiese sedi delle translationes, anche queste simboli che saranno combattuti o di cui si approprieranno saltuariamente i Normanni di Puglia.

   

L’Adriatico e oltre

Un punto da chiarire con vigore è che quando parliamo di vicende pugliesi dei secoli XI-XII non vogliamo limitare il discorso alla sola costa adriatica e al suo entroterra murgiano; fatti di natura politica, economica, strategica hanno giustamente catalizzato l’attenzione della maggior parte degli studi su questa fascia della regione, tuttavia non si può non tener conto anche di zone come la Capitanata o il Salento per avere un quadro completo di quella che è stata la storia della Puglia nei quasi due secoli di presenza normanna. In questo senso, l’indagine attinente il nostro discorso porrà la sua attenzione su tre centri urbani di grande importanza, ma assai diversi tra loro, quali Bari, Trani e Taranto, in modo da poterne cogliere le differenze ma anche metterne meglio in luce le costanti.

Le prime due sono città adriatiche, tra le più illustri di Puglia stando alle fonti dell’epoca, esempi evidenti però della mancanza di una comunanza di interessi a livello regionale, o comunque della debolezza di questi rispetto a quelli dei municipi e delle classi sociali di cui essi erano espressione. Taranto, invece, si configura come centro privo di una altrettanto forte identità cittadina, però Diocesi ecclesiastica di grossa importanza, vista la sua adesione secolare al credo latino di fronte ad una prevalenza circostante di quello greco, e dunque facile all’uso strumentale nella lotta antibizantina dei nuovi dominatori: vedremo come anche in questo processo il rapporto fra sviluppo dell’edilizia ecclesiastica e identità urbana si renda decisivo.

Bari

Le vicende storiche dell’attuale capoluogo sono state ben studiate negli ultimi anni. Ne è emerso, per quanto riguarda il periodo normanno, un quadro che è andato in parte a confermare e in parte a mettere in discussione alcune accreditate tesi. Che, ad esempio, quella del Regno sia da considerarsi tout court una parentesi «felice» nell’economia e nella società baresi (e comunque pugliesi), date le descrizioni a tratti entusiastiche rinvenibili nelle fonti dell’epoca pare ipotesi ormai ampiamente sconfessata da analisi più approfondite. Vero è che, all’arrivo dei primi cavalieri nordici, in tutta la zona agiva con abbastanza stabile fortuna un ceto di piccoli e medi proprietari terrieri, sorta di «coltivatori diretti», che sino al secolo XI ebbero a vedersela con le pretese fiscali di Bisanzio, che aveva eletto Bari capitale del Tema di Longobardia e il cui controllo era dunque assai stretto; gli stessi amministratori greci, tuttavia, avevano concesso a costoro lo status di proprietari indipendenti, nell’ottica probabilmente di un tentativo di pacificazione interna che bene si coniugava con quello di integrazione tra le varie parti sociali, politiche, etniche della popolazione testimoniato dall’inserimento nell’apparato burocratico di diversi esponenti di questa oligarchia locale. Tentativi, peraltro, andati genericamente a vuoto, se consideriamo le rivolte antigovernative succedutesi con frequenza.

L’arrivo, però, dei Normanni, invertì la tendenza. A parte le distruzioni causate dalle razzie dei primi condottieri penetrati nei dintorni della città, l’elemento di rottura fu soprattutto l’introduzione, rozza quanto si voglia, di un elemento feudale pressoché nuovo ed applicato immediatamente, mano a mano che le conquiste di terre si succedevano, ai proprietari terrieri che andavano, così, trasformandosi progressivamente in dipendenti del nuovo signore. Allo stesso tempo, i grandi patrimoni, come quelli ecclesiastici, andavano ad espandersi esponenzialmente rispetto al passato, grazie anche alla politica di alleanze scelta dai dominatori. La nuova organizzazione produttiva nata da questa piccola rivoluzione portò degli indubbi vantaggi: l’introduzione della coltivazione specializzata, un controllo amministrativo ampio e, soprattutto, ben distribuito su tutto il territorio, con conseguente beneficio degli scambi campagne-città e di quelli tra ceti produttivi e mercantili.

Appare, quindi, chiara la portata della discesa normanna. In particolar modo, fu la nuova organizzazione, feudale e poi burocratico-verticistica, duramente introdotta sul territorio, l’elemento che avrebbe maggiormente pesato in città dai passati ampi margini di autonomia come Bari. La conquista, del resto, non fu in alcun modo agevole: i drappelli stessi di cavalieri, serviti nelle rivolte antibizantine degli anni precedenti, dovettero sostenere una lotta molto lunga per avere la meglio sulle munitissime difese cittadine, e solo nel 1071 le truppe guidate da Roberto il Guiscardo riuscirono ad espugnare Bari; la qual cosa permise poi un maggiore impegno in aiuto a suo fratello, il Gran Conte Ruggero, per la lotta antiaraba in Sicilia.

La reazione dei ceti urbani all’introduzione progressiva del nuovo ordine economico-sociale voluto dai futuri sovrani fu avvertita subito e proseguì a lungo, se è vero che le prime rivolte segnalate in città sono immediatamente successive alla sua presa da parte del Guiscardo e la famosa distruzione delle mura da parte di Guglielmo il Malo, contro la città in rivolta, si attesta ancora al 1156, cioè quasi un secolo dopo. Di fatto, poi, la vita cittadina di Bari, che abbiamo già segnalato come una delle più vivaci del periodo, all’arrivo dei Normanni si era ulteriormente arricchita di una dinamicità che traeva origine da un’ancora più articolata composizione etnico-sociale: nei documenti della prima metà del secolo, oltre ai già conosciuti proprietari di terre, inurbati e proprietari anche di case, troviamo ferrarii, calciolarii, furnarii, mediatori di contratti. Anche questi, peraltro, «proprietari di case».

Ciò che rendeva, insomma, insopportabile il dominio normanno a Bari era la spinta centripeta che esso generava in un tessuto economico-sociale, invece, spontaneamente centrifugo: male era vissuta l’imposizione di un ordine feudale ben organizzato da quelle classi che guardavano al limite con favore agli scambi, ai traffici, agli sbocchi commerciali del prodotto terriero, e poco volentieri all’introduzione del feudalesimo agricolo. In poche parole, alla rivendicazione dell’autonomia di sviluppo di una città che quell’ordine rendeva, invece, solo un tassello del mosaico imposto con la forza.

E proprio da marinai e armatori (ma anche da preti e laici comuni) fu composta quella spedizione di sessantaquattro uomini che dalla città di Mira, in Licia, trafugò nel 1087 le spoglie presunte di San Nicola, uno dei santi più venerati della cristianità occidentale e soprattutto orientale, per portarle proprio a Bari.

Sull’importanza dell’operazione, autorevoli commenti si sono succeduti sino a oggi. Non ci soffermeremo, in questa sede, a ripercorrerne le vicende, se non altro perché‚ sin troppo già note; tuttavia, alcuni punti fondamentali di essa vanno ancora una volta sottolineati, in quanto attengono al nostro ragionamento.

Per quanto il culto nicolaiano sia stato osservato, successivamente al trafugamento delle spoglie, anche dai cavalieri feudatari, e poi dai sovrani, la sua origine - parliamo ovviamente di origine «barese» - è da leggere in chiave antinormanna. Ma, ancora di più, diremmo in chiave «autonomistica»: con la traslazione delle ossa del vescovo di Mira, si garantiva alla città il patrocinio del santo protettore della gente di mare, dei marinai come degli «imprenditori»; si garantiva cioè la forza, soprattutto, di un potentissimo simbolo. Non a caso conteso con città quali Venezia e Genova.

Dire, insomma, che la vicenda abbia tra le sue cause originarie una precisa volontà anticentralista e autonomistica non sembra esagerato: non era forse anche un mezzo, munito di incontestabile solennità, per decretare l’ingiustizia del potere che soffocava quelle forze evidentemente predilette dal santo?

Per avere un’idea più chiara di tutta l’operazione politico-sociale sottesa ai fatti del 1087, basterebbe guardare alle vicende susseguitesi riguardo alla sistemazione delle sacre spoglie dopo il loro arrivo in città. Tra chi intendeva custodirle all’interno della cattedrale cittadina e chi indispensabile costruire ad hoc un nuovo edificio, inizialmente intervenne a dirimere temporaneamente la disputa il monastero di San Benedetto situato poco fuori le mura meridionali: le spoglie di Nicola sarebbero state custodite al suo interno. Due anni dopo, però, intervenne nella questione un fatto di grande importanza: l’elezione ad arcivescovo dell’abate Elia, rettore sin dal 1071 dello stesso monastero, destinato a consacrare definitivamente alla città di Bari un carattere sacrale di richiamo universale con due atti di carattere «salomonico»: nell’anno stesso della sua elevazione egli assumeva anche la carica di rettore della nuova basilica (i cui lavori pare fossero già iniziati, almeno per quanto riguarda la cripta, nel 1089, sull’area della corte catapanale), facendovi poi traslare definitivamente il corpo di Nicola; due anni dopo, nel 1091, rinveniva nella cattedrale i resti di San Sabino, ivi traslati dal suo predecessore Angelario, attribuendo a quest’edificio - simbolo del sacro «istituzionale», ben visto dal potere - una venerabilità analoga all’altro.

L’intento di Elia, morto poi nel 1105, era chiaramente mediatorio, ed i risultati positivi che se n’ebbero durarono all’incirca sino alle rivolte che portarono alla distruzione della città cinquantun’anni dopo.

Possiamo trarre alcune conclusioni dalle vicende di cui abbiamo parlato. Appare, innanzitutto, dato incontestabile l’importanza del culto reliquiare, e dell’apparato agiografico che gli fa da cornice, in vicende dai caratteri politico-sociali prima che essenzialmente religiosi. Altri esempi potrebbero essere portati, ma il campione storico costituito da Bari e dal culto per San Nicola è già molto indicativo. In secondo luogo, come già da tempo rilevato, altrettanta importanza va data al fattore edilizio che sempre troviamo accompagnare inventiones e translationes nei centri urbani pugliesi del secolo XI: il linguaggio artistico, ma anche topografico degli edifici sacri che si elevano nella regione per tutto il periodo normanno, ma anche prima, esprime un messaggio da leggere in relazione ai caratteri di cui si diceva.

Così è per Bari: la scelta del luogo su cui edificare la basilica di San Nicola è non casualmente lo stesso su cui sorgeva la corte del Catapano, simbolo dunque di un potere che si considera esaurito ed al quale vengono sostituiti i segni di una nuova storia, più strettamente urbana, più evidentemente cittadina. Il contrasto, poi, con i nuovi dominatori normanni è allo stesso modo evidente nel problema stesso della costruzione di questo edificio, nell’intervento di Elia, nel sentire popolare di una cattedrale che rimane per molto tempo un corpo estraneo alla città, una sorta di appendice sacra di un potere non voluto se non solo da alcuni.

Ancora, va detto di come questo uso dell’edilizia sacra fosse non separato ma evidentemente connesso a quel fenomeno di edilizia urbana laica (case padronali, torri) che abbiamo visto rappresentare nella Bari del secolo XI la principale espressione delle tendenze autonomistiche o comunque centrifughe della popolazione.

Eppure colpisce allo stesso modo la tendenza dei Normanni stessi a fare un uso personale di queste espressioni cittadine, e in qualche modo a cercare di strumentalizzarle; come già detto, il culto nicolaiano fu devotamente osservato anche dai sovrani, che avrebbero dovuto esserne colpiti negativamente. Essi amarono, poi, farsi celebrare proprio da quel Romanico che doveva essergli “nemico”.

Il loro passaggio nel meridione, e particolarmente in queste città dalla storia così esemplare, lascia, tra i molti, un dubbio: vi fu una consapevole abilità politica tesa a superare, sino a strumentalizzarle, le opposizioni nei vari dominii, o si può parlare di una strumentalità inconsapevole, senza comprensione, una sorta di complicità fra dominatori e dominati mai colta appieno da nessuna delle due parti?

     

Trani

Le fonti dell’epoca ci informano che, ai tempi della rivolta di Melo (1010), Trani non mancò di far sentire la propria voce contro il dominio bizantino. Dopo una nuova rivolta nel 1018, ritroviamo la città assediata nel 1042, questa volta dalle truppe guidate da Argiro, barese figlio di Melo, e composte da Normanni e Longobardi. Va sottolineata l’importanza di quest’ultimo avvenimento poiché, se si considera che Trani viene descritta nelle fonti dell’XI secolo come il centro di maggiore rilievo politico, economico, sociale di Puglia insieme a Bari, ne ricaviamo un dato cui si accennava in precedenza: ad una grande prosperità diffusa soprattutto sulla fascia adriatica della regione, faceva riscontro una sostanziale disunione, e a tratti aperta rivalità, tra le varie città.

A ben vedere, in effetti, la storia di Trani fra i secoli XI e XII rispecchia in gran parte le linee fondamentali di quella riscontrabile altrove: soprattutto, un numero elevato di ribellioni al potere centrale, che raggiunge il suo culmine con quella del 1071, nella quale troviamo il normanno Pietrone II, figlio di Pietrone I già signore della città, ostile al Guiscardo, che nel 1073 prevaleva occupando la città stessa. Normanni, insomma, in rivolta contro altri normanni, ma la cosa non deve stupire se si tiene presente che dopo il concilio di Melfi molti conti e cavalieri fecero causa comune contro il dilagante prestigio dell’astuto Roberto. Tornando piuttosto a Trani, ricorderemo ancora che qui le ribellioni si susseguirono praticamente per i cento e oltre anni di dominazione normanna, non disdegnando quando necessaria l’alleanza con gli stessi antichi nemici greci; ed anche questo, si è visto, non era un fatto nuovo.

Anche qui, inoltre, è dato assistere ad una risacralizzazione del territorio, analoga a quella di altri centri, che testimonia da una parte la sostituzione di poteri in atto, dall’altra una sicura vitalità economica della città: una campagna edilizia diffusa portò ad un consistente allargamento delle mura ed alla edificazione di chiese e monasteri, che andavano ad aggiungersi ai molti già esistenti. Non mancano, ancora, la genesi e lo sviluppo di una leggenda agiografica locale di grande diffusione, nata probabilmente sull’onda emotiva generata dalla traslazione a Bari di San Nicola di Mira e dall’enorme carico devozionale che questa portava con sé.

La canonizzazione, infatti, di San Nicola Pellegrino pare sia da ascrivere al 1099; di sicuro, la morte del santo - il dies natalis - è del 1094. Le leggende che ne parlano sono quattro (tre “vitae” ed una narrazione della seconda traslazione), ritenute degne di fede dai Bollandisti, e partono dalla nascita in Grecia, per approdare al suo arrivo in Italia, il passaggio da Otranto e Taranto, il trasferimento a Trani e la morte - giovinetto - appena quindici giorni dopo.

Il contenuto della vita del Nicola Pellegrino è molto interessante; in essa non troviamo quasi nulla dell’apparato eroico di molte narrazioni agiografiche dell’epoca, ma un percorso altrettanto tipico, ossia quello spirituale. Maturato come giovanissimo monaco nella natia Grecia, Nicola si imbarca pellegrino per raggiungere la penisola (Roma?); passa per alcuni centri costieri della Puglia meridionale - sopportando anche alcune disavventure - ed infine giunge a Trani. Egli è un pellegrino perfetto, devoto quasi misticamente ai dettami del Vangelo: con in mano una croce, si aggira scalzo e lacero, raduna a sé i fanciulli del luogo, canta costantemente il Kirye Eleison, attacca le gerarchie ecclesiastiche e la loro opulenza; tuttavia, il vescovo cittadino Bisanzio intuisce la sua eccezionalità, e gli concede di fermarsi offrendogli ospitalità.

Come detto, Nicola muore poco dopo per i malanni accumulati nella sua vita di stenti. Per cui la città, dal 1094, è arricchita del corpo illustre di un uomo di Dio, modello di perfezione spirituale. Soprattutto, un morto cui si affida il patronato della città stessa, delle sue mura, dei suoi abitanti: il corpo viene seppellito immediatamente nell’antica cattedrale di Santa Maria, nel 1143 verrà poi traslato nella nuova cattedrale ad esso consacrata.

Di nuovo, il tesoro preziosissimo costituito dal possesso di reliquie sacre apporta alla città detentrice un grande prestigio, che si traduce in donazioni e lasciti (i quali garantiscono l’innalzamento e lo splendore - usiamo senza problemi questo termine per il duomo tranese - della nuova cattedrale, come a Bari avevano assicurato l’elevazione della basilica nicolaiana), nonché nella sua trasformazione in un punto di riferimento devozionale: Trani, grazie anche al suo ingresso nell’orbita delle “vie sacre” di cui la Puglia andava intessendosi, fu negli anni soprattutto della prima spedizione crociata, tappa obbligata per pellegrini e condottieri; che andarono dunque ad arricchirne ulteriormente la già florida economia, rafforzando in ultima analisi quei ceti mercantili che guardavano con astio al modello economico imposto dai Normanni. Analogamente a quanto già visto per Bari, in ogni caso, anche qui i dominatori non evitarono la commistione con quelle realtà sociali che spesso gli si ribellavano; nell’architettura del duomo, nelle decorazioni operate dallo scultore Barisano - molte delle quali oggi non più visibili - erano presenti simboli della potenza normanna, particolarmente del soppiantamento di quella bizantina, insieme a quelli dai quali si può desumere la ricchezza e la stabilità cittadine.

Torniamo, insomma, a notare il tentativo di inserire i segni del potere su simboli nati spontaneamente per metterlo in discussione.

  

Taranto

Le conclusioni alle quali siamo giunti riguardo i casi di Bari e Trani non si limitano, come già detto, ad essere campione di un fenomeno racchiuso nell’area dei centri costieri adriatici e del loro entroterra: il dominio normanno ebbe a confrontarsi, certo, con casi differenti a seconda delle zone ove si espresse, ma alcune tendenze sono riscontrabili in termini di costante.

Nel caso di Taranto, assistiamo addirittura alla presumibile strumentalizzazione, o quantomeno ad un riuso, di un culto patronale cittadino preesistente e dell’apparato leggendario ad esso connesso, e il simbolo urbano dell’operazione si racchiude anche qui nell’edificazione (meglio, riedificazione) della chiesa cattedrale.

Procediamo con ordine. Una fonte sino ad alcuni decenni fa misconosciuta, il Sermo de inventione corporis Sancti Cataldi, piccolo saggio trascritto nel 1174 in un codice benedettino del monastero di San Severino di Napoli e studiato per la prima volta dall’Hofmaister, rivela che l’inventio del corpo di San Cataldo, patrono di Taranto, fu effettuata da un monaco longobardo, Atenulfus, poco fuori le mura cittadine, e che le reliquie furono da questi immediatamente portate in città «per sottrarle ai Normanni» che la stavano assediando, vincendo l’ostilità del vescovo a questa operazione. Inizialmente riposte nella chiesa di San Biagio, le spoglie di quest’uomo evidentemente noto ai tarantini dell’epoca, ma di cui non abbiamo alcuna notizia sicura, furono poi spostate nella cattedrale fatta costruire appositamente in luogo altro dalla cattedrale altomedievale di Santa Maria. Se ne ricava che il culto tributato a Cataldo (o, come alcuni vorrebbero, Gaidoaldus) sia nato nella Taranto prenormanna, posta politicamente sotto il dominio bizantino ma etnicamente e religiosamente composita, con una secolare Diocesi di culto latino convivente con l’elemento liturgico greco e con altre minoranze.

Questa ricostruzione dei fatti è stata resa possibile dagli studi effettuati negli ultimi anni; essa, che appare invero realistica, si scontra però con quella che è la tradizione ufficiale del culto cataldiano, la quale fa riferimento ad una letteratura sorta, non solo a Taranto, nel basso medioevo, e spesso contradditoria al suo interno, tanto da non essere citata nella Legenda Aurea di Iacopo da Varagine; a tale letteratura fanno riferimento anche i Bollandisti, sebbene con molte riserve, in una sorta di compendio critico dei vari agiografi a loro precedenti.

Secondo tale ricostruzione, le reliquie di Cataldo verrebbero ritrovate nel 1071 non fuori bensì all’interno delle mura, e precisamente nel cantiere della nuova cattedrale, i cui lavori sono cominciati in quell’anno per pia iniziativa dell’arcivescovo normanno Drogone (la città nel frattempo è diventata sede arcivescovile); insieme al corpo sono rinvenuti oggetti che ne testimoniano l’origine vescovile (in particolare una crocetta opistografa). Immediatamente viene effettuata la traslazione, alla quale segue presto una seconda; quella definitiva, sotto l’altare maggiore della cattedrale, si attesta al 1151 ad opera dell’arcivescovo Giraldus. I confusi dati biografici che si susseguono soprattutto dopo la canonizzazione del 1492, attibuiscono al santo una origine irlandese non meglio confermabile, ma che va comunque ad aggiungersi alla tradizione arrivata sino a noi.

Appare chiaro, se poniamo a confronto la versione ufficiale del culto e della leggenda con la ricostruzione storica che può farsi della sua origine - almeno in relazione allo scarso numero di documenti cui attingere, che i due elementi sono legati da un rapporto, e più precisamente che la versione ufficiale sia una «correzione» ed un riuso dell’altra. Infatti: da una parte, il Sermo parla di miracolo del ritrovamento a protezione della città dalle schiere di Normanni che la minacciano, non contiene alcun riferimento biografico al santo, esclude che l’inventio avvenga in ambiente cittadino e che le autorità ecclesiastiche ne siano protagoniste (se non in quanto ostili); dall’altra, la narrazione compendiata dal Berlengerius autore di riferimento dei Bollandisti, dice che il ritrovamento avviene casualmente - quasi una sorta di «compenso» divino all’operazione voluta dall’arcivescovo (si ricordi bene, normanno) di rifondazione della chiesa cattedrale, colloca l’avvenimento precisamente nel cantiere ove tale rifondazione si svolge e quindi nel cuore della città, e dà per certe la dignità vescovile e l’origine irlandese del santo, affermando di dipendere in questo senso da fonti antiche della Chiesa tarantina. Le quali, evidentemente, più antiche del “Sermo” non possono essere.

Dobbiamo perciò evincerne che, sulla base di una tradizione di origine rurale e monastica, non sappiamo peraltro quanto antica, sia stata costruito successivamente ad hoc l’apparato leggendario originario dell’agiografia cataldiana a Taranto.

Quanto successivamente, nemmeno possiamo dirlo con certezza, ma appare chiaro dalla analisi fatta sinora che l’operazione strumentale deve avere avuto inizio nei primi anni di dominio normanno. Più di un elemento ci porta in questa direzione: la paternità dell’inventio attribuita ad un prelato normanno - il primo peraltro di cui si abbia notizia in città - e lo stesso rango arcivescovile apposto al corpo rinvenuto, l’ambientazione cittadina dell’avvenimento miracoloso, ma soprattutto il capovolgimento evidente del carattere antinormanno del racconto.

Considerando, poi, che della edificazione della cattedrale nulla sappiamo se non ciò che si ricava dal solito Berlengerius, e cioè che essa fu sostanzialmente edificata a partire dalla metà dell’XI secolo in luogo altro da quello della basilica paleocristiana di Santa Maria, il quadro comincia a farsi più chiaro. L’edificio è senza dubbio ascrivibile al periodo del Romanico pugliese, sebbene di tale epoca abbia perduto ormai moltissime tracce, tra aggiunte posteriori e colpi di ruspa, ma la sua origine è dovuta all’iniziativa delle potenti istituzioni ecclesiastiche locali, diversamente dunque dalla spontanea origine municipale della basilica barese di San Nicola e della cattedrale tranese.

Anche in una realtà diversa come quella di Taranto, tuttavia, si può evidentemente parlare di una strumentalizzazione, stavolta forse più scoperta: la mano del potere normanno interviene su un «prodotto» più direttamente popolare quale una leggenda agiografica, forse nell’assenza di manifestazioni meno sommerse vista la mancanza di ceti urbani forti, e ne fa un uso strumentale invertendone il senso originale. Nè mancano tendenze fra le principali del dominio normanno sinteticamente analizzate sinora: i lavori di rifondazione della cattedrale durano un ventennio, e nel 1092-1094 sono pressoché terminati, ma numerosi sono gli edifici sacri che sorgono intra ed extra moenia sino al regno di Ruggero II, segno di un confermato interesse all’allargamento dello spazio urbano.

Va, poi, considerata la storia particolare del dominio tarantino, all’interno della più vasta storia della presenza normanna nel meridione: iniziato nel 1063 con la conquista da parte di Goffredo, figlio di Pietrone I di Trani, e proseguito con l’assegnazione a Boemondo (1086) di un vasto territorio che comprendeva, oltre alla città, quasi l’intero Salento e la contea di Conversano, il dominio tarantino del primo periodo normanno rappresentava la base di quella costruzione politica che sarebbe poi stata il Principato, con tendenze autonomistiche non propriamente municipali (come nei centri costieri adriatici), ma insite nella politica degli stessi dominatori contro il costituendo potere regio. Sicché l’interesse all’allargamento dello spazio urbano, la risacralizzazione di questo e la campagna edilizia ad essa collegata, sono da leggere più che altro come le basi delle particolari vastità e continuità di questo feudo.

Ogni elemento locale può rivelarsi prezioso in una tale operazione: e in questo modo, quindi, va probabilmente spiegata la vicenda della «doppia» leggenda agiografica patronale e dei suoi risvolti.

    

Appare evidente, a conclusione di questa schematica disamina, che l’atteggiamento tenuto dai Normanni nei confronti delle città dominate fu in ogni caso ambivalente: se da un lato i prìncipi, e poi i sovrani, non indugiarono nell’uso della violenza di fronte ai moti di ribellione cui conducevano le spinte anticentralistiche di gran parte delle popolazioni soggette, d’altra parte sempre presente fu la tendenza ad evitare rotture definitive con gli ambienti locali e i ceti sociali trainanti; questo perché‚ appariva loro, probabilmente, troppo importante il mantenimento della propria presenza nello spazio urbano, il quale - altrimenti - rischiava di costituire un’arma simbolica che in qualunque modo gli si poteva rivolgere contro.

Relativamente a questa operazione, dai fini ad un tempo politici, sociali e militari, l’aggancio con l’istituzione religiosa, con l’immagine edilizia della sua presenza, con l’immaginario sacro tramite essa rappresentato, fu sempre una delle più importanti, se non la prima, strategia portata avanti dai dominatori. Il che non deve stupire, se si pensa che per costoro il problema del rapporto potere/città si risolveva, evidentemente, unicamente nella presenza e nella forte visibilità del primo.

   

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©2001 Giuseppe Febbraro

  


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