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Le fonti La vita quotidiana Temi e problemi Bibliografia
Il Registro dell’abate Irminone, un libro catastale dell’abbazia di Saint-Germain-des-Prés, presso Parigi, compilato tra l’811 e l’826; il capitolare di Carlo Magno De Villis, con le istruzioni ai suoi amministratori sulla gestione delle proprietà terriere. Per molte informazioni sulla vita sociale, i decreti dei Concili della Chiesa, gli scongiuri e le poesie in anglosassone e in antico alto tedesco, nonché il Colloquium di Aelfric.
Le «tre cose sottili che sono il maggior sostegno del mondo» è citazione da The trials of Ireland, secolo IX.
La nostra lente d’ingrandimento si ferma sul piccolo fondo di Villaris, situato presso Parigi nell’area oggi occupata dal Parco di Saint-Cloud. È lì che troviamo Ermentrude, moglie di Bodo (proprietario di una piccola fattoria di terra arabile e prato, con qualche filare di vite) e madre dei piccoli Wido, Gerberto e Hildegard.
In un giorno di aratura, dopo che il marito (ben rifornito di gustosa focaccetta che lei aveva cotto utilizzando le diverse qualità di farina) si è avviato verso i campi insieme ad un grosso bove ed al piccolo Wido (di grande aiuto nel corrergli accanto con un pungolo), Ermentrude ha il suo bel da fare. Per lei, abituata ad occuparsi tra l’altro delle galline e della raccolta delle uova, è il giorno di pagamento del tributo (una grassa gallinella e cinque uova), per pagare il quale si avvia insieme ad una delle vicine non prima di aver affidato a Gerberto la sorellina Hildegard. Ermentrude si dirige quindi alla “casa grande”, dove c’è il laboratorio degli uomini ma anche l’amministratore incaricato di riscuotere il tributo. Lo stesso amministratore ha il compito di sorvegliare il lavoro delle donne riunite in un particolare quartiere fatto di case ed un laboratorio (il genitium) adeguatamente “protetto” da intrusioni indiscrete e destinato alle attività di produzione dei tessuti; è lì che Ermentrude, onorato il primo dovere della giornata, si reca per fare quattro chiacchiere in compagnia. |
Restano però molte incombenze; ritornata alla fattoria, Ermentrude si mette al lavoro per un paio d’ore nella vigna, poi prepara il pranzo per i bambini e si dedica a cucire indumenti per loro. Sembra niente, ma in realtà alla fattoria una donna lavora quanto un uomo se, oltre la casa, le galline e la vigna, conteggiamo anche l’aiuto al marito nei campi in caso di bisogno, la tosatura delle pecore, tessere, filare e cucire, nonché fare il bucato. |
Il ritorno del marito per cena ed il tramonto del sole coincidono con la fine della giornata, ma al di là della routine e dell’adattamento ad un sistema buono e giusto per poter sopravvivere dignitosamente, Ermentrude coltiva probabilmente i suoi sogni e i suoi pensieri, popolati di antiche credenze e superstizioni, e alimentati da riti immutabili che riescono a conciliare il profondo sentimento della natura e del destino umano con i nuovi insegnamenti dettati dalla Chiesa.
Ermentrude aveva imparato a pregare il Signore Onnipotente invece che il Padre Cielo e la Vergine Maria invece della Madre Terra, ma le vecchie formule apprese dai suoi avi rimanevano nell’anima e nel sentire: così, lo sciamare delle api improvviso fuori dalla sua capanna la induceva a recitare un piccolo antico scongiuro, che era volo della mente ed espressione di desiderio, ma anche preghiera e ringraziamento. Così, un qualsiasi antico scongiuro si purificava da sé con l’aggiunta di un sommesso ed inconsapevole “Così sia!” che la Chiesa si era premurata di insegnarle, pur senza intromettersi nell’ancestrale ritualità della gente della terra. Una Chiesa benigna e solo talvolta rigida, giusto in tempo per richiamarla dalle possibili deviazioni offerte dalla persistenza di certe pratiche pagane o superstiziose, alimentate da maghi e incantatori, voti ad alberi o sorgenti, filtri magici e vecchie storie difficili da dimenticare a meno di non rinnegare le proprie radici.
Era questa Chiesa, d’altronde, che offriva ad Ermentrude ed al marito lo svago della festa. Domeniche e giorni di santi prevedevano infatti l’astensione da qualsiasi lavoro e, una volta ascoltata la messa, Ermentrude, il marito e i loro amici potevano dedicarsi a canti e balli in allegria, secondo consuetudini radicate nella gente di campagna almeno fino a tempi più tristi e consapevoli. Ermentrude cantava e ballava sul sagrato, inseguendo la memoria dei propri avi, con grande dispiacere di quella stessa Chiesa benigna che non riusciva a governare tutti quei “canti scellerati”, tutte quelle “ballate e danze cattive e licenziose” e “simili seduzioni del demonio”. E se non cantava e non ballava, ascoltava i canti dei menestrelli errabondi beneficiati dal consenso di Carlomagno, che invece di cantare inni cristiani intonavano canzoni secolari e profane, motivo per il quale l’inferno (a detta dei preti) li attendeva con le porte già spalancate.
Ma c’era occasione anche per qualche gita fuori porta: il 9 ottobre di ogni anno, ad esempio, incominciava fuori Parigi la grande fiera di Saint-Denis, che durava per un mese ed alla quale Ermentrude, il marito e i figli non mancavano mai, ritornandovi anche più volte. Vestita dei suoi abiti migliori, e con la scusa di fare acquisti mirati, Ermentrude in realtà amava vagare in quel luogo dove erano assemblate vivacemente ed indisciplinatamente mille lussuose meraviglie, certo per lei inarrivabili ma comunque godibili per la sua curiosità. Ci pensavano menestrelli, saltimbanchi e prestigiatori a svuotare le tasche della famiglia del poco in esse contenuto; alla fine, quella che al tramonto sobbalzava sul carro che la riportava con la famiglia verso casa, era una donna stanca ma felice, inconsapevole di essere una delle «tre cose sottili che sono il maggior sostegno del mondo», e ragione per la quale molta storia è stata fatta da quelle come lei.
Dal libro catastale di Irminone apprendiamo il nome di ogni piccolo fondo (fisc) pertinente all’abbazia, nonché notizie assai dettagliate sulla terra signorile e su quella tributaria condotta dai coloni, con i nomi degli stessi, delle loro mogli, dei figli, e con tutti i servizi e i tributi che essi dovevano pagare; da qui a numerosi particolari della loro vita quotidiana il passo è breve. L’abbazia affidava il possesso della parte tributaria direttamente ai coloni; questa parte era divisa in una serie di piccole fattorie chiamate mansi, occupate ognuna da una o più famiglie di coloni, liberi in teoria, ma legati alla terra affidata loro anche in caso di vendita del fondo. Gli abitanti del manso dipendente dovevano lavorare la terra del manso principale (quello signorile, gestito direttamente dai monaci) per metà della settimana, non trascurando naturalmente la loro terra e ricevendone in cambio il possesso delle case, degli edifici agricoli, delle terre e delle vigne di loro diretta pertinenza. Tra gli obblighi dei coloni vi erano vari servizi e tributi in natura diretti alla casa grande, oltre a tutta una serie di tributi speciali nel caso di privilegi speciali.
Il Capitulare de villis ci informa dell’attenzione riservata ai servizi che le donne che vivevano sulle terre del dominio reale dovevano al loro signore. In epoca carolingia il dominio di pertinenza esclusivamente femminile era quello della produzione dei tessuti, per i quali le donne del territorio del re lavoravano a periodi stabiliti nella sala grande del castello, producendo lini e lane, colori per tingerli ricavati dalle erbe, nonché strumenti e prodotti connessi alla tessitura e alla filatura delle stoffe da fornire. Oltre a questa attività di rifornimento di vestiario all’aristocrazia, le contadine avevano incombenze legate alla produzione ed al rifornimento del cibo. Carlomagno aveva dato ordine che i luoghi dove si svolgevano tali lavori femminili (genitia) fossero circondati da mura, avessero porte resistenti, venissero riscaldati da stufe e fossero dotati di cantine dove conservare i cibi preparati.
Bibliografia
(cui si rimanda per le indicazioni sulle fonti)
Power E., Vita nel Medioevo, Torino 1999 (ed. or. Medieval people, London)
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© 2006 Stefania Mola (I ediz.: 2002). Le immagini che corredano questa pagina sono tratte o elaborate da Les très riches heures du duc de Berry