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Democrito
Iacopo da Cessole, frate predicatore fiorito nel XIV secolo, fu
autore di un’opera in cui fortissimo si manifesta lo spirito allegorico del
Medio Evo, il Solatium ludi schacorum, scilicet regiminis ac morum hominum et
officiorum virorum nobilium. L'opera, che raccoglie molte curiosità, trovò
subito così ampia divulgazione e così grande successo che già nel Trecento fu
tradotta in molte lingue volgari, e nella seconda metà del XV secolo fu
pubblicata a stampa numerose volte
[1].
Iacopo racconta la prima versione dell'aneddoto parlando di antichi
filosofi che furono pronti a sacrifici estremi, guidati dalla loro sete di
giustizia. L'abbrivio viene fornito, pretestuosamente, si può dire,
dall'inventore del gioco: il filosofo orientale Xerses, che in Grecia veniva
chiamato Philometor, ossia – traduce l'autore – «mensure sive iustitie
amator». Questa notizia fornisce a Iacopo l'appiglio per fare l'elenco di chi
antepose la giustizia ad ogni altra cosa: Xerses il fantomatico inventore,
Teodoro di Cirene, Socrate e, appunto, Democrito. Viene esaltato, con quest'ultimo,
l'ideale dello strenuo ricercatore della giustizia:
«Legimus etiam Democritum philosophum sibi
eruisse oculos ne videret bene esse malis civibus et iniustis» (I, 2)
[2]
[«Leggiamo anche che il
filosofo Democrito si sia strappato gli occhi per non vedere che ai cattivi e
ingiusti cittadini le cose andassero bene»].
La seconda versione viene fornita poco dopo, e senza ravvisare
alcuna contraddizione con la prima. Così mentre sta spiegando il terzo motivo
per cui fu inventato il gioco degli scacchi, ossia per la comune e naturale sete
di conoscenza – gli altri due consistevano nel desiderio di correggere il re e
in quello di allontanare l'ozio – si racconta:
«Et quia visus corporalis
quandoque multa cogitare impedit utilia, ideo Democritum philosophum legimus
oculos sibi eruisse ut vegetatiores et acutiores cogitationes haberet» (I 3)
[«E poiché l’organo della vista talvolta impedisce di pensare
molte cose utili, leggiamo che il filosofo Democrito si sia strappato gli occhi,
per avere pensieri più vivi e acuti»].
Queste due versioni del racconto democriteo trovano riscontro nelle Notti Attiche di Aulo Gellio (II sec. d. C.), che così raccontava, riportando anche alcuni versi di Decimo Laberio, mimografo di epoca cesariana:
«Democritum philosophum in monumentis historiae Graecae scriptum
est, virum praeter alios venerandum auctoritateque antiqua praeditum, luminibus
oculorum sua sponte se privasse, quia existimaret cogitationes commentationesque
animi sui in contemplandis naturae rationibus vegetiores et exactiores fore, si
eas videndi inlecebris et oculorum impedimentis liberasset. Id factum eius
modumque ipsum, quo caecitatem facile sollertia subtilissima conscivit, Laberius
poeta in mimo, quem scripsit Restionem, versibus quidem satis munde atque
graphice factis descripsit, sed causam voluntariae cecitatis finxit aliam
vertitque in eam rem, quam tum agebat, non inconcinniter. Est enim persona, quae
hoc aput Laberium dicit, divitis avari et parci, sumptum plurimum asotiamque
adulescentis viri deplorantis: Democritus Abderites physicus philosophus /
clipeum constituit contra exortum Hyperionis, / oculos effodere ut posset
splendore aereo. / Ita radiis solis aciem effodit luminis, / malis bene esse ne
videret civibus. / Sic ego fulgentis splendorem pecuniae / volo elucificare
exitum aetati meae, / ne in re bona esse videam nequam filium» (X 17, 1-3).
[«Nei
libri di storia greca è scritto che il filosofo Democrito, uomo degno di
venerazione oltre ogni altro e tra i più autorevoli degli antichi, si sia
volontariamente privato della vista degli occhi perché riteneva che le
riflessioni e le lunghe meditazioni del suo animo sarebbero divenute più
spedite e più esatte nell'indagare i principi e le cause della natura, se le
avesse liberate dalle attrattive che offre la vista e dagli ostacoli che
provengono dagli occhi. Questo suo atto e il modo stesso con cui facilmente si
accecò con ingegnosissima abilità, sono descritti dal poeta Laberio, in un
mimo intitolato Il cordaio, con versi abbastanza ricercati e fatti ad arte, ma
immaginò che la causa del volontario accecamento fosse un'altra, e la introduce
elegantemente nell'azione drammatica che stava rappresentando. Il personaggio
che parla nell'opera di Laberio è un uomo ricco e avaro, che si lamenta del
gran spendere e del lusso di un giovane: il filosofo e fisico Democrito d'Abdera
/ pose uno scudo contro il figlio di Iperione [il Sole] / per potersi strappare
la vista con lo splendore celeste. / Così, con i raggi del sole si strappò la
vista degli occhi, / per non vedere arridere il successo ai cattivi cittadini. /
Così io voglio che lo splendore dell'oro scintillante/ ottenebri il resto della
mia vita, / per non vedere in festa un figlio indegno».]
Dunque, già Aulo Gellio raccoglie, mettendole assieme, le due
versioni del racconto relativo all’autoaccecamento di Democrito: le stesse
riportate anche da Iacopo da Cessole. A questo punto si sarebbe tentati di
supporre che Iacopo abbia tratto il racconto, nelle due versioni da lui finora
utilizzate, dall'opera di Aulo Gellio, che nel Medio Evo aveva trovato una
circolazione abbastanza ampia. Ma questa ipotesi diventa insostenibile di fronte
alla terza citazione che Iacopo fa della storiella di Democrito a proposito
della necessità di essere onesti e casti per chi ha bisogno, per il proprio
lavoro, di assoluta concentrazione ed applicazione. La terza versione è,
appunto, questa:
«Terculianus [sic!] refert Democritum philosophum excecasse
seipsum eoquod mulieres aspicere sine concupiscentia non valebat» (III 3) [«Tertulliano riferisce che il filosofo Democrito si sia accecato,
perché non riusciva a guardare le donne senza essere preso da concupiscenza»].
Iacopo da Cessole, qui, fa riferimento a questo passo dell’Apologia
di Tertulliano:
«Democritus excaecando
semetipsum, quod mulieres sine concupiscentia aspicere non posset et doleret, si
non esset potitus, incontinentiam emendatione profitetur. At Christianus salvis
oculis feminas non videt: animo adversus libidinem caecus est» (XLVI 11)
[«Democrito, accecandosi a causa del fatto che non poteva guardare
le donne senza desiderarle e dolendosi di non possederle, confessa, proprio col
suo gesto autopunitivo, la propria incontinenza. Il cristiano, invece, anche
salvando la propria vista, non vede le femmine: contro la libidine è cieco
nell'animo»].
Con questa versione del racconto, la figura del filosofo teoretico
viene completamente stravolta. Democrito non è piú il contemplativo che si
acceca per poter meglio speculare e meglio comprendere l'essenza delle cose;
oppure il moralista che si sacrifica per la giustizia; ma è l'uomo, o, meglio,
il pagano incapace di sottrarsi alla tempesta generata dai sensi, che lo fa
cadere in un perenne stato di concupiscenza. Democrito preferisce la cecità
alla vista delle donne, che tutte vorrebbe possedere senza però riuscirvi. Ed
il suo gesto risulta essere una aperta dichiarazione di incontinenza. Il
filosofo, allora, non è più colui che riesce, o che, almeno, nella
raffigurazione che se ne faceva in età classica, dovrebbe riuscire a dominare
le passioni: egli non è posto al di fuori della società, in una solitudine
estatica, ma ne fa pienamente parte, e quindi non è per nulla diverso dagli
altri uomini. Immeritati, anzi, sono anche il rispetto e gli onori che gli
vengono generalmente tributati. A lui viene contrapposto il cristiano, che
ricerca la verità e non il suo simulacro.
Può darsi che Iacopo abbia conosciuto sia l'opera di Gellio che
quella di Tertulliano, ma è più probabile che egli abbia ripreso quegli
aneddoti da un repertorio di exempla, uno dei tanti che venivano
utilizzati per la composizione di prediche e, nelle scuole, per esercitazioni
retoriche, o forse dallo Speculum di Vincenzo di Beauvais, che riporta
tutte e tre le versioni sia nello Speculum doctrinale (IV 176), sia nello
Speculum historiale (III 32). Come è spiegabile, però, che il nostro
frate abbia riportato nella stessa opera, e, addirittura, a distanza assai
ravvicinata, i tre esiti diversi dello stesso racconto? Forse si trattò di una
sua distrazione; ma sembra più lecito propendere per una sua assoluta
indifferenza di fronte all'evidente incongruenza di ciò che narra. Gli
aneddoti, da lui riportati in grandissima quantità, hanno una funzione
essenzialmente esemplare; a lui non importa generare piacere e distrazione, così
come può essere, invece, per Gervasio di Tilbury o per Walter Map; a lui
importa solo la funzione esemplare, pedagogica, del racconto. Infatti, l'opera
di Iacopo, piuttosto che a spiegare e a dare precetti sul gioco degli scacchi,
come ci si potrebbe aspettare dalla prima parte del titolo, è tutta protesa a
volgere in senso morale ogni cosa ad esso connessa. L'argomentazione
moraleggiante, che è l'unica cosa che gli interessa, tuttavia, non si inserisce
in una più ampia visione etica, che, anzi, rimane allo stadio primordiale e,
magari, superficiale. Per questo non propende per alcuna delle tre versioni;
tutte gli vanno bene e tutte utilizza per dimostrare cose diverse tra loro.
1 La versione in italiano può essere letta nell'edizione datane da P. Marocco, Volgarizzamento del libro de' costumi e degli offizi de' nobili sopra il gioco degli scacchi, Milano 1829. Sull'autore cfr. soprattutto T. Kaeppeli, Pour la biographie de Jacques de Cessoles», «Archivum fratrum Praedicatorum», 30 (1960), pp. 149-57. Cfr. anche F. Delle Donne, La solitudine del filosofo: variazioni su un ‘paradigma metaforico’ dall’antichità al Medio Evo, «KOINΩNIA», 20 (1996), pp. 5-31.
©2005 Fulvio Delle Donne