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Patmiaco 33 (anno 941) – f. 193, particolare
La
presenza dell’elemento greco nella penisola italiana trova un importante
momento di espressione, oltre che di avvio, nella rivendicazione di un potere,
ritenuto legittimo, sull’Occidente da parte dell’imperatore d’Oriente
Giustiniano (527-565), ovvero in quel conflitto meglio conosciuto come “guerra
greco-gotica” (535-553). Nonostante i presupposti di questa guerra di
riconquista risiedessero in una semplice azione politico-militare, in seguito
alla trasformazione dell’Italia in una delle prefetture dell’Impero
d’Oriente fu naturale la diffusione della cultura greco-orientale e,
ovviamente, una produzione scritta greca.
Questo
processo di bizantinizzazione non penetrò tuttavia in profondità, e così in
una produzione libraria che nel VI e, in parte, nel secolo VII continua ad
essere prevalentemente latina, influenze greche si ritrovano solo
nell’apparato iconografico
e nelle tecniche scrittorie e librarie (come «manierata esagerazione,
andamento verticale del chiaroscuro, monumentalità delle forme, ispessimenti
alle estremità dei filetti delle lettere, taglio obliquo alle terminazioni
delle aste desinenti oltre il rigo di base»
[1]
Nel periodo altomedievale la diffusione della cultura libraria greca si concentra nell’Italia centro-meridionale, da Roma alla Sicilia, «passando per la Calabria e proiettandosi in Sardegna» [2]. Con la presenza sempre più consistente di greco-orientali e la nascita di istituzioni religiose greche, si fa più frequente, soprattutto a Roma, l’importazione di libri da Oriente, la circolazione e la conservazione di libri greci in chiese e monasteri romani e la produzione di manoscritti greci. A partire dalla fine del secolo IX-inizi del secolo X, Roma passa il testimone alla Sicilia e all’Italia meridionale, dove si manifesta una importante produzione libraria greca che spazia dal sacro al profano; in realtà, si tratta dell’acme di un processo iniziato già tra i secoli VII e IX, quando è attestata la presenza di manoscritti, prodotti nel Mezzogiorno, circolanti in ambienti religiosi e perciò di contenuto prevalentemente sacro (riguardanti, in particolare, letture monastiche o ufficiature liturgiche: ad esempio, l’eucologio Vaticano Barb. gr. 336). Fino agli ultimi decenni del secolo IX, l’unica scrittura adoperata nella produzione manoscritta greca in Italia meridionale è la maiuscola: tale persistenza non trova però riscontro nel mondo greco–orientale, dove la minuscola si era imposta nell’uso librario già dai primi anni dello stesso secolo, se non prima.
A confermare la crescita della produzione italo–greca già dal secolo IX, c’è una serie di manoscritti, collocabili tra fine IX e inizio secolo X, vergati in una scrittura detta “di tipo Anastasio”, dal nome dell’omonimo monaco copista dell’attuale Par. gr. 1470 datato all’anno 890. Questa scrittura si caratterizza per un generale aspetto geometrico, per lettere alte e strette, dal modulo schiacciato lateralmente, dal tratteggio angoloso e rigido e inoltre anche per la peculiarità di una estrema vicinanza dei tratti paralleli di talune lettere (nello specifico m, n, b, k, p) [3]. Alcuni dei codici maggiormente rappresentativi della minuscola “di tipo Anastasio”[4] sono riconducibili, in base allo studio delle loro caratteristiche codicologiche, proprio a centri scrittorii greci dell’Italia meridionale. Dello stesso tipo grafico del Par. gr. 1470 è il Patmiaco 33, contenente le “Omilie” di Gregorio di Nazianzo, un codice molto ricco nel sistema decorativo (presenza frequente di colori come giallo, rosso, verde, oltre che dell’oro; epigrammi incorniciati a funzione di frontespizi); dalla sottoscrizione del manoscritto leggiamo che a terminare la trascrizione del codice furono i copisti Nicola e Daniele a Reggio Calabria nel 941. Difficile risulta una distinzione netta delle due mani, anche se «si può notare una più generale differenza di ductus tra una grafia sicura e disinvolta da una parte ed una grafia più incerta ed impacciata dall’altra» [5]. Si può ipotizzare che Nicola sia maestro di scrittura, oltre che padre spirituale, di Daniele, della cui collaborazione avrebbe usufruito nella trascrizione del manoscritto.
A distanza di cinquant’anni (quelli che
intercorrono tra la stesura del Par. gr. 1470 e quella del Patm. 33), la
struttura grafica non sembra quindi cambiare di molto; si
percepisce soltanto un passaggio da una
scrittura spontanea e fluida ad una sì più calligrafica ma più artificiosa,
più regolare, tendente a forme
geometriche e caratterizzata anche da un’alternanza di modulo (a lettere
strette, come β,
κ, ν e
μ, se ne accostano altre più larghe, come
α, ε,
ζ, ξ, ο,
σ e
ω). Non sembra dunque inverosimile che ad una similarità nello
stile grafico possa corrispondere una vicinanza, se non coincidenza, spaziale.
Reggio si rivela così un importante centro di copia in un periodo in cui (dalla
fine del secolo IX fino allo scorcio del secolo XI) la produzione libraria si
inquadra soprattutto in Calabria, Sicilia orientale, Lucania, Puglia, Campania e
Lazio meridionale fino a Grottaferrata: un’area, quella del Mezzogiorno
d’Italia, di incontro tra culture differenti, come quella araba o latino-longobarda
o italo-greca. Proprio tale compresenza
si svela
anche nella
scrittura, e la si ritrova in manoscritti
italo-greci vergati da scribi attivi nel ducato longobardo di Benevento e che,
perciò, mostrano influenze della scrittura latina beneventana (una scrittura
libraria legata
al monastero di Montecassino) nell’uso di alcuni peculiari segni
di interpunzione, nel tracciato un
po’ duro delle lettere o in taluni modi di sistemazione dei fascicoli
[6].
Codici di tal genere sono riconducibili alla
cosiddetta “scuola niliana”: si tratta di una scuola calligrafica
facente capo a Nilo di Rossano, il quale, inizialmente attivo
in Calabria presso il monastero di S. Adriano, si trasferisce con i suoi
discepoli nella longobarda Capua attorno
al 980. Dopo non molto, Nilo si
reca nel monastero di S. Michele di Vallelucio su invito dell’abate di
Montecassino, per
poi giungere, sempre assieme ai
suoi, a Serperi (nei pressi di Gaeta) e, infine, sui Colli Albani, dove fonda
nel 1004 il monastero di S. Maria a Grottaferrata. I manoscritti attribuibili ai
copisti della “scuola niliana” testimoniano una «minuscola di piccolo
modulo, rotonda, verticale o appena inclinata a destra, con percentuali non alte
di lettere di forma maiuscola (specialmente λ,
κ, π), sovente ricca di
abbreviazioni, alcune delle quali
caratteristiche» [7].
Proprio
come le opere trascritte in questa scrittura, anche i testi vergati nella
minuscola detta “ad
asso di
picche”
hanno carattere esclusivamente monastico. Un’altra caratteristica
comune a queste due tipizzazioni grafiche è la stessa origine calabrese
sostenuta da Robert Devreesse, il quale conferisce alla scrittura “ad asso di
picche” quel particolare
nome in
virtù di
«un singolare modo di tracciare con un solo colpo di penna il gruppo di
lettere ερ» [8]. La presenza di tale minuscola
fornisce una garanzia per la localizzazione di codici (datati al secolo X
e a metà dell’XI) all’Italia meridionale, garantita, oltre che dalla
particolare legatura, anche dalla presenza di iniziali a contorno raddoppiato.
Enrica Follieri riportando nel suo saggio sulle scritture librarie dei secoli X
e XI l’importante studio di Paul Canart [9],
Successivamente,
con il periodo coincidente con la dominazione normanna (secoli XI e XII), la
produzione libraria di lingua greca in Italia meridionale conosce un ulteriore
sviluppo, tanto che si possono contare circa 600 manoscritti di sicura (o quasi)
origine italo-greca. Tale incremento nella produzione di codici è spiegabile
con una migliorata condizione economica (per questo motivo la pergamena ha,
infatti, lavorazione e qualità migliori
rispetto al
passato), ma
soprattutto con
una rinascita monastica, causa principale della fondazione di nuovi
monasteri. A quest’ultimo aspetto si ricollega infatti la diffusione di
τυπικα, numerosi in questo periodo, finalizzati
alla regolamentazione della vita monastica; tra i
τυπικα italo-greci
più noti, collocabili tra i secoli XI e XII, si possono ricordare il
τυπικòν del S. Salvatore di Messina
10],
il τυπικòν di S. Nicola di Casole
[11] o
ancora quello del monastero di S. Maria
Odigitria (detto del Patir). Mentre cessa la produzione di manoscritti greci in
Campania, centri di copia attivi si
ritrovano ancora, dunque, in Sicilia, Puglia, Lucania e Lazio meridionale. Anche
la Calabria resta una zona particolarmente vivace; proprio nell’area calabrese
si affaccia, intorno ai primi anni del secolo XII, una minuscola dalle forme
minute, morbide, fluide, abbastanza arrotondate, ma meno corsiva della scrittura
“ad asso di picche”, «ad asse diritto o un po’ inclinato a destra, […]
dominata da grande equilibrio tra larghezza ed altezza, da armonico e contenuto
sviluppo delle aste» [12].
Si
tratta dello “stile di Rossano” (diffuso, nonostante il nome, anche al di là
della zona rossanese), nel quale è testimoniata l’apertura delle grafie italo-greche
verso l’Oriente; questa minuscola è infatti molto vicina ad una scrittura
costantinopolitana in particolare, la cosiddetta “Perlschrift” o
“scrittura a perle”, soprattutto per la regolarità del modulo e del
tratteggio, oltre che per l’ornamentazione in carminio. Tuttavia, a lettere
piuttosto larghe (come
π, β,
φ) se
ne accostano
altre più
strette, queste ultime
non molto dissimili da talune
proprie della scrittura “di tipo Anastasio”. Santo Lucà non ritiene
azzardato sostenere che «le origini dello stile rossanese vadano ricercate nel
ceppo tradizionale delle grafie italiote arcaizzanti, e soprattutto nella
cosiddetta minuscola niliana, la quale, evolvendosi in forme sempre più morbide
e moderne, anche
sotto l’influsso della “Perlschrift”,
sfocia nello stile rossanese»
La omogeneità della
produzione libraria italo-greca (tanto
grafica quanto codicologica) in stile rossanese
permette di ricondurre
quei manoscritti, tra cui il
Vat. gr. 1992 o il Vat. gr. 2000 o
ancora il Vat. gr. 2050, ad un
unico ambiente: i modi grafici di Bartolomeo di Simeri, il fondatore
dell’abbazia di S. Maria del Patir nel 1105 nonché igumeno della stessa dal
1100 al 1130 circa, fanno scuola e «si compongono in un linguaggio
grafico sufficientemente unitario, lo “stile di Rossano”. Ed è
ancora nei codici di Bartolomeo di Simeri e della sua scuola che s’incontra
quel tipo di decorazione “in negativo” che costituisce un altro, non
secondario, sintomo di rinnovamento del libro italo-greco. In questi libri di
Rossano, infatti, vanno cercate le premesse di scrittura
e ornamentazione tipiche “di Reggio”,
le quali dominano tutto il secolo XII proiettandosi
anche oltre»
A sinistra: Vat. gr. 1553 (secolo X) – f. 120. A destra: Taur. C III 17 (anno 1173) – f. 44.
Sembra
essersi verificato un ideale passaggio di consegne dal territorio in cui opera
Bartolomeo di Simeri, cioè la Calabria e Rossano in particolare, alla Puglia,
soprattutto alla Terra d’Otranto, per il ruolo di privilegio rivestito
all’interno della produzione libraria nella prima metà del XII secolo.
Durante il precedente dominio bizantino (fino al 1071), qualche testimonianza si
trova per altre zone pugliesi, come quella di Bari, mentre rare sono le
testimonianze librarie sicure del Salento
Infatti,
il primo manoscritto che si può con certezza localizzare nella Terra
d’Otranto è un codice datato (anno 1154), il Vat. gr. 1221, trascritto dall’igumeno
del monastero di Santa Maria di Cerrate, presso Lecce. Ma, come si è detto, è
possibile prendere in considerazione alcuni manoscritti precedenti: un esempio
proviene dal Paris. gr. 3, un codice trascritto in parte nel 1095 e la cui
scrittura non si allontana di molto da quella di altri codici di fine secolo XI
o inizi del secolo XII presenti un tempo in Terra d’Otranto. A tal proposito
si possono ricordare i seguenti manoscritti: Barber. gr. 517, Ambros. F 48 sup.
(inizi del secolo XII), i Barber. gr. 70 e 456, Paris. gr. 2659 (anno 1115/16),
Sinait. gr. 193 (anno 1124).
Sulla
base di questi
testimoni, lo studioso francese ipotizza
l’esistenza di
uno stile
tutto otrantino,
databile immediatamente
dopo la
conquista normanna (a partire dal 1059, anno in cui è
stipulato il cosiddetto “accordo di Melfi”
tra Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, e papa Nicolò II) ma
prima della fondazione dell’importante monastero di
San Nicola di Casole (1098 / 1099),
che egli definisce
«rectangulaire
aplati ou écrasé».
A giustificare l’appellativo “rettangolare” è
l’aspetto, appunto rettangolare, derivante dalla forma geometrica delle
lettere μ, π e ω e da
gruppi di lettere, come il legamento σ–π o il legamento ι–ν,
quest’ultimo simile ad un rastrello senza manico. Hanno forme propriamente
rettangolari, o tutt’al più squadrate, le lettere α, β, κ,
ν, σ e υ, mentre le altre lettere tendono ugualmente ad una forma
geometrica. Jacob percepisce, da questo stile, una forte impressione di
arcaismo; successivamente, sembra che tale tipologia grafica si sia evoluta,
anche piuttosto in fretta, verso forme meno schiacciate, risultando ancora
presente in manoscritti più tardi tra cui il
τυπικόν del monastero di S. Nicola di Casole
(cod. C III 17 conservato a Torino), scritto da Nicola igumeno dello stesso
monastero. Il paleografo francese ammette però la difficoltà di delimitare con
esattezza, allo stato attuale delle ricerche, l’area di estensione di questo
“style rectangulaire aplati ou écrasé”, non escludendo la possibilità
di una sua diffusione verso la Lucania e fino
ai confini con
la Calabria
è
nota la ricca produzione libraria in lingua greca tra i secoli XI e XII, ma si
è trattato di uno sviluppo prevalentemente circoscritto alle zone calabresi e
siciliane, centro della dominazione normanna. La posizione emarginata della
Puglia rispetto a questo asse Calabria-Sicilia, spiega la carenza di libri, in
particolare di carattere profano; più consistente risulta, invece, il numero
dei testi sacri
in lingua
greca (a dispetto del processo di
latinizzazione portato avanti dai Normanni)
Ancora
non molto numerosi sono i codici datati nel secolo XIII (escluso l’ultimo
ventennio): il Barber. gr. 350 (τυπικόν del
monastero di S. Nicola di Casole, anno 1205), il Paris. gr. 2089
(Niceta sull’Isagogè di Porfirio, anno 1223), il Barber. gr. 297 (Syntagmata
di Nicola di Otranto, anno 1236) e Scorial.
R I 18
(Lycofrone con commento di Tzetze, anno 1255).
A questi va poi aggiunto il Palat. gr. 45 (Odissea
e Batracomiomachia, anno 1201), un manoscritto piuttosto
singolare per
l’andamento corsivo della
scrittura, particolarità
che tenderebbe a retrodatarlo di alcuni decenni se il copista non vi
avesse apposto due sottoscrizioni.
Lo
stile del Barber. gr. 350 è invece indicativo dello sviluppo della scrittura
liturgica in Terra d’Otranto tra i secoli XII e XIII; lontano dall’aspetto
geometrico del τυπικόν copiato nello stesso
monastero trent’anni prima (il Taurin. C III 117), le forme si presentano qui
più arrotondate, alcune lettere come θ e ω tendono ad ingrassarsi, la
pancia della α onciale si allunga verso il basso, è più frequente il
riempimento di lettere o parti di lettere con il color vermiglio.
Il
Barber. gr. 297 presenta una caratteristica che costituisce un indicatore della
provenienza otrantina: si tratta dell’abbreviazione in forma di segno
“uguale” per
l’
A sinistra: Barb. gr. 350 (anno 1205) – f. 119v. A destra: Vat. gr. 2383 (anno 1287) – f. 8.
Il
secolo XIII è un momento particolarmente fecondo per la Puglia, dove, con
Federico II, si è spostato il centro di gravità del regno di Sicilia, così da
permettere a questa regione di ricoprire il ruolo di primo piano, in ambito
culturale, fino a quel momento rivestito dalla zona calabro-sicula. Certamente
una figura di rilievo è Nicola d’Otranto, monaco e abate (dal 1219-1220)
Nettario di Casole; questi, in qualità di raccoglitore, lettore, annotatore di
libri, oltre che di
γραμματικός, rese il
monastero casolano uno dei più importanti ambienti idoneo a dare impulso e a
mantenere in vita una trasmissione di testi greci
Inoltre,
lo studioso elenca le caratteristiche principali di questo stile:
·
Abbreviazione dell’ –òn finale accentato in forma di segno “uguale” e
frequente tendenza all’allungamento dei due tratti paralleli che, in qualche
caso, finiscono per coprire la parola per intero.
·
Contrasto modulare tra lettere piccole e grandi, come avviene nel Fettaugenstil.
Generalmente, le lettere grandi sono il b maiuscolo,
il q
(il cui tratto
trasversale a metà dell’occhiello è spesso ornato al centro da un punto o da
un trattino), l’o, il f
maiuscolo.
·
Preferenza per l’a onciale la cui pancia, che si può presentare arrotondata o triangolare
o ancora appuntita come la punta di una lancia, si allunga
smisuratamente verso il basso. Inoltre, l’asta dell’a
tende
ugualmente ad allungarsi parallelamente al rigo di base.
·
L’ω è molto allungato, spesso sproporzionato, e collocato al di
sopra della lettera precedente quando si trova in posizione finale. L’w
allungato può
presentarsi anche con i due occhielli separati.
·
Legamenti di f minuscolo con le due lettere precedenti, in particolare quello con
l’a
onciale.
·
Legamento e-s, in cui l’e appare
come una specie di ovale (o anche di triangolo con i vertici arrotondati )
addossato al s.
·
Legamento di a con b maiuscolo
a occhielli separati.
·
Legamento di h, i e k minuscole con una lettera precedente, dove si nota
la tendenza a rialzare eccessivamente l’asta della seconda lettera.
·
Legamento r-o in forma di staffa.
·
Gruppo w allungato con s onciale aggiunto.
·
Lettere interamente o parzialmente riempite di vermiglio;
particolarmente interessate sono le lettere grosse di forma arrotondata (b,
q, f maiuscolo,
o).
La
“barocca” otrantina non è certamente l’unica tipologia grafica presente
durante tutto il XIII secolo nella Terra d’Otranto, ma è la più
caratteristica e, anche in presenza di altre scritture, permangono molte delle
sue particolarità, le stesse che, sopravvivendo fino a tutta l’età
medievale, permetteranno l’identificazione di molti codici come otrantini.
Nei
primi cinquant’anni del secolo successivo si nota una tendenza a riutilizzare
forme di lettere più quadrate, e ciò si verifica in particolare nei
manoscritti liturgici.
Dopo
la seconda metà del secolo XV, specialmente dopo la distruzione di Otranto da
parte dei Turchi nel 1480, molti copisti greci salentini lasciano la loro terra
per andare a svolgere in altri luoghi la loro attività; alcuni cercheranno di
“pulire” il loro stile da quanto appariva loro come arcaico e provinciale,
senza però riuscirci del tutto. I copisti che, invece, sono rimasti nella loro
regione hanno conservato il loro stile tipico.
8 Devreesse R., Les manuscrits
grecs de l’Italie méridionale (histoire, classement, paléographie),
p. 34.
9 Cavallo G., Le problème du
style d’écriture dit «en as de pique» dans les manuscrits italo-grecs,
pp. 53-69.
10 Riportato, ad esempio, nel Messinese S. Salv. 115. Il monastero di S. Salvatore è fondato a Messina nel 1133 da Bartolomeo di Simeri
11 Si ricordi il cod. C III 17 di Torino vergato nel 1173, il manoscritto più antico in cui è riportato il τυπικòν di questo monastero pugliese.
12 Lucà
S., Scrittura e produzione libraria a Rossano tra la fine del sec.
XI e l’inizio del sec. XII,
p. 120.
17 Canart
P. – Leroy J.
, Les manuscrits en style de Reggio. Etude paléographique et
codicologique, pp. 243-244, 247-248.
18 Lucà
S., Scrittura e produzione libraria a Rossano tra la fine del sec.
XI e l’inizio del sec. XII,
p. 128.
21 Jacob prende in considerazione questa ipotesi sulla base di un codice, il Vat. gr. 2026, da lui ritenuto un bell’esempio di tale stile e appartenuto un tempo al monastero di S.Elia in Lucania.
©2007 Annangela Germano