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Bari, chiesa rupestre di Santa Candida.
Il fenomeno delle chiese e dei nuclei insediativi
rupestri in Puglia, risalente ai secoli della dominazione bizantina (IX-XII
secolo), è stato per molti anni ignorato o relegato a fenomeno marginale
rispetto alla testimonianza storico-artistica delle chiese romaniche e dei
castelli con i quali viene identificata l’immagine turistica della regione. In
realtà anche il fenomeno dell’habitat rupestre appartiene di diritto al
patrimonio storico-artistico della Puglia poiché ne raccoglie gli aspetti
artistici ma anche storici della regione inerenti la vita materiale, gli aspetti
linguistici, l’aspetto devozionale delle comunità rurali e soprattutto pone
in rilievo il ruolo centrale svolto dalla regione nel medioevo, in relazione ai
rapporti tra Oriente e Occidente.
I santuari rupestri pugliesi sono stati ritenuti spesso
fondati da monaci basiliani, cioè seguaci della regola ascetica di san Basilio
(che in realtà non fondò mai un ordine) che, fuggendo dalla Cappadocia a causa
delle persecuzioni iconoclaste dell’VIII e del IX secolo, si sarebbero
rifugiati in Italia meridionale dando vita ai primi insediamenti subrupe cioè scavati nella roccia. I documenti, in realtà, non
confermano questa ipotesi pur affermando comunque la presenza nel territorio
pugliese e lucano di comunità greche e italo-greche, armene e orientali, a
carattere cenobitico o eremitico, che facevano riferimento a monasteri di cui
oggi si conservano solo pochi ruderi, o di cui si è persa totalmente la
memoria.
La politica bizantina, tra X e XI, secolo mirava alla
riorganizzazione e allo sfruttamento del territorio incolto finalizzato ad
aumentarne le potenzialità produttive: gli olivi, i vigneti, il grano e i
frutteti rappresentavano la risorsa primaria dell’economia pugliese che veniva
favorita attraverso la parcellizzazione delle proprietà terriere in cui i
coloni risultavano quasi liberi da imposizioni. Il territorio era così
suddiviso in chorìa, cioè unità insediative stabili, veri e propri villaggi
rurali popolati da nuclei famigliari di diversa origine etnica e di fede
differente.
Le caratteristiche geomorfologiche della Puglia
agevolarono la diffusione dell’edilizia rupestre in quanto permisero alla
popolazione locale di sfruttare la roccia per sopperire alle necessità
abitative e per soddisfare le esigenze legate al culto religioso. Il fenomeno
degli insediamenti rupestri interessa territori quali la Puglia e la Basilicata
anche se assume caratteri differenti in base alle caratteristiche geologiche e
alle diverse tradizioni di scavo. È bene distinguere il termine “rupestre”
dal termine “ipogeo”, spesso usati impropriamente: con il termine
“rupestre” si indica lo scavo realizzato utilizzando una parete in rupe
offerta dalla particolare natura del suolo come lame e gravine mentre per
“ipogeo” si intende lo scavo verticale verso il basso, effettuato
dall’uomo, al fine di ricavare un vano o più vani comunicanti, raccordati con
il livello di campagna da una rampa. Quest’ultima soluzione veniva adoperata
nelle zone pianeggianti, quando cioè la morfologia del territorio non offriva
naturalmente fianchi di roccia da scavare.
In Puglia il territorio carsico, ricco di gravine,
permise la costruzione, o meglio l’escavazione, di molti villaggi rurali che
sorsero dalla roccia, lungo le gravine, le lame, vicino ai corsi d’acqua e nei
pressi delle vie di comunicazione più importanti. All’interno del villaggio
rupestre, considerata vera e propria cellula economico-produttiva, la presenza
di una chiesa contribuiva all’identificazione religiosa di una comunità,
quindi il fenomeno delle chiese “scavate” non è isolato ma è da
considerarsi come parte integrante del fenomeno della riorganizzazione
territoriale voluta dai dominatori bizantini tra IX e XI secolo.
Le chiese, soggette all’autorità del vescovo più
vicino, dovevano essere prima da lui consacrate e poi fornite di una charta libertatis per l’espletamento del culto e potevano divenire
oggetto di compravendita, affidamento o lascito ereditario. Disposti a poca
distanza dalle vie di comunicazione più importanti quali la via Appia (versoTaranto)
e la via Traiana (verso Brindisi) i villaggi rurali presentano quasi sempre la
chiesa ubicata in periferia rispetto all’abitato, il motivo non è chiaro
forse per dividere un luogo di culto dallo spazio lavorativo o perché costruite
in epoche successive. Tutte le province pugliesi risultano interessate al
fenomeno rupestre mentre in Basilicata la zona di Matera è l’esempio più
noto di insediamento protrattosi fino agli anni ‘50 del secolo scorso.
Matera chiesa rupestre di Sant'Eustachio.
Il promontorio del Gargano, a partire dal IX-X secolo
divenne meta di comunità benedettine, giunte da Montecassino e dal ducato di
Benevento attraverso la “via sacra Longobardorum” (che univa Benevento a
Siponto), che si insediarono in quella zona. Successivamente, a partire dal X
secolo, in concomitanza con la dominazione bizantina e la politica di
grecizzazione del territorio, si stabilirono sul promontorio garganico delle
comunità monastiche greche che avevano come punto di riferimento il monastero
di San Giovanni in Lamis, oggi San Matteo, dando vita ad una coesistenza
pacifica di riti, culture e religioni diverse. I santuari e le chiese scavate
nella roccia sono innumerevoli, tra tutti ricordiamo la grotta di San Michele di
Monte Sant’Angelo, meta di pellegrinaggi che dal medioevo continua fino ad
oggi.
La provincia di Bari conta oltre quaranta siti, fra villaggi e chiese,
di interesse rupestre anche se oggi sono quasi tutti non visitabili, abbandonati
al degrado e all’incuria cittadina. I siti di importanza storico-artistica
eccezionale sono una decina solo nella zona di Bari, e sono prevalentemente
villaggi e chiese rupestri scavati sui fianchi delle lame. Tra questi siti
citiamo i più importanti: Santa Candida scavata sulle sponde del torrente Picone, risalente all’VIII-XII
secolo, la chiesa di via Martinez (coeva a Santa Candida), la cripta funeraria
di via Omodeo, il villaggio medievale di Torre Rossa, il trappeto Dottula e Lama
Balice.
Le lame, disseminate in modo ortogonale al mare
Adriatico, caratterizzano il litorale che va da Trani a Brindisi dove sorgono,
lungo la via Traiana (segmento pugliese della via Francigena) le chiese rupestri
più importanti come Santi Andrea e Procopio a Monopoli (una chiesa
“doppia”), lama d’Antico a Fasano (conserva, se pur in stato di degrado,
uno dei cicli pittorici più interessanti), San Biagio a San Vito dei Normanni
(con ciclo di pitture “firmato” dagli artisti Daniele e Martino) e Santa
Lucia a Brindisi.
Le chiese rupestri della zona di Altamura e Gravina
sorgono lungo le forre (fossati ripidi e scoscesi prodotti dall'erosione delle
acque), a cui appartiene anche Matera, e nei pressi della via Appia, strada che
metteva in comunicazione questi insediamenti con il Gargano. Ad Altamura infatti
è possibile visitare diverse chiese che hanno in comune la devozione per San
Michele Arcangelo tra cui San Michele “delle grotte” scavata a imitazione
della grotta di Monte Sant’Angelo e di cui conserva l’acqua miracolosa in un
pozzo, e la grotta di San Michele, nella masseria Iesce, scavata lungo la via
Appia. Di notevole impatto è il baratro di Gravina (detto di Botromagno) che
conserva le chiese rupestri più interessanti come la cripta di San Vito vecchio
(ricostruita nel museo Pomarici Santomasi), i cui affreschi uniscono la
raffigurazione dei santi orientali come Basilio, Cirillo, Nicola, Andrea,
Onofrio con quelli occidentali legati ai pellegrinaggi in Terra Santa come
Margherita, Giorgio, Giacomo ecc.
Il Salento, la terra maggiormente grecizzata in Puglia,
deve la sua importanza storica al ruolo di Otranto, già al centro dei
combattimenti della guerra greco-gotica, che nel 968 divenne “metropolia”
ovvero sede del metropolita, cioè il vescovo dipendente direttamente dal
Patriarca di Costantinopoli. In concomitanza con questa elezione fu costruita
una delle chiese più importanti del Salento, la chiesa di San Pietro,
dall’impianto originale greco (a croce inscritta in un quadrato coperta da
cupole) il cui modello di riferimento era la chiesa fatta costruire da Basilio I
nell’880 nel Sacro Palazzo di Costantinopoli. Gli affreschi, datati fra X e
XII secolo, ed eseguiti forse da un pittore di provenienza orientale, presentano
un ciclo iconografico complesso: scene dell’Antico e del Nuovo Testamento e
della Vita di Cristo. Nelle chiese rurali della provincia salentina, non furono
riproposti i modelli iconografici di San Pietro. È possibile affermare,
infatti, che nel Salento circolassero due tendenze artistiche principali, una
caratterizzata da una committenza più colta praticata nei monasteri e
influenzata dai modelli orientali, e un’altra più tradizionale e di gusto
popolare.
Le chiese rupestri per la ricercatezza architettonica e
per le decorazione pittoriche si presentano complesse e di alta qualità
artistica; le planimetrie e le decorazioni delle chiese “scavate”
riproducono fedelmente le piante delle chiese “costruite”. Nella fase dello
scavo vengono così accuratamente scolpite nella roccia colonne, capitelli,
paraste, finte trabeazioni e decorazioni dei soffitti che imitano delle finte
cupolette. La differenza rispetto alle chiese costruite consiste nella pura
funzione decorativa e pratica degli elementi architettonici e delle strutture:
l’architettura “in negativo”, che procede per sottrazione di materiale,
permette una maggiore libertà espressiva in quanto non vincolata da problemi di
statica e di scarico delle coperture. Gli schemi classici delle chiese
“costruite” ad aula unica, con o senza abside circolare, o a pianta
basilicale di impianto latino, vengono ripresi ed adattati all’ambiente ipogeo
o rupestre, prendendo spesso la caratteristica forma a ventaglio, espediente
utilizzato per sfruttare al meglio l’illuminazione esterna.
Nell’insediamento in gravina, caratterizzato da
escavazioni su vari livelli, la chiesa è posta alla sommità, nel pianoro
superiore, non sormontata da altre strutture. Vicino alla chiesa talora c’è
l’abitazione del prete o del custode, che in alcuni casi è costituita da più
vani, collegata solo esternamente al luogo di culto. Davanti e accanto alla
chiesa c’è l’area cemeteriale con tombe a fossa scavate nel masso tufaceo o
sul bancone roccioso soprastante.
Come veniva costruita una chiesa subrupe?
Dopo la scelta del sito adatto per lo scavo, si passava
alla ripulitura dell’area per portare a nudo la roccia. Un’incisione guida
sulla roccia, approfondita, dava origine all’ingresso della chiesa; dopo aver
scavato in profondità fino a creare un vano, si passava a rifinire prima le
pareti laterali, poi quelle di fondo e infine il pavimento. La pianta iniziale,
di solito quadrangolare, veniva ampliata seguendo la morfologia della roccia:
dopo aver scavato l’aula iniziale si passava a scavare altri vani lasciando
tra uno spazio e l’altro un tramezzo litico che veniva poi modellato in
elementi architettonici sul modello delle chiese costruite (archi, arcate
cieche, ghiere, pilastri ecc.).
L’architettura rupestre procede quindi per svuotamento
e crea gli elementi del corredo liturgico con la pietra stessa. Le planimetrie
sono formate da moduli, solitamente quadrangolari, che ripetuti o moltiplicati
formano piante complesse. A questo modulo base si aggiungono le nicchie e
l’abside, o più absidi come accade nelle chiese più complesse (vedi Santa
Candida). Il lavoro effettivo di esportazione dei blocchi rettangolari era
effettuato e diretto dal magister,
invece l’opera di rifinitura era affidata al lapicida che probabilmente lavorava anche nelle chiese costruite.
L’ingresso, solitamente con architrave sormontato da
lunetta con una o più ghiere, ha una funzione importantissima poiché veicola
la luce all’interno della grotta, e per questo è collocata in posizione
laterale o centrale rispetto al vano principale.
Essendo l’ingresso l’unica fonte di luce dello spazio interno, le zone
absidali risultano gli spazi meno illuminati e per questo più riccamente
decorate. All’interno di alcune chiese pugliesi l’illuminazione, tramite
lanterne, è documentata dalla presenza sul soffitto di anelli di aggancio delle
lanterne stesse.
I cicli pittorici affrescati all’interno delle chiese
rupestri pugliesi, anche se giunti in modo parziale, ad un’attenta lettura
iconografica, risultano essere molto interessanti.
È bene ricordare che la presenza di tombe sia all’interno che all’esterno
delle chiese e le iscrizioni confermano la funzione e la fruizione a carattere
privato di queste strutture. Infatti sono prima di tutto delle chiese funerarie
e i cicli pittorici che decorano l’interno delle chiese documentano la
committenza laica e di esponenti del basso clero degli affreschi.
Si nota la quasi totale assenza di cicli cristologici
completi, di solito nelle absidi è presente la dèesis,
cioè la preghiera che la Vergine e san Giovanni Battista rivolgono a Cristo Pantocrator
(Cristo Onnipotente rappresentato in trono) per la salvezza dell’umanità;
compare talora l’Annunciazione ma nella maggior parte dei casi (fa eccezione
la chiesa di Otranto di San Pietro) è la rappresentazione dei santi, la cui
iconografia è bizantina, a rivestire le pareti delle navate. Frequente è
l’immagine della Vergine con il Bambino, intermediatrice privilegiata tra gli
uomini e Dio, il cui modello di riferimento era la Madonna di Costantinopoli,
che nella tradizione leggendaria si riteneva essere stata dipinta da San Luca, e
di cui le tante icone presenti in Puglia ne sono un’ulteriore testimonianza.
In queste successioni dipinte i santi vengono raffigurati
con i segni iconografici che li contraddistinguono e con pettinature, a volte
molto elaborate, e abiti tempestati di perline e pietre preziose di fattura
orientale. I santi maggiormente rappresentati sono quelli taumaturghi come
Nicola, Cosma e Damiano, Biagio, Giacomo e Andrea che vengono raffigurati con
gli abiti inerenti la funzione da loro svolta all’interno della Chiesa. San
Nicola, per esempio, è sempre vestito da vescovo, con tunica, mantello (phailònion)
e stola (omophòrion), raffigurato
nell’atto di benedire alla greca. Seguono i santi militari come Giorgio,
Teodoro, Demetrio, Procopio armati di corazze, lance, scudi e stendardi; gli
asceti caratterizzati dagli abiti poveri, simbolo di scelta di povertà e le
sante vergini come Margherita, Marina, Teodosia ecc., vestite della tunica, del
mantello e del velo (maphòrion).
Il santo svolge una funzione di intermediazione tra Dio e
gli uomini, e il buon esito alle richieste dei fedeli dipende anche dalla
costanza con cui vengono dedicati loro onore e celebrazioni liturgiche. Gli
affreschi non presentano strati di intonaci spessi, in alcuni casi si tratta di
dipinti realizzati a crudo sulla roccia, e i colori ricorrenti sono l’ocra, il
verde, l’azzurro, il bianco e il giallo. Accanto ai santi vengono dipinti i
nomi dei santi tramite iscrizioni in greco o in latino, e in alcuni casi anche
dediche o commenti suggeriti dai committenti dell’opera.
I cicli pittorici appaiono comunque meno aggiornati
rispetto alle descrizioni delle chiese subdiali, come se i villaggi rurali conservassero più a lungo il
legame con la tradizione bizantina e la cultura orientale, rispetto alle città
più propense ad assecondare i nuovi dominatori (normanni e successivamente gli
angioini). Nel XIV secolo, in piena epoca angioina, continua a prevalere la
decorazione tradizionale bizantina anche se raramente le immagini sono
accompagnate da iscrizioni in greco. Si registra un altro fenomeno: i santi
occidentali come Francesco, Benedetto e Leonardo entrano a far parte dei cicli
pittorici, da cui erano stati esclusi fino a quel momento, e lentamente vanno a
sostituire i veneratissimi santi orientali.
©2006 Stefania Sivo.