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di
FRANCO
CARDINI
Il boom del Medioevo, dei Misteri e dell’Egitto. E ora il grande successo del Sacro Calice che si confonde nel calderone della New
Age. Come distinguere il mito dal gadget
Ha perfettamente ragione Luciano Canfora che qualche settimana fa [marzo 1998], sul Corriere della Sera, denunziava il conformismo e la semicultura degli italioti che, purtroppo, talvolta comprano libri. Prendiamo il boom-Egitto, il fenomeno aperto dal "successo annunziato" dei romanzi di Christian Jacq dedicati a Ramses. Il caso Ramses è stato quasi costruito a freddo, un po' in tutta Europa e in particolare in Italia: alla Mondadori di Segrate le mummie di cartapesta destinate a reclamizzare il bestseller ancor prima ch'esso fosse tale erano pronte con mesi d'anticipo e l'editore aveva già impegnato distributori e librai a far sì che il successo fosse tale. Dietro Ramses, sono arrivate valanghe di Nefertiti, di Akenathon e di Cleopatre: tutti saltati sull'autobus del successo dei libri di Jacq, e qualcosa hanno rosicchiato anche loro.
Straordinario successo, di conseguenza, dei gadget fintoegizi,
delle mostre dedicate a quell'antica civiltà e – terrorismo permettendolo –
anche dei viaggi turistici nella terra delle piramidi. Intanto però – rifletteva indignato Canfora –
non si registra alcun incremento d'ingressi al
Museo Egizio di Torino, uno dei più importanti del mondo. Il successo
dell'antico Egitto si ferma al pigro leggiucchiamento degli ultimi best-seller,
all'ossequio beota alla parola d'ordine lanciata dai padroni del vapore
massmediale. Il vero dramma dell'ignoranza, nel nostro Paese, non sta in chi non
compra i libri e in chi non legge: sta nell'irrecuperabile ignoranza dei
semicolti
che leggono qualcosa, ma che non sanno né scegliere né giudicare e si fanno
guidare dalla moda e dalla pubblicità.
La stessa cosa avviene, più o meno, per un altro argomento cult: il Graal. Stanno attualmente furoreggiando in libreria due libri che si annunziano entrambi come primi d'una sequenza seriale, alla Christian Jacq appunto. Il re d'inverno di Bernard Cornwell è il primo volume de Il romanzo di Excalibur (Mondadori): gli ingredienti di questo ennesimo illeggibile polpettone sono i soliti del genere: un po' di finto medioevo, un po' d'imitazione del vecchio Tolkien, un po' del cocktail eros-avventura-magia. Libri come questi, con qualche variabile, si possono, scrivere in serie: sono come i cartoons al computer. Venderanno? Pare di sì: i fan del genere sono molti.
Colui che sarà re è invece il titolo del primo volume della serie
Il mistero del Graal di Jean Markale (Sonzogno). E qui il discorso è diverso. Markale è un celtista-esoterista bretone, apprezzato dai simpatizzanti dei movimenti indipendentisti del suo Paese: un uomo di molta erudizione e non privo di cultura, che da decenni scrive di cose celtiche e medievali ma la sua fama da poco, tuttavia, comincia a filtrare al di qua dei confini francesi. Quel che ci sta proponendo è una riscrittura moderna d'un grande ciclo romanzesco del XIII secolo, la cosiddetta
vulgata, meglio nota come Lancelot-Graal: soporifero testo franco-settentrionale, sorta di
Beautiful medievale che ha conosciuto volgarizzamenti un po' in tutti gli idiomi euroccidentali a partire dal Trecento. Qui, almeno, i nomi e i fatti sono più o meno quelli noti nella tradizione medievale e qualche sobria nota orienta il lettore meno svogliato. Ma la manovra editoriale è evidente. Si vuole sfruttare la moda del Graal, uno degli oggetti più caratteristici e dei miti più distorti di tutta la
trash-culture confluita nella New Age.
La
mistificazione su questo tema è ormai giunta a livelli di confusione e di kitsch
seriamente intollerabili. Per questo Massimo Introvigne, Marina Montesano
e il sottoscritto hanno proposto un libro, Il Santo Graal (Giunti, pp.
182) nel quale il tema è disincantato e ricondotto ai suoi termini
storicofilologici, mentre si smascherano (precisando nomi, date e fatti) le
molte sette e semisette occultistiche le quali da parecchi decenni guadagnano
soldi e credito sfruttando la fama dei semicolti e spacciando il mistero dove
non c'è. Mentre – al contrario – non esitano a profanare e ad inquinare quei
miti nei quali vive e pulsa ancora, attraverso testi autentici che nulla a che
fare hanno con le manipolazioni moderne, un'autentica sacralità.
Circa vent'anni fa, quando – con l'alibi del realismo caro a chi proclamava "beati i popoli che non hanno bisogno d'eroi" – si cercava di far tacere qualunque progetto culturale alternativo, la heroic fantasy era un antidoto prezioso. Ma oggi, la routine pseudofantastica prodotta in serie da ghost-writers informatizzati intasa biblioteche e siti internet col suo ripetitivo cattivo gusto, con la sua monotona mancanza di vera cultura e di autentica sensibilità per miti e simboli. C'è oggi troppa gente – soprattutto giovani – che si sta facendo drogare da queste banali e cattive fiabe mal concepite e mal scritte: questa corsa alla fuga in universi paralleli fantastici somiglia molto alla nascente industria della "realtà virtuale". La gente si lascia proletarizzare culturalmente da pessimi libri e pessimi war games così come si sta lasciando proletarizzare a livello socioeconomico dai meccanismi della globalizzazione: si ritira dalla lotta e sogna. I suoi sogni, però, sono incubi maldestri.
Ma
che cos'è, allora, il Graal? Un mistero? Un segreto? Un enigma? Certo, ci sono
più misteri in cielo e in terra di quanti non creda la nostra filosofia. Ma
entro certi limiti e fino a un certo punto essi sono tutti circoscrivibili,
comprensibili, risolvibili. E amare e rispettare il mistero del Graal non ci
esime dal saperne il moltissimo ch'è noto né ci autorizza a seminar segreti
dove, invece, tutto è chiaro.
La
parola graal è misteriosa ma non troppo. Negli idiomi di tipo celtico
termini affini rinviano a normali suppellettili da tavola, sorta di grossi e
profondi piatti di portata o di grandi coppe. La "grolla" valdostana
è parente lessicalmente stretta del graal; e il greco krater gli è almeno affine. Nel
penultimo decennio del XII secolo, mentre i re d'Inghilterra stavano
incoraggiando
l'elaborazione delle leggende arturiane (una gloria locale da contrapporre a
quel Carlo Magno patrimonio dell'impero romano-germanico e del regno di
Francia), un poeta di corte della contessa di Champagne, Chrétien di Troyes,
redasse un romanzo in versi, il Perceval, in cui si narrava l'educazione iniziatico-cavalleresca
d'un giovane selvaggio gallese. La scena-madre di quel romanzo era la
"processione del graal"
nel castello del misterioso Re Pescatore. In quel contesto figurava non il Graal, bensì un graal: un
recipiente qualsiasi, ma d'oro puro tempestato di gemme e di arcano splendore.
Si sarebbe poi saputo che all'interno di quel graal c'era un'ostia, che
bastava a nutrire il signore del castello affetto da un'inquietante
malattia.
Nei
secoli XII-XIII la Chiesa latina, insidiata dall'eresia catara che condannava
come malvagie la creazione e la materia, stava sviluppando una robusta teologia
eucaristica e incoraggiando una forte devozione al mistero dell'altare. In
effetti, lungo tutto il medioevo, quello che da Chrétien in poi venne
considerato il Graal per eccellenza si collegò all'eucarestia: e quindi
l'oggetto fu considerato ora il piatto nel quale Gesù aveva mangiato
l'agnello pasquale, ora la coppa nella quale durante l'Ultima Cena avrebbe
consacrato il vino e che poi – secondo una leggenda posteriore, esemplificata su
quella del legno della croce – sarebbe servita per raccogliere il sangue delle
sue ferite durante la passione. Si sviluppò fra XIII e XV secolo una
letteratura ciclica attorno al Graal: molti romanzieri continuarono
l'opera di Chrétien, ch'era stata lasciata incompiuta, e aggiunsero una
pluralità di episodi e di particolari al
suo racconto collegando strettamente l'oggetto misterioso sia alla soap story
dei
Ai
primi del Duecento un poeta tedesco meridionale, Wolfram von Eschenbach,
introdusse nel suo Parzival una variabile importante: il Graal aveva
poco a che fare con il mondo celtico in cui l'aveva inserito Chrétien, era
piuttosto qualcosa che veniva dall'Oriente (il che era congruo al suo rapporto
col racconto evangelico) e il suo aspetto non era più quello d'una coppa bensì
quello d'una pietra.
Col
tempo si andò diffondendo e divulgando un racconto-fiume anonimo, la cosiddetta
vulgata, conosciuta anche come Lancelot-Graal,
che cercava di fondere tutte queste leggende. È a questo testo
duecentesco che Markale si è rifatto, ritrascrivendolo in linguaggio moderno.
Oggi appare abbastanza sicuro che Chrétien e molti dei suoi continuatori,
scrivendo del Graal, si rifacessero a una tradizione orale celtica tanto
peninsulare
(viva in Bretagna) quanto insulare (conosciuta in Galles e in Cornovaglia, con
riscontri irlandesi e scozzesi): cioè a una serie di narrazioni a carattere
tanto mitico quanto storico che narravano ora le avventure di un oggetto magico
(una versione del "recipiente dell’abbondanza" presente in molte
mitologie indoeuropee dall’India vedica ai mondi germanico e scitico: la
cornucopia elleno-romana ne è una variante), ora un complesso di miti relativi
alla morte e alla rinascita stagionale della natura e ai rapporti tra vivi e
defunti, ora la memoria di vicende accadute soprattutto tra il V e il VI secolo,
quindi negli anni cruciali della fine dell'impero romano e dell’arrivo dei
germani angli e sassoni nelle terre secolarmente abitate dalle tribù celtiche.
Ma il medioevo europeo, che si era impadronito della leggenda del Graal,
era molto lontano dal mantenere coscienza di queste profonde
scaturigini antropologiche di essa: e ne conservò solo il più evidente e
semplice tratto eucaristico.
Con
la fine del Quattrocento, l'interesse per il Graal scomparve
repentinamente.
Il
Graal riemerse alla fine del Settecento, insieme con la voga
neoceltistica che, con quella neogermanica, fu una delle scaturigini
fondamentali del Romanticismo. Friedrich Schlegel si occupò della leggenda di
Merlino, che si era andata nel Duecento intrecciando con quella graalica; Walter
Scott e quindi Alfred Tennyson rilessero le storie del Graal; e infine Richard Wagner, che le aveva lette in versioni
moderne nel poema di Wolfram von Eschenbach, le ripropose nel Lohengrin e
nel Parsifal attraverso il lungo percorso artistico che avrebbe accompagnato
l’intera seconda parte della sua vita, dal 1845 al 1882.
Scott,
Tennyson e Wagner furono gli ispiratori dei pittori preraffaelliti, grandi
illustratori del Ciclo del Graal tra
gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso. Ma Wagner aveva fuso gli
elementi germanici, cristiani e arabo-persiani che trovava nel testo di Wolfram
(dal quale l'atmosfera celtica era scomparsa) con le sue istanze
filosofico-esistenziali schopenhauerianamente filobuddhiste: da allora in poi, il Graal sarebbe
entrato come ingrediente primario a far parte della panoplia di oggettimito
e oggetti-simbolo cari all'elaborazione esoterica e occultistica europea che dal
Sette-Ottocento a oggi conosce una serie infinita di variabili imparentate
anche se spesso fieramente avverse l'una all'altra. E difatti noto, per quanto
non conosciuto in modo sufficientemente chiaro, che l'esoterismo – nato dalla
cultura ermetica rinascimentale e sviluppatosi al contatto con l'elaborazione
rosacrucianomassonica tra XVII e XIX secolo – si è sviluppato in un ramo
laicistico-occultistico, uno cattolico-tradizionalista, uno neopagano, uno
antroposofico. Dalla Francia del Secondo Impero e della Terza Repubblica
all'Inghilterra
di Houston S. Chamberlain, all’America delle molte organizzazioni "rosacruciane"
o "templari", alla Spagna modernista, alla Provenza
"neocatara", alla Germania dei circoli rotanti attorno a Elisabeth
Foerster-Nietzsche e alla famiglia Wagner, è complesso e intricato ma non
arduo tracciare una mappa di temi e di testi che giunge fino a Guénon, a Evola,
a Steiner, al "santuario graalico" di Rennesle Chateau, mentre per
altri versi affronta con Otto Rahn gli anfratti pirenaici, lambisce le
spiagge dell'iniziazione "tantrica" di Aleister Crowley o sfiora i
lidi para-antropologici di Jesse Weston.
Su
questa strada, si giunge a traguardi talvolta drammatici: come alle vicende
dell'Ordo Templi Orientis di Luc Jouret, conclusesi come sappiamo con una catena
di suicidi-omicidi protagonisti della quale però erano tutt'altro che mistici o
intellettuali déracinés,
come troppo spesso se ne incontrano negli ambienti che coltivano
certi tipi di letture e d'interessi.
Il
Graal – come tanta parte della New Age – fa presa su questo
proletariato culturale cui la società mondialista e consumistica ha tagliato
ogni radice d'identità e ha negato ogni serio orientamento ecclesiale e
tradizionale. Oggi ci si trova sempre più spesso dinanzi a manager e a uomini
di potere e di successo che sono spiritualmente e culturalmente degli
analfabeti. Ma questa società, in cui i figli si parcheggiano davanti alla
Tv e si portano in processione nei supermarket senza letteralmente insegnar
loro nemmeno le parole dell'Ave
Maria, è destinata a produrre sempre più mostriciattoli del
genere. Venti anni fa, i più disperati figli del Nulla si davano al terrorismo;
oggi si lasciano affascinare magari dalle filosofie finto-mistiche o
finto-orientali o approdano a un satanismo non meno da baraccone. Purtroppo,
anche molti nuovi adepti del "mistero Graal"
appartengono a queste supernutrite ed extraccessoriate schiere
di occidentali che brancolano cercando qualcosa, ma senza saper né che cosa
cercano, né come cercarlo.
©2004 Franco Cardini, da «Lo Stato» del 24 marzo 1998, qui ripubblicato con il consenso dell'autore.