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di VICTOR RIVERA MAGOS

«Muscatus dedit in his duabus
columni CC ducale. Q. as legit oret 
P. eo: A. MCLIII M AG. G. PRM. 
Ado capta e SCALONA

 

Alcuni anni fa Raffaele Licinio intitolava un suo intervento su economia e società nel Regno durante le crociate con la efficace sintesi La Terrasanta nel Mezzogiorno. Quel lavoro inquadrava al meglio la reale situazione del Regno di Sicilia a cavallo tra XI e XIII secolo, terra di frontiera con la Terrasanta. Sottolineava tuttavia come oggi, dopo diversi anni di dibattito sul tema delle Crociate (e non solo), la situazione dei dati acquisiti debba essere ripresa in mano e rivisitata alla luce delle nuove tendenze storiografiche. In sostanza la convinzione di un Regno considerato unicamente come porto di carico e scarico di uomini e merci e succube del colonialismo delle grandi città mercantili del nord Italia deve essere ripresa in mano più coscientemente, a cominciare da quel concetto tutto racchiuso nel termine colonialismo, ancora troppo spesso interpretato nel modo in cui George Yver lo comprese nel 1903 e non ancora come dialettica composita di valori e interessi riconducibili ad un’unica per quanto articolata civiltà, secondo la efficace sintesi di Licinio.

In questo quadro appare utile cominciare il discorso sul complesso economico e sociale della città di Barletta tra XI e XIV secolo proprio con quelle parole fatte scolpire sull’ultima colonna a sinistra nella Chiesa di Santa Maria Maggiore dall’ignoto Moscato di ritorno dalla battaglia per la presa di Ascalona (19 agosto 1153) in Palestina. Quella colonna non soltanto ci apre ad un universo mitizzato e oggi attualissimo quale quello crociato, ma ci consente di inquadrare perfettamente quali fossero le caratteristiche economiche della città di Barletta – nonostante il termine città sia azzardato per la Barletta della fine dell’XI e l’inizio del XII secolo – e su cosa stesse crescendo. Ancora nella Canzone di Antiochia, rifacimento poetico delle gesta dei franchi durante la prima crociata e databile, nella sua forma scritta, al 1180, il proemio recita:

«Or di Gerusalemme sentirete parlare
e di quelli che andarono a onorare il Sepolcro
e come da ogni dove riunirono le armate.
Di Francia, dal Berry e anche dall’Alvernia,
di Puglia e di Calabria sino al mar di Barletta
e di qua fino in Gallia convocaron le genti
e da tante altre terre che non so nominare:
di un tal pellegrinaggio mai si sentì parlare».

Dunque è il mare il primo elemento di riconoscibilità della città all’inizio della sua storia reale. E con il mare, evidentemente, il porto, forse già esistente da diverso tempo ma ora, all’alba del nuovo millennio, primo motore e caratteristica nota agli occhi dei naviganti che lungo le sponde dell’Adriatico si muovono verso il Mediterraneo aperto. Del porto il cronista Guglielmo di Puglia, nel descrivere la fortificazione della città voluta dal conte normanno Pietrone durante l’assedio di Trani del 1046, non fa menzione. Tuttavia sembra improbabile che una tale disposizione prescindesse dalla effettiva esistenza di un porto di imbarco sul litorale barlettano già in quegli anni. Barletta in sostanza, all’inizio del secolo XI, si struttura come piccolo centro a carattere portuale come molti altri della costa pugliese adriatica, e comincia rapidamente a ospitare e a far partire dapprima i pellegrini che si muovono lungo gli itinerari della francigena dalla grotta di San Michele verso i luoghi santi; e successivamente ed ormai affermatasi, offre le strutture adeguate anche alla partenza degli eserciti crociati, insieme a Trani e Brindisi.

Agli sgoccioli dell’era normanna Tancredi concede alla città lo stato di demanialità (1190), consentendole da quel momento di crescere anche istituzionalmente. Quel documento ci offre tuttavia un chiaro spaccato della strutturazione economica cittadina all’alba dell’era federiciana quando, tra le altre concessioni, il sovrano conferma un’antica consuetudine che consentiva il diritto di ospizio da parte dei barlettani a favore dei pellegrini non solo nelle strutture ecclesiastiche e negli Ospedali cittadini, ma anche nelle case private. Dunque i barlettani sfruttavano il mare sia come risorsa di sussistenza alimentare – non ancora a livello commerciale – che come momento di collegamento con le diverse umanità che utilizzavano il suo porto.

Cosa sia avvenuto tra XI e XII secolo è una matassa difficile da dipanare, nonostante gli indizi e i documenti pervenutici possano consentirci un’analisi serena della situazione. Sappiamo dunque che alla nascita del nuovo millennio la città dovette essere ancora poco più che un concetto, essendo più probabilmente Barletta un grosso borgo gravitante attorno al porto ed alla sua Chiesa Madre, i cui resti sono venuti fuori durante la campagna di scavo della metà degli anni Novanta. In sostanza dunque il porto e quella chiesetta poco rappresentativa e di scarso valore architettonico che è stata datata al IX secolo e che sostituì la più grande basilica paleocristiana del VI secolo, erano l’identità attorno alle quali si andò formando il concetto di città.

Attorno a questi dati ne vanno tuttavia analizzati altri, a cominciare dalla fondazione della chiesa di San Giacomo attorno alla quale si sviluppò un borgo extrameniale che, dalla fine del secolo XI, ci offre un’altra caratteristica della società cittadina, forse con forti connotazioni agricole ma parimenti legata al traffico dei pellegrini lungo la via salapia, attorno alla quale il borgo nuovo si addensa. E inoltre alla struttura viaria va collegata la fondazione e la crescita della chiesa del Santo Sepolcro e l’arrivo degli ordini cavallereschi, gradualmente attestati dalla metà del XII secolo, il cui inserimento fu inoltre sicuramente favorito dalla distruzione di Bari voluta da Guglielmo I il Malo nel 1156.

Dunque Barletta, al nascere del XIII secolo (che comincia probabilmente con la concessione del 1190), è chiaramente una città che deve la sua struttura urbana alle strade che la percorrono (la salapia da Monte Sant’angelo verso Bari e Brindisi e la vecchia traiana che da Canosa si congiunge alla prima),  ed è snodo fondamentale lungo i percorsi dei pellegrini e contemporaneamente porto di imbarco verso l’Oltremare.

La questione urbanistica, affrontata e probabilmente ormai chiarita dalla storiografia, non ci permette tuttavia di comprenderne a pieno altre: quelle cioè legate più direttamente agli aspetti economici, sociali e istituzionali che, insieme, consentirebbero di definire la reale natura dell’assetto cittadino, chiarendo contemporaneamente i motivi per i quali Barletta, nel giro di poco più di un secolo e mezzo e approfittando della decadenza o della scomparsa di alcuni centri circostanti (Canne, ma anche Canosa, Salpi e, più tardi, Siponto), giunse a detenere un primato nella zona compresa tra i confini della Terra di Bari e della Terra di Capitanata. È per molti versi quello che ha provato a proporre Giovanni Vitolo nel suo ultimo volume su Città e contado nel Mezzogiorno, ripreso ancora da Raffaele Licinio nel volume della collana regionale Laterza sulla Storia della Puglia, con una spiegazione strettamente connessa al culto del Vescovo Ruggero, che riprenderò in seguito. Un dato su tutti può essere di interesse in questo caso, e si ricollega direttamente alla ricca eredità di oggetti sacri di età medievale che Barletta ancora oggi conserva e che Giovanni Boraccesi analizza nella seconda parte di questo volume: quella eredità è sicuramente il frutto della diversa circolazione di uomini e cose che interessò il territorio barlettano tra XII e XIV secolo ma, nel contempo, è la chiara attestazione di una produzione artigianale propria di cui i documenti hanno lasciato traccia e che risulta, ai dati disponibili, la più ricca per quantità di artigiani dell’intera regione.

La domanda dunque sul perché la città godette di una tale vivacità durante i secoli centrali del Basso Medioevo necessita di una risposta che, in maniera sistematica, deve ancora arrivare. Oggi possiamo proporre alcune note e tentare di inquadrare il problema.

   

Società, economia e istituzioni

Nel 1190, in un periodo di forti contrasti tra i conti normanni ed Enrico VI, i quali si contendevano il trono del Regnum detenuto momentaneamente da Tancredi di Lecce (1189-1197), il sovrano concesse ad alcune città del Mezzogiorno lo status di demanialità: permetteva cioè loro di entrare a far parte del complesso sistema di beni soggetti direttamente alla corona e non infeudabili. Fu sostanzialmente un tentativo di accattivarsi i favori di alcune delle comunità più vivaci del Mezzogiorno della fine del XII secolo, in un periodo di grandi difficoltà per la corona. Barletta comincia la sua storia di città da quel momento.

Si è in precedenza accennato al carattere pellegrinale che il centro urbano assume durante tutto il XII secolo, divenendo tra i maggiori porti di imbarco verso la Terrasanta sulla costa pugliese. Ma il XII secolo segna alcuni importanti avvenimenti legati alla formazione urbana della città, che vede rapidamente l’addensarsi, lungo le strade dei pellegrini che costeggiano la zona di Santa Maria, di alcune importanti strutture religiose legate ai principali ordini monastici, canonicali e cavallereschi. La prima attestazione della chiesa di San Giacomo è del 1146 e, come si è detto, gradatamente attorno ad essa cresce un borgo che ancora oggi rappresenta forse una delle caratteristiche urbanistiche peculiari della città. Tra il Borgo nuovo e la Civitas (così la tradizione ricorda il borgo marinaro) cresce rapidamente un terzo agglomerato, favorito anche dalla presenza della chiesa del Santo Sepolcro attestata per la prima volta in un contratto di vendita di un orto, datato 1130, seppure appare probabile che esistesse forse una cappella in epoca anteriore alle crociate. Ad essa era annesso uno xenodochio per i pellegrini, retto forse prima del 1168 da una comunità di canonici.

Dalla metà del XII secolo inoltre troviamo le attestazioni della presenza degli ordini cavallereschi. I cavalieri gerosolimitani hanno una loro casa in città già dal 1179, quando compare una chiesa ed un ospedale «quod in Barulo constructum est» con annessi edifici di deposito, retta dal Priore Ponzio e da frate Ruggiero de Molinis. Siamo quindi di fronte ad una complesso di buone dimensioni. La presenza templare è probabilmente di poco precedente, e risalirebbe agli anni antecedenti al 1158, anno in cui si ricorda una «Domus Templi in Capitulo Barletti Ecclesiam Sanctæ Mariæ de Salinis»; dal 1169 risultano attestati nella chiesa di Santa Maria Maddalena «intra mœnia Baroli sita». L’ordine teutonico almeno dal 1197 occupa la chiesa di San Tommaso. Nel documento di assegnazione della chiesa ai «fratribus hospitalis Teutonicorum apud Jerusalem» si parla di «hospitale S. Thome quod de ordine ipsorum apud Barolum constructum est et fundatum». Dalla metà del XII secolo esiste una presenza premostatense che occupa la chiesa di San Samuele e dall’inizio del XIII secolo è presente in città anche l’ordine di San Lazzaro, anch’esso con chiesa e ospedale.

A queste presenze, forse dagli anni Quaranta del XIII secolo, si aggiungono quelle mendicanti. La chiesa di San Francesco sorgeva sicuramente dove oggi c’è il Liceo Classico, fuori dalle mura cittadine, lungo la ruga conventorum. É certa la sua esistenza già dalla prima metà del secolo XIII. La città ospita inoltre almeno dal 1293 l’ordine delle clarisse, ed anche per queste si può accettare la tesi della presenza barlettana probabilmente in date anteriori, vicine alla metà del XIII secolo. I domenicani almeno dallo stesso periodo posseggono un monastero extrameniale. Da ciò che sappiamo il convento dovette essere di grandi dimensioni.

Tutti questi dati servono a confermare la centralità che la città alla fine del XII secolo ha ormai raggiunto nel circuito delle sedi monastiche tradizionali mentre, come sottolinea Francesco Panarelli, appare di rilievo l’assenza delle comunità monastico-canonicali più strettamente legate alle presenze tradizionali del territorio, come quella pulsanese. È questo un dato che conferma la tradizione portuale-pellegrinale della città ma che, a partire dal XIII secolo, offre una possibilità di analisi diversa dell’assetto socio-economico cittadino. La città si è infatti, dall’inizio del XII secolo, sviluppata liberamente. É insomma un grande conglomerato di borghi satelliti cresciuti attorno alle varie emergenze monastiche ed alle strade di collegamento con la Capitanata, con Bari e con Brindisi. Non sembra più, all’inizio del Duecento, una città portuale, come appaiono invece le comunità della costa del nord barese, da Trani a Giovinazzo ed alla stessa Bari. Lo sviluppo parallelo alla costa la differenzia ormai dalle altre città adriatiche pugliesi, tutte abbracciate attorno a porti naturali.

A sinistra: chiesa del Santo Sepolcro, XII-XIV secolo, fotografia dell’inizio del XX secolo in cui è ancora visibile il campanile barocco. A destra: aerofotografia di Barletta; è visibile la conformazione in tre zone differenti dell’impianto cittadino e delle strade che la percorrono.

Barletta si va strutturando in una serie di borghi decentrati, ognuno con una forte peculiarità legata alle presenze monastiche e, probabilmente già dalla fine del XII secolo, allo sviluppo delle attività legate al traffico dei pellegrini: la mercatura e il cambio. Ai borghi di Santa Maria, San Giacomo e Santo Sepolcro si vanno aggiungendo gradatamente nel XIII secolo quelli di San Vitale e di Sant’Antonio, dando alla città una caratteristica policentrica che è stata compresa come strettamente legata alla particolare conformazione morfologica. È, per usare la nota definizione di Brusa, una non-città. All’importante presenza ecclesiastica corrisponde, alla metà del XIII secolo, un variegata società cittadina.

Ciò su cui sinora parte della storiografia locale, spesso datata o erudita, ha insistito, si indirizzava verso l’indagine su alcune grandi famiglie cittadine e sulle loro attività che giocoforza, alla fine del Duecento, le incanalano verso una strutturazione dell’apparato socio-economico diretto verso il possesso fondiario e l’attività amministrativa sempre più a carattere locale, con interesse nei confronti del riconoscimento nobiliare. Ma questa visione limita l’orizzonte sociale locale che, per almeno un secolo, sembra essere variegato e funzionale alle esigenze dell’economia che cresce in città a partire dall’inizio del Duecento.

In questo senso va dunque letta la realtà barlettana che, a presenze locali originarie della costiera amalfitana, attestatesi nel corso di due secoli e ormai accertate come egemoni nel tessuto economico e amministrativo cittadino – il prezzemolo amalfitano, secondo la definizione di Mario Sanfilippo – affianca una più che cospicua classe media di artigiani e operai, assolutamente peculiare e unica nell’orizzonte professionale pugliese e fatalmente avvertita anche dalle necessità dello Stato ogni qual volta si dovrà servire di maestranze a livello non soltanto locale. Le attestazioni in tal senso cominciano a farsi importanti dalla metà del XIII secolo e coincidono con il rafforzamento della documentazione pubblica pervenutaci dalla cancelleria angioina. Alcuni esempi vengono dalle richieste di manodopera barlettana per i lavori dei diversi castelli regnicoli, in particolare quello lucerino, da parte di Carlo I d’Angiò, il quale nel 1273 chiede alla città dei carrettieri; nel 1278 chiama dei muratori a Manfredonia per lavorare alla costruzione del castello e del porto. Nel 1280 è l’ingegnere Giovanni di Tullo, durante l’assedio di Belgrado, a fare espressa richiesta di maestri ferrai, petraroli e falegnami barlettani. Tutte attestazioni che, pur confermando la partecipazione degli uomini alla circolazione lungo le coste del Mediterraneo, rendono visibile una società locale dinamica e produttiva.

In questa particolarità si collocano anche, nel 1269, i mercatores Baroli tra le cui fila compaiono gli esponenti delle famiglie del notabilato cittadino in numero sicuramente cospicuo, ma anche una borghesia mercantile in ascesa e fatta di uomini nuovi che attendono al nuovo mercato in espansione sempre più da protagonisti. A questa diffusa parte cittadina si affianca – e molto spesso devono essere la stessa cosa – un’altra realtà su cui sarebbe necessario un approfondimento, composta dai marenariis de Barolo, i quali operano oltre che per se stessi – un esempio è Guglielmo che abita a Genova e che se la vede brutta mentre naviga nei pressi di Nizza – anche per gli interessi regi. È quanto avviene il 29 agosto 1269 quando un gruppo di marinai barlettani riceve 6 once come rimborso e salario per una missione di spionaggio nel porto di Ortona, sulla quale tuttavia non sappiamo molto altro.

Di questa parte mercantile-marinaresca rimangono importanti attestazioni nella documentazione cancelleresca, soprattutto in quella riguardante le tassazioni imposte ad alcuni elementi locali che appaiono direttamente connessi ai nuovi ceti mercantili emergenti – fiorentini su tutti – e che nel contempo sembrano organizzare le dinamiche economiche territoriali attorno a se stessi. Si ritrovano anche attestazioni di società finanziarie organizzate da alcuni elementi che operano sicuramente, dalla metà del Duecento, insieme alle maggiori case fiorentine.

Il dato sulla presenza straniera per lo sviluppo urbano del XIII secolo non può tuttavia passare in secondo piano. La città non è sede di una vera e propria colonia organizzata per parte del secolo, nonostante sappiamo che, fino alla definitiva strutturazione della colonia veneziana a Trani databile attorno agli anni Quaranta del XIII secolo, Barletta dovette essere anch’essa sede di diversi interessi da parte dei cittadini della Repubblica di San Marco. Non si spiegherebbe altrimenti la conferma di un diritto che consentiva ai veneziani di eleggersi un console a Trani e nella città ofantina, concessa da Manfredi nel 1239. Interessi che permarranno nel corso di tutto il Duecento e oltre, così come i rapporti tra le due città furono probabilmente legati anch’essi alla circolazione degli uomini, mercanti soprattutto ma anche artigiani da Venezia verso le coste pugliesi ma anche, ed è un dato da approfondire, da Barletta verso la langobardia. Si ha un esempio del primo caso con quel Nicolaus Florentini, probabilmente veneziano, che nel 1294 domanda ed ottiene la cittadinanza barlettana, usufruendo di ogni diritto da ciò derivante e pagando all’Università la tassa di 10 grana per 100 once di proprietà, secondo quanto vigeva nel pictagio Cambi, dove evidentemente viveva; o ancora con il Raffaele di Venezia, orafo, che opera in città negli anni Settanta del XIII secolo. Oppure, ed è un dato che probabilmente non rimarrebbe unico se supportato da un’analisi più approfondita, si possono trovare presenze barlettane anche a Venezia e nelle altre città del nord: è quanto avviene con Angelo de Barleto, al quale nel 1367 viene accordata per grazia la cittadinanza veneziana, non ereditabile, e dopo ben nove anni di permanenza nella città lagunare.

Nel tessuto urbano troviamo inoltre un luogo conosciuto come Giudecca, una ruga francorum e il pictagium marsicanum: sono queste le uniche attestazioni di zone cittadine organizzate per etnia, cosa che lascia supporre che la distribuzione straniera in città dovette avvenire per aree di interesse o di mestiere, e in questo caso ci spiegheremmo perché Lombardo di Pietro di Barcellona nel 1164 possegga una casa nei pressi di San Giacomo, Giovanni burgundione e Alessandro di Giovanni di Palermo nel 1208 siano i titolari di due case contigue «in portu Baroli» e, nel 1308, un cittadino genovese, tale Roberto, ne possegga un’altra nella zona di Santa Maria. Ma appare chiaro che la distribuzione di queste presenze in un secolo e mezzo di documentazione locale serva a poco per giustificare definitivamente questo particolare aspetto.

Giglio fiorentino. Lastra tombale di sconosciuto, metà XIV secolo, Barletta, Lapidario del Castello.

In questo modo tuttavia potremmo spiegarci i motivi dell’improvviso e apparentemente scriteriato allargamento murario del 1268 a cui fu interessata l’unica zona cittadina compresa tra la basilica del Sepolcro e la via del Cambio. Ampliamento spiegabile solo attraverso l’incremento in quella zona delle attività finanziarie e mercantili legate ora non soltanto alle grandi famiglie ravellesi presenti in città da diverso tempo – Della Marra, Bonelli, Sannella etc. – ma anche, e improvvisamente visibili nella documentazione dal 1269, alla presenza delle Compagnie di Commercio fiorentine.

L’arrivo delle grandi società azionarie fiorentine provoca sicuramente uno scossone. Al loro stabilirsi nel Regno, contemporaneo a quello degli Angiò, corrisponde una nuova strutturazione della società locale che, con buona probabilità in modo abbastanza netto, entra in contatto diretto con una realtà assolutamente nuova e che fino ad allora aveva interessato il mondo culturale barlettano in modo si può dire marginale. Barletta si trova in sostanza solo dal 1269 di fronte ad una comunità straniera di grandi proporzioni ed organizzata in modo da autoriconoscersi secondo pratiche, usi e costumi tipici, con un console e una strutturazione istituzionale chiara e visibile. Non è il caso di sviluppare questi argomenti in questa sede; tuttavia per Barletta un dato è interessante. Nonostante l’evidente attività fiorentina durante tutta la seconda parte del Duecento e la prima del Trecento, in città sono pressoché nulle le attestazioni che ci consentano di individuare la loro presenza nel tessuto urbano. Le uniche che in qualche maniera connettono i toscani al territorio sono alcune lastre tombali rinvenute sul sito dove un tempo sorgeva la casa dei cavalieri di Gerusalemme, ed altre ritrovate in quello dove si ergeva la chiesa di San Francesco. Tuttavia appare innegabile che alcuni elementi, riguardanti ad esempio l’organizzazione dello spazio urbano e la sua manutenzione, risentano di certe influenze.

La reale portata della società cittadina all’inizio del Duecento ci è offerta innanzitutto riconsiderando il problema della Cattedrale locale che, pur non essendo sede episcopale, viene ricostruita tra la fine del secolo XII e la prima metà del XIII. Le colonne donate da Moscato, con le quali questo intervento si apre, sono il primo dato tangibile in questo senso. Ma la cosa importante è che la città, pur non essendo sede vescovile, aspira ad esserlo e cerca da questo momento di fondare la sua identità attorno alla sua chiesa, in grado di darle una riconoscibilità istituzionale. Barletta in sostanza aspira a divenire città ma, all’inizio del Duecento, non lo è ancora. La sola presenza degli ordini monastici potrebbe offrirci delle possibilità interpretative in questo senso; ma non può ancora essere così. Manca non soltanto un riconoscimento esterno, ma principalmente una consapevolezza interna.

Barletta non pretende un riconoscimento internazionale. Rimane invece legata alla tradizione episcopale romana, rivendicando l’eredità cannese – e quella di Salpi – fino al trafugamento delle ossa di Ruggero, vescovo di Canne in fama di santità, nel duomo cittadino, a cavallo del 1275, data di cui rimane eco nell’inchiesta voluta dal vescovo di Minervino. É questo un avvenimento tardo e carico di significati che vanno probabilmente oltre la diatriba con l’episcopato tranese sull’assunzione della sede diocesana dopo lo sfacelo di quella canosina e cannese. Tuttavia proprio questa competizione per il riconoscimento episcopale si rafforza alla fine del XIII secolo, periodo in cui la tradizione fa risalire il trasferimento in città del Patriarca di Gerusalemme, dopo la caduta di San Giovanni d’Acri del 1291. É un avvenimento di peso, che darà a Barletta cinquantasei vescovi fino al XIX secolo. Tuttavia è un riconoscimento anch’esso particolare, perché si ha a che fare con un vescovo senza diocesi. É in sostanza un ospite che esercita a Barletta un episcopato deterritorializzato e puramente rappresentativo, e in questo modo si capisce la scelta barlettana al momento del trasferimento, giustificato dal tradizionale spostamento di pellegrini e soprattutto dalla presenza cittadina della Ecclesia Sancti Sepulcri già confermata da Papa Lucio III nel 1182 tra i possessi diretti della chiesa patriarcale di Gerusalemme. É questo uno dei motivi che accrescono inoltre la centralità politica delle case gerosolimitana e templare nel circuito delle sedi meridionali.

E qui viene il punto. Quest’avvenimento è solo il momento di arrivo di un processo che più che politico appare muoversi verso una giustificazione sociale ed economica con radici tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, essendo di fatto già mutate le condizioni identitarie cittadine, saldandole prima che sui rapporti tra pellegrinai e porto, su quelli tra porto ed entroterra, riconoscibili anche solo con uno sguardo sul sistema stradale e sui collegamenti con le zone interne del territorio. All’inizio del XIII secolo comincia in sostanza un mutamento economico di grosse proporzioni, non sorretto da una precisa identità socialmente riconoscibile, ma fondato su una sostanza policentrica sia in termini di strutturazione urbana che in quelli di presenza sociale e istituzionale.

In particolare, nel nostro caso, la presenza delle case crociate è dovuta ormai quasi esclusivamente a interessi economici, di cui l’assetto urbano sembra specchio fedele. Le case monastico-cavalleresche s’instaurano sul territorio cittadino in modo da costituire una raggiera attorno alla Civitas ma soprattutto in diretta connessione con la basilica del Sepolcro. Tuttavia se questo appare un dato interessante, ancor di più lo è il constatare come esse si trovino tutte vicine agli assi stradali che collegano Barletta all’entroterra e che contemporaneamente consentono facili approdi al porto. La casa dell’ordine gerosolimitano è l’unica a trovarsi in una posizione di congiuntura tra la via per Andria e quella per Trani; ma appare chiaro che è la prima il vero viatico d’interesse dei cavalieri. L’ubicazione esatta della casa templare e di quella teutonica sono ancora un dato oscuro e di difficilissima risoluzione, ma sembra si possa affermare con certezza che anch’esse possano essersi trovate esterne al nucleo centrale cittadino Civitas-Sepolcro, da cui il Borgo di San Giacomo è ormai escluso. Questa collocazione consente una rapida edificazione delle zone circostanti i monasteri, anche grazie alla contemporanea scelta urbana dei mendicanti che, ovviamente, stabiliscono le loro sedi ai margini della comunità cittadina ma non esclusi da quella. I francescani in particolare sembrano naturalmente a ridosso della zona di maggiore interesse economico, quella costituita dalla via del Cambio – l’attuale Corso Cavour, dove stabiliscono i loro interessi finanziari i ravellesi e più tardi, come sembra, i fiorentini -, fermandosi sulla via che porta ad Andria. I domenicani scelgono invece una collocazione più tradizionale, nei pressi della vecchia strada consolare per Canosa.

L’ubicazione dei grandi monasteri costituisce l’ultimo momento aggregativo cittadino, con l’esplosione di altri due borghi satelliti, San Vitale e Sant’Antonio, probabilmente di grosse proporzioni, intimamente legati alla presenza monastico-conventuale. La nascita di questi due nuovi aggregati urbani, oltre a porre dei problemi che tra poco si vedranno, riflette chiaramente il mutamento dell’emergenza economica rispetto al secolo XI e alla prima metà del XII e il radicale cambio di prospettiva cui la società cittadina comincia a rispondere. Se infatti il borgo del Sepolcro era stata la naturale risposta alle nuove attese sociali di una società in disgregazione, ora i poli di attrazione non sono più costituiti dalle strade costiere ma da quelle interne, in risposta ad un preciso mutamento delle emergenze economiche generali e a ben studiate politiche da parte dei sovrani svevi e angioini.

La politica federiciana infatti immediatamente tenta di evitare lo sfaldamento della caratteristica principale della società cittadina formatasi nell’ultimo secolo e mezzo, sfruttandone invece l’unicità. Barletta è una non-città in continuo movimento da almeno due secoli e, dal XII, in veloce crescita urbana. è, comunque la si voglia intendere, un grande centro d’interesse ecclesiastico proprio perché manca un accentramento vescovile e nel contempo esiste un capitolo della cattedrale vivo ed in continua competizione con l’episcopio tranese. Ma è ormai anche un importante centro finanziario e mercantile. Anche per questo, probabilmente, Federico II le concede una delle nuove fiere del Regno istituite nel 1234, e lo fa permettendole di celebrarla durante la settimana dedicata all’Assunta, a metà agosto, periodo centrale per la navigazione delle navi cariche di derrate alimentari, grano, legumi, sale e olio, dal sud Italia verso i comuni del centro e del nord.

Proprio questa vivacità economica permette a Federico II di sceglierla inoltre come sede della Schola Ratiocinii fin dai primi anni del suo mandato. La Schola – quella che sotto gli Angiò diventerà Camera Summariæ – sembra venga fissata a Barletta secondo un precisa scelta mirante alla formazione di un ceto di burocrati che potesse lavorare all’attuazione della propria politica economica. E inoltre anche la disposizione del sistema masseria, con la razionalizzazione della produzione e della successiva commercializzazione dei prodotti agricoli direttamente dal sovrano attraverso funzionari preposti, e dei suoi porti di partenza a partire dai 1235 attorno, tra le altre, alla città ofantina, lasciano trasparire la possibilità che essa fosse volontariamente esclusa dagli imbarchi dell’economia statale per ricevere invece la centralità in un sistema di governo statalizzato ma assolutamente policentrico nei suoi uffici. La suddivisione dell’ufficio dei Razionali, sino ad allora probabilmente presente solo a Barletta, avviene nel biennio 1247-1248, e la città ne condivide la sede con Melfi, Cajazzo e Napoli. Tuttavia Barletta è, dall’inizio del secolo, cresciuta politicamente, socialmente, economicamente e urbanisticamente.

Alla morte di Federico II la città, che probabilmente avvertiva come un freno la politica economica – se come tale può essere intesa – dello svevo, insorse in più di un’occasione e Manfredi dovette faticare non poco per riportarla nei ranghi, insieme ad altre città della zona, Andria e Canne su tutte. Qualche anno dopo sempre in città, nella Cattedrale ancora una volta in ampliamento, avviene il parlamento dei Sindaci delle Università di Terra di Bari che decidono di schierarsi a favore di Manfredi, il quale premia Barletta eleggendola a prima sede di convocazione parlamentare nel 1258 e, chiamandola «provinciæ speculum et praecipuam regionis», le riconferma la Fiera dell’Assunta. Questi avvenimenti, ancora tutti da approfondire, confermano tuttavia la vivacità di una società locale che sembra divenire rappresentativa non solo di se stessa ma anche delle comunità circostanti. Inoltre questi avvenimenti richiamano l’attenzione ancora una volta sugli anni immediatamente a cavallo della metà del Duecento.

Sappiamo che la Cattedrale, probabilmente consacrata all’inizio del secolo, fu ampliata solo trenta o quarant’anni dopo. La data della riconsacrazione nelle forme romaniche (1267), con l’innalzamento del tetto e la creazione del finestrone e del rosone di facciata oltre che dei falsi matronei all’interno, andandosi a collocare proprio in questo periodo, richiama prepotentemente l’attenzione sull’altra diatriba di cui pochi documenti ci sono pervenuti, gravitante attorno al furto delle reliquie del vescovo di Canne Ruggero ed alla prepotente ricerca di una corresponsione religiosa istituzionale all’ormai sempre più veloce stato di primato – con tutti i limiti che questo concetto comporta per il Mezzogiorno – su un territorium vasto e le cui comunità contadine a loro volta riconoscono.

Decisivo in questo senso è il peso di alcune famiglie, ormai ai vertici dell’amministrazione sveva e successivamente angioina. I Della Marra, sui quali il Loffredo ampiamente diffonde notizie attendibili e su cui i nostri Codici documentari ma anche la documentazione pubblica offrono dati, i quali, dall’inizio del secolo XIII e per tutta la storia del Medioevo barlettano risultano quasi un sinonimo del nome della città. Su di loro non è il caso di soffermarsi: per un’analisi completa della loro vicenda sarebbe necessario un studio a parte e non è il caso di concluderla in poche righe. Ma a questi vanno ad aggiungersi i Bonelli e, a partire dall’era angioina, i Santacroce, i De Anna, fino ai due Pipino che sopravvivono un battito di ali ma ai quali, nello spazio di poco più di ottant’anni, la città dovette una spinta fortissima.

Fu grazie a Giovanni Pipino che si potè mettere mano all’ennesimo grandioso ampliamento del duomo, di cui la documentazione comincia a parlarci, attraverso la raccolta di denaro e di terreni, a partire dagli anni novanta del XIII secolo e che probabilmente dovette molto anche alla presa di Lucera che il Pipino stesso portò a termine allo scoccare del XIV secolo. L’affare saraceni che da quella distruzione derivò ci consente di chiarire definitivamente come gli interessi economici della zona si siano ormai spostati prepotentemente sul porto di Barletta e sulle comunità in essa gravitanti: alcune grandi famiglie cittadine, la chiesa locale, il variegato universo sociale che costituisce la base dell’operaiato commerciale, le grandi compagnie di commercio fiorentine, Bardi su tutti e, probabilmente, i veneti tranesi.

A gennaio del 1300 il re dispone che tutto il denaro che è già pervenuto o che perverrà dalla vendita dei saraceni di Lucera e delle loro cose in Puglia, fosse assegnato a titolo di deposito a Taddeo Orlandi e Daccio Ranieri, della compagnia dei Bardi, affinché lo conservassero presso la loro filiale barlettana. La vendita degli schiavi avviene per lo più alle famiglie barlettane o delle città vicine, Trani, Molfetta e Bari su tutte. La vendita dei terreni è direttamente gestita dal sovrano tramite i propri rappresentanti territoriali, e tra i principali acquirenti troviamo la basilica di San Nicola di Bari, oltre a privati cittadini delle realtà portuali del nord barese. Si pensi a Giovanni Pipino che proprio grazie ai proventi ottenuti dalla distruzione di Lucera diviene in brevissimo tempo uno dei baroni più potenti del regno. A Barletta si svolgono le operazioni maggiori di quell’anno. Di tutti i saraceni lucerini tra 1301 e 1302 più della metà (390 persone) furono venduti in città – probabilmente non tutti a barlettani – e la vendita fu gestita dai miles Francesco Bonelli, Roberto Carangelo, Tommaso del Signor Amerizio e da Gentilotto di Lucio. Gli altri, a gruppi di 20/25 o meno, nelle città limitrofe – Trani, Terlizzi, Canosa, Bitonto, Molfetta, Giovinazzo etc.; solo a Ruvo se ne vendettero cinquantotto. É probabile che, a fronte di un nutrito gruppo che rimase dove era stato venduto, al servizio delle famiglie del notabilato – nobili e non -, ve ne sia stato uno altrettanto ampio che prese la via delle città dell’entroterra appennino e del sud della Puglia, per servire feudatari e ricchi comitatini.

Buona parte dei saraceni finirono inoltre nelle case degli ordini cavallereschi a fare da manovalanza, sempre in condizione di schiavitù. Le operazioni direttamente gestite da Daccio fruttarono a Lippo ed alla società dei Bardi 4981 once , 31 tarì e 18 grana. É probabilmente a maggiore garanzia di quest’enorme giro di denaro, che interessa la città ofantina per tutto il 1301, che il re nomina a capitano cittadino un altro toscano. Si tratta del pisano Ugo Riczio, il quale compare col titolo di capitano e di professore di diritto civile. Da quell’eredità sembrano derivare alcuni degli argenti del tesoro della Cattedrale, uniche attestazioni parlanti, oggi, di un movimento di genti e di denaro che la distruzione di Lucera fu in grado di provocare.

A sinistra: cofanetto bronzeo, sec. XII, cattedrale di Santa Maria Maggiore. A destra: colomba eucaristica ante 1184, chiesa del Santo Sepolcro.

Per molti versi la città, a cavallo del XIII e XIV secolo, vive quello che Enrico Pispisa sostiene a Messina sia una delle caratteristiche dello «sviluppo unitario della vita cittadina attorno a tre poli: la Chiesa , i mercanti forestieri e i burocrati», con una differenza solamente di tempi, che porteranno Barletta a trovare il massimo splendore nell’unità di questi stati con un ritardo di circa vent’anni rispetto alla città siciliana. Questo ci fa capire comunque che, all’inizio del XIV secolo, la città è ormai divenuta sede di interessi economici diversi e, probabilmente, contrastanti tra loro. Interessi che aprono il Trecento barlettano e che si ripercuotono lungo tutta la prima parte del secolo, attraverso le lotte intestine tra le grandi famiglie: i Della Marra contro i De Gattis, per un decennio, probabilmente, dagli anni Venti; i Pipino del Conte Palatino, nipote del primo Giovanni, durante gli anni Trenta e Quaranta. Interessi che rendono centrale la città anche nel complesso gioco di poteri che si apre con la morte di Roberto d’Angiò, quando le lotte per la successione al trono angioino caratterizzeranno la stagione finale della dinastia e, nel nostro caso, il periodo dal 1343 fino a tutto il Quattrocento e oltre.

Ma, quegli stessi interessi, in nuce e poi esplosi definitivamente, caratterizzano positivamente anche la vita della città, all’apice dello sviluppo proprio a cavallo tra XIII e XIV secolo. Un esempio ci viene dalle operazioni legate all’assetto urbano. All’attività di fortificazione del castello, adattato da Carlo I anche a palazzo residenziale, ne corrisponde una altrettanto intensa di organizzazione dello spazio urbano, di cui l’allargamento delle mura del Cambio del 1268 appare solo il primo momento. É del 5 maggio 1274 la prima disposizione regia inerente la salubrità dell’ambiente. Carlo I concede la facoltà all’Universitas di imporre una gabella di ¼ di grano per ogni rotolo di carne venduto. Tale tassa sarebbe servita a pagare le spese per la pulizia dei canali e per la rimozione delle immondizie. La raccolta del denaro dovette essere terminata tre mesi dopo, quando il re incarica Galgano Sannella di occuparsi della questione. Ma poco dopo, per il mancato pagamento della prestazione d’opera per 120 once da parte del Giustiziere di Terra di Bari, anch’egli dimorante a Barletta, il Sannella è costretto a sospendere il lavoro. Questi dati rendono Barletta un caso particolare nel Mezzogiorno angioino e, nel contempo, aprono in modo inequivocabile più di una questione inerente l’attività della popolazione locale nei diversi rami dell’organizzazione urbana e chiariscono contemporaneamente la polifunzionalità della composizione sociale cittadina e la sua attività a livello territoriale. La famiglia Sannella ne è un esempio. Galgano Sannella è parte di una famiglia che ritroviamo in città in più di un’occasione attiva in tutte le branche della speculazione finanziaria, da quella strettamente connessa alla banca, all’incremento fondiario, alle attività legate al commercio marittimo – in proprio e con gli straneri – fino alla partecipazione imprenditoriale connessa all’appalto di servizi di varia natura. Nel 1268 Pietro Sannella risulta tesoriere di Barnaba de Riso, Secreto di Puglia. Ancora nel 1270 Ilario e Pasquale Sannella mutuano 9 once al re. Leo e Conto Sannella risultano spesso tra i nomi dell’operaiato commerciale cittadino. Finzio e Guglielmo Sannella all’inizio del Trecento collaborano con i Bardi, i Peruzzi e gli Acciaiuoli. La loro società opera insieme ai fiorentini probabilmente nelle attività legate al carico e allo scarico di grano e a quelle di cabotaggio verso Venezia e Firenze.

Le operazioni di pulizia dei canali di scolo cittadini, avviate alla fine del 1274, sono ancora in fase di esecuzione un anno dopo ed anzi, sembrano allargare le proprie finalità a veri e propri lavori di ristrutturazione e ampliamento. Avviene per il canale «quod est in Terra Baroli, in Platea Veteri», che viene fatto allargare fino alla misura di 5 palme «adeo quod aqua possit leviter et sine difficultate ad mare discurrere» e successivamente è coperto «lacconibus bonis et grossis et bene iuntis», cosa che tuttavia, per quanto sia l’unica attestazione di una specifica emergenza urbana pervenutaci, non dovette essere isolata, ma parte di un contesto molto più ampio.

A portare avanti queste operazioni è un altro Sannella, Angelo, che subentra non sappiamo in che occasione a Galgano, probabilmente suo fratello, ma che circa un anno dopo viene richiamato dal re a fornire la ragione generale del suo mandato poiché, anziché adoperare il denaro raccolto in città dalla gabella sui canali di scolo, «pecuniam ipsam detinet et in proprios usus convertit». A ciò si aggiunge l’ordine di capire quali siano le reali intenzioni di Giovanni Fasano che «se voluntarie obtulit ad extaleum facere opus predictum pro minori pecunie quantitate». Alle disposizioni sul risanamento urbano partecipano dunque, in tempi e modi da appurare, i cittadini. Sono coloro che giustificano la grande operazione di ricostruzione urbana che Carlo II avvia alla fine del secolo ed alla quale, probabilmente, partecipa tutta la popolazione barlettana, ciascuno con le proprie esperienze.

La documentazione sul riordino urbano voluto da Carlo II è abbastanza nota e sarà il nucleo di un mio prossimo intervento; non può essere inoltre questa la sede per un’analisi dettagliata di quel caso. Basti tuttavia questo a comprendere come le disposizioni riguardanti la viabilità cittadina, la costruzione di un circuito murario finalmente ragionato, l’ampliamento del porto, avviate probabilmente dagli anni Novanta del XIII secolo con alcune operazioni preliminari – raccolta dei finanziamenti, unione amministrativa tra tenimentum Cannarum e quello barlettano, regolamentazione dei dazi sulle derrate alimentari e sui prodotti commerciali – e non si sa quando e in che modo concluse, sono da guardare nel complesso del sistema economico e istituzionale cittadino dell’epoca. Sistema che è ormai centrale per la zona tra Tavoliere e Terra di Bari, a tal punto che Carlo II acconsente alla necessità dell’Università di ottenere un ulteriore periodo di mercato e concede, nel 1302, la fiera di San Martino.

In conclusione è importante ribadire come l’universo sociale cittadino si sia formato tra XII e XIII secolo secondo i canoni che caratterizzano il Medioevo più tipico. Ribadire questo serve non soltanto a contestualizzare la realtà cittadina, a chiarirne la tipicità e a valorizzarne le peculiarità. Ribadire questo serve soprattutto a riconoscere al meglio i segni che da quell’eredità abbiamo ricevuto, quelli dell’immaginario e quelli tangibili. Serve a comprenderci meglio e a fondare le nostre tradizioni culturali, oggi racchiuse nello splendore delle suppellettili sacre oggetto dell’analisi di Giovanni Boraccesi.

           


NOTA

Nell’impossibilità di citare ogni riferimento in modo completo, a causa delle caratteristiche di questo lavoro, mi permetto di giustificare le citazioni documentarie del testo attraverso una breve tavola di riferimento, assolutamente non esaustiva.

Fonti

ARCHIVIO DI STATO DI VENEZIA, Cives, XIV-XV sec., Richieste di cittadinanza, G 16:67R.

CDB VIII, Le pergamene di Barletta. Archivio Capitolare (897-1285), a cura di Nitti di Vito, Bari 1914, LXXXVII-510.

CDB X, Le pergamene di Barletta del Regio Archivio di Napoli (1075-1309), a cura di R. Filangieri di Candida, Bari 1928, LVII-360.

CDB XIX, Le pergamene di Barletta dell’Archivio di Stato di Napoli (1309-1672), a cura di R. Filangieri, edite a cura di J. Mazzoleni, Trani 1971, XXXV-643.

CDBarl. I, a cura di S. Santeramo, Barletta 1924, XXIII-377.

CDBarl. II, a cura di S. Santeramo, Barletta 1931, XXI-370.

CDBarl. III, a cura di S. Santeramo, Barletta 1957, XIV-330.

  CDBarl. IV, a cura di S. Santeramo, Barletta 1962, XV-298.

  Codice diplomatico dei saraceni di Lucera, a cura di P. Egidi, Napoli 1917, XIX-466.

  I registri della cancelleria angioina ricostruiti da R. Filangieri con la collaborazione degli archivisti napoletani, XLIII voll., Accademia Pontaniana, Napoli 1950-2005.

La canzone di Antiochia, a cura di G. Zaganelli, in Crociate. Testi storici e poetici, a cura di G. Zaganelli, Milano 2004, pp. 5-353.

S. LOFFREDO, Storia della città di Barletta con corredo di documenti, voll. 2, Trani, Vecchi, 1893 (rist. an. Bologna, Forni, 1987), pp. XVIII-442+589.

     

Bibliografia minima

Città e contado nel Mezzogiorno tra Medioevo ed Età moderna, a cura di G. Vitolo, Salerno 2005, pp. 352.

R. LICINIO, I poteri territoriali: re, signori, vescovi e città, pp. 130-149, in Storia della Puglia, 1, Dalle origini al Seicento, a cura di A. Massafra e B. Salvemini, Roma-Bari 2005, VIII-286.

R. LICINIO, La Terrasanta nel Mezzogiorno: l’economia, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate, Atti delle quattordicesime giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 2000, a cura di G. Musca, Bari 2002, pp. 417, pp. 201-224.

F. PANARELLI, Presenze benedettine a Barletta nel XII secolo, «Nuova Rivista Storica», LXXXIV (2000),  pp. 31-50.

E. PISPISA, Messina, pp. 222-234, in Federico II e le città italiane, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, intr. di J. C. Maire Vigeur, Palermo 1994, pp. 458.

M. SANFILIPPO, Discorso di chiusura, pp. 477-485, in Itinerari e centri urbani nel mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle decime giornate normanno-sveve, Bari, 21-24 ottobre 1991, a cura di G. Musca, Bari 1993, pp. 485.    

     

   

©2007 Victor Rivera Magos. L'articolo è stato pubblicato a stampa in Il Genio della mia terra, 6, Mosè innalzò un serpente di rame. Suppellettili liturgiche e argenti dalle chiese di Barletta dal XII al XVI secolo, a cura di L. Spadaro, Barletta 2006, pp. 6-28. 

   


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