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di MAURO AURIGI
In principio era la destra. Poi un giorno del 1143 Otto von Freising, ossia Ottone di Frisinga, vescovo e studioso nonché zio di Federico I di Svevia detto il Barbarossa, durante un viaggio scoprì - assai scandalizzato, ci dice il professor Quentin Skinner di Cambridge - che in Italia era stato violato un principio ritenuto addirittura sacro, quello che nessuna società umana potesse esistere senza un monarca che la reggesse, ovviamente per diritto divino. Nel nord della Penisola infatti le città si governavano da sole. Era successo che per la prima volta nella storia allora nota i sudditi si erano ribellati alla signoria, ad ogni forma di signoria laica o religiosa che fosse, e si erano trasformati in cittadini e costituiti in libero comune, di solito privando la nobiltà di ogni diritto politico attivo e passivo (a Siena fino al 1555). Non c’era più una plebe, ma un popolo capace di provare sentimenti nuovi e straordinari come l’amore per la città-patria, l’orgoglio di sentirsene cittadino pari a tutti gli altri e di sentirsene nel contempo, sempre insieme agli altri, padrone. Si trattava, in sintesi, dell’orgoglio civico e di tutto il resto che va sotto il nome di capitale sociale: il civismo, i pari diritti, la fiducia e il rispetto reciproci, la solidarietà, la cooperazione, quello insomma che ancora distingue, dopo quasi mille anni, il nord del Paese da un sud a cui quell’esperienza fu negata. Da quel momento la destra (la società verticale) non sarà più sola: da una sua costola era nata la sinistra (la società orizzontale). La storia dell’Occidente sarà permanentemente segnata da quel parto e per nobili, prìncipi, re, imperatori e papi nulla sarà più come prima. Inoltre era nata anche la ricchezza, come un Ottone sempre più meravigliato ed ora anche interessato aveva potuto constatare. Perché la sinistra, ossia la repubblica borghese, è una grande produttrice di ricchezza (e quindi di cultura ed arte), mentre l’impero, ossia la destra, non solo non ne produce, ma nutre un’insaziabile cupidigia per quella altrui. Per questo il Barbarossa, reso edotto dallo zio Otto, scenderà ripetutamente in Italia alla testa di poderosi eserciti. Ma scoprirà a sue spese che le repubbliche non avevano solo i soldi, ma anche i muscoli.
L’esercito di popolo
Il Comune
infatti aveva scoperto presto che per difendere, anche dalle città vicine, la
propria libertà (ed anche la ricchezza, la cultura ed l’arte che quella
libertà produceva) aveva una necessità estrema di realizzare in proprio
un’organizzazione militare che fino ad allora era stata esclusivo appannaggio
della nobiltà. Il territorio urbano ed anche quello extra-moenia fu così
diviso in “popoli”. Ed ogni popolo, raccolto intorno alla chiesa che esso si
era costruita da solo e che era centro sociale più che religioso, era tenuto a
costituire una compagnia militare per partecipare, nel momento del bisogno, alla
difesa della città. La compagnia militare era dunque un organismo territoriale.
Ed ogni cittadino maschio di quel popolo, dai quindici ai settant’anni, senza
eccezioni (religiosi inclusi), era tenuto a parteciparvi. Come ancora oggi in
Svizzera.
Ma quei
cittadini erano borghesi grandi, piccoli e piccolissimi: bottegai, amanuensi,
notai, banchieri e bancari, pittori, calzolai, falegnami, fabbri, beccai. Non
erano nobili, non sapevano usare le armi, perché proprio i nobili glielo
avevano sempre proibito (e comunque non avrebbero avuto il tempo per
impratichirsene: dovevano lavorare per mangiare). Si rendeva necessario quindi
un addestramento. A tale fine ogni città comunale italiana allestiva a scadenze
fisse giostre e tornei nella piazza centrale, dove i gruppi di buoni borghesi si
presentavano, sotto i colori della propria rispettiva compagnia militare, per
affrontarsi e gareggiare con armi gentili (lance e spade di legno, scudi di
vimini). Vinceva ed assurgeva agli onori della cronaca ovviamente la compagnia
militare più abile e aggressiva, più determinata ed addestrata. Fu questa
competizione tra rioni che indusse ciascun gruppo a produrre il meglio di sé
fino a ingenerare nei componenti un acceso spirito di corpo, un vero e proprio
patriottismo di rione. Succedeva così che l’animosità avesse sempre il
sopravvento e quelle manifestazioni degenerassero facilmente in veri e propri
combattimenti, difficili da sedare, con morti e feriti. Per questo l’autorità
comunale era costretta ad abolire quelle giostre e tornei e ad indirne altri in
forma meno dura. A Siena, per esempio, si passò dai giochi dell’Elmora a
quelli delle Pugna e a quelli di S. Giorgio. Ad essi si frammischiavano le cacce
a tori o
bufali (qualcosa di simile a Pamplona oggi) o alle fiere (orsi, per esempio), il
gioco del pallone (lo stesso assai violento riesumato a Firenze), ed anche le
corse dei cavalli. Queste ultime ebbero alla fine il sopravvento, mano a mano
che i comuni, dal Trecento in poi, venivano sottomessi dalle signorie. Il
signore infatti è la destra e, come vedremo, ci tiene alla salute per cui teme
il popolo in armi, non gli interessa che esso difenda in proprio la patria,
preferisce (esattamente come D’Alema e Berlusconi, due begli esemplari di
destrorsi con l’attenuante per il secondo di non fingere di essere di
sinistra) l’esercito di mestiere, l’esercito mercenario. Così meglio le
corse dei cavalli, il panem et circenses, piuttosto che le inquietanti
esercitazioni militari popolari (è esattamente l’opposto speculare del
diritto di detenere armi garantito a tutti i cittadini dalla costituzione
nordamericana, proprio in funzione, tale era il proposito di quei padri
costituenti, della difesa popolare della libertà repubblicana da eventuali
tentativi di eversione).
L’esercito di
popolo, novità assoluta per quei tempi, fu il garante fondamentale della
sopravvivenza della civiltà comunale assediata da ogni parte da un mondo fatto
di regni e imperi. Ricordiamoci Legnano e lo sbalordimento del Barbarossa perché
degli umili bottegai appiedati erano riusciti a sconfiggere i nobili della sua
poderosa cavalleria teutonica, la più forte del mondo di allora. Ma
ricordiamoci anche la minuscola Siena che riuscì a sopravvivere, grazie alla
sua milizia cittadina, fino al 1559, quando soccombette dopo aver combattuto da
sola, con l’aiuto formale del re di Francia e una sparuta pattuglia di
mercenari, una lunga guerra contro Carlo V, l’imperatore più potente del
mondo, l’uomo sul cui regno non tramontava mai il sole. Sette anni di guerra
di cui cinque e mezzo d’assedio, durante i quali due terzi dei 20.000 abitanti
preferì morire di ferro, fuoco e soprattutto fame, piuttosto che rinunciare
alla libertà e vedere la Città umiliata. Vi furono episodi di eroismo e di
drammaticità che superano l’immaginazione. Combatterono anche le donne, e
Blaise de Montluc, rappresentate a Siena del re di Francia ed uno dei più
importanti condottieri del secolo, scriverà nelle sue memorie: “preferirei
difendere Roma con le donne senesi piuttosto che con i soldati che là
stanno”. Alla fine dei primi tre anni di guerra la Città stremata cadde, ma
la Repubblica, raccolte le ultime esauste forze, riuscì con una marcia forzata
a rifugiarsi a Montalcino (lasciandosi dietro lungo quei 40 chilometri una scia
di morti per stenti). Qui continuò a inalberare la gloriosa Balzana e a battere
moneta con la commovente scritta «Repubblica di Siena retirata a Monte Ilicino».
Altri quattro anni d’assedio e non si sa come sarebbe finita - perché anche
l’esercito assediante era allo stremo ed aveva ormai le casse vuote - se nel
1559 a Cateau Cambrésis, Spagna e Francia non avessero fatto la pace e,
ignorando la delegazione senese inviata per un ultimo disperato tentativo, non
avessero decretato la soppressione della piccola coraggiosa Repubblica. A questo
punto, persa ogni speranza, anche Montalcino cedette: con la Spagna da sola ci
si poteva ancora continuare a confrontare, ma Spagna e Francia alleate erano
troppo anche per gente cazzuta come i Senesi. Era in realtà successo che Cosimo
I dei Medici, alleato di Carlo V contro Siena, aveva commesso il più grave
crimine che si possa imputare ad un capo di stato: l’alto tradimento. Quella
dei Medici era una grande famiglia borghese, senza i quarti di nobiltà
necessari per accampare, nel mutato quadro politico italiano, il diritto ad
esercitare ufficialmente la signoria. Così Cosimo, autentico Quisling ante litteram, dopo la caduta di Siena offrì l’intera Toscana
alla corona spagnola a condizione che l’imperatore gliela riconcedesse, con
formale investitura, in feudo. Un atto che sancì anche ufficialmente la fine
della libertà della Toscana (e quindi anche del suo primato mondiale in termini
di ricchezza, cultura ed arte che da quella libertà discendevano); tant’è
che all’estinzione della casata medicea il Granducato tornò agli Asburgo che
lo cedettero nuovamente in feudo al ramo cadetto dei Lorena.
Il Bronzino: Cosimo I dei Medici (Toledo)
Così cadde
l’ultimo comune popolare italiano, così finì la civiltà comunale.
Stranamente (ma perché stranamente?) quell’evento è passato sotto silenzio
dagli storici italiani. Non così gli storici inglesi, convinti che i Senesi
abbiano allora riscattato da soli il vergognoso comportamento di tutti gli altri
Italiani davanti agli Spagnoli. Ancora più incomprensibile l’atteggiamento
della cultura italiana se si pensa che quell’episodio rappresenta lo
spartiacque virtuale di due periodi fondamentali: da una parte la libertà
comunale e la splendida fioritura dell’Umanesimo-Rinascimento e dall’altra
il periodo signorile che favorì la dominazione spagnola e quindi la
Controriforma, l’Inquisizione e l’Indice, a cui va imputata la decadenza dei
successivi secoli bui e l’attuale arretratezza dell’Italia nei confronti
dell’Europa.
Ma torniamo a
Cosimo I. Come ogni tiranno che si rispetti, due furono i provvedimenti che
prese immediatamente dopo la conquista della Repubblica senese. Uno fu la
chiusura del Consiglio Generale (parlamento) dove sedevano per il periodo
massimo di un anno e senza possibilità di rinomina se non dopo anni, ben 360
cittadini tirati a sorte. Nel Palazzo del Consiglio farà costruire un teatro,
tuttora in attività, che inaugurò personalmente. L’altro provvedimento fu
l’abolizione delle compagnie militari, ossia il disarmo del popolo, quel
popolo fatto di uomini e donne dalla schiena troppo dritta. Per decenni le donne
senesi porteranno il lutto e ancora cento anni dopo i gesuiti inviati alla sede
di Siena venivano prima informati che i Senesi, in fatto di libertà, avevano
ancora i nervi scoperti. Ancora nel 1700 tutte le copie rintracciate di un
vocabolario della lingua senese (anche nella lingua la Città continuava la
resistenza contro lo straripante fiorentino) furono bruciate pubblicamente a
Firenze dall’Accademia fiorentina della Crusca per ordine del Granduca: quella
di bruciare i libri è una tentazione a cui difficilmente il tiranno, ossia la
destra, riesce a resistere. Il senese Girolamo Gigli, il malcapitato autore del
vocabolario, per evitare il peggio fu costretto a rifugiarsi a Roma, dove
evidentemente si respirava un’aria più liberale che a Firenze (il che è
tutto dire). Ancora nel 1800 Siena, convinta di sottrarsi così al giogo
fiorentino, è la primissima città toscana ad aderire plebiscitariamente allo
Stato unitario (il giogo romano sarà peggiore, ma questo è un altro discorso).
Il trauma della
perdita della libertà fu dunque spaventoso. Il carattere dei Senesi ne è
ancora oggi segnato con quell’allucinato attaccamento alla Città ed alle sue
tradizioni e con quel discreto disinteresse per ciò che avviene fuori. Dopo la
sconfitta è come se si fossero chiusi su se stessi o, meglio, nei loro rioni,
le contrade, in ciò che di struttura sociale rimaneva delle ormai disarmate
compagnie militari popolari, simbolo della libertà. E lì, proprio nella
contrada, ancora organizzata nella vecchia compagnia, cercarono disperatamente
di riesumare quello che era morto: la Repubblica (sarebbe cosa questa che
indagherebbe meglio uno psicoanalista o un sociologo). Far finta di essere
ancora liberi, ricreare nella Contrada il simulacro di quell’indipendenza che
il principe avrebbe represso se riproposto per la Città, poteva essere la
strada per rimuovere il dramma della sconfitta (non è un’esagerazione: interi
popoli nel Nuovo Mondo, davanti agli stessi Spagnoli e negli stessi anni,
preferirono il suicidio di massa).
Così dalle oltre 40 vecchie compagnie militari, o dalla fusione di alcune di esse, col tempo siamo arrivati alle 17 Contrade odierne, che sono quindi le vere eredi dell’antica cultura repubblicana, un autentico atto d’amore dei Senesi per la libertà. Non esistono alternative: non c’è altra giustificazione al sentimento profondo e sincero che lega il Senese alla propria Contrada, che è autentico amore di patria (non c’è Senese che non abbia un intimo soprassalto, una piccola interna commozione quando vede accostati, anche per caso, i colori della propria bandiera). Altrimenti non si spiega perché un organismo come la Contrada, che non dovrebbe avere altre esigenze che quelle di un club o un circolo Arci, abbia invece fortissimo il sentimento di indipendenza e sovranità (l’Onda unn’ha padroni, si dice, anzi si urla nell’Onda come in ogni altra Contrada), oppure non si capirebbero i motivi dei simboli guerreschi che sono parte inscindibile di ogni manifestazione contradaiola, o perché le bandiere delle antiche compagnie militari fiancheggino sempre il gonfalone della Contrada che da esse discende. Anzi, fino al 1870 circa si sfilava in Piazza come in una vera e propria parata militare, con tanto di divise e armi di foggia moderna: data da allora (forse quel “militarismo”, così poco nazionale, era malvisto dal nuovo despota sabaudo?) il ricorso a costumi di tipo, allora, approssimativamente medievali o rinascimentali.
Stemma della contrada del Drago
Comunque le
contrade esistevano in tutte le città, ma si estinsero col tempo: come non
pensare che solo a Siena siano sopravissute proprio in forza del trauma estremo
e inestinguibile sofferto per la perdita della libertà, difesa a Siena come in
nessun altra città italiana? Senza quel retroterra inconscio di memoria e
fierezza come altrimenti avrebbero potuto sopravvivere le Contrade di Siena nei
secoli successivi? Sopravvissero alla Controriforma che voleva espropriarle di
quelle chiese che continuavano invece ad essere proprietà del popolo e che
continuavano, come in epoca comunale, ad avere funzioni più civili che
religiose e intorno alle quali la vita della Contrada si svolgeva (e si svolge
ancora). Sopravvissero all’abolizione, voluta nel Settecento dai Lorena, di
tutte le corporazioni, compagnie laicali, gilde, confraternite, ordini religiosi
e quant’altro ricordasse l’antica cultura comunale. E sopravvissero anche
agli strali dei liberali dell’Ottocento e dei socialisti tra Otto e Novecento,
tutti diffidenti verso questa genuina espressione della volontà popolare che
esulava dal controllo di qualsiasi capo. Ancora pochi anni fa un nuovo
arcivescovo appena arrivato cominciò col dire subito che il cavallo in chiesa
per la benedizione prima della corsa proprio non ce lo voleva. I contradaioli
gli risposero: la chiesa è nostra e ci si porta chi ci pare! L’arcivescovo
capì l’antifona.
Ma cos’è la
Contrada? Essa conserva da mezzo millennio, nel suo piccolo, le caratteristiche
dell’antica gloriosa Repubblica: prima fra tutte quella della supremazia
assoluta del Popolo (la ricchissima storia cittadina non ci tramanda un solo
nome di un politico, un capo o un eroe, fatta eccezione per Pandolfo Petrucci,
“signore” per 20 anni tra Quattro e Cinquecento e poi cacciato a furor di
popolo), poi l’attaccamento di questo al proprio territorio ed ai suoi colori
(l’amor patrio: in tante situazioni vige ancora un vecchio monito del periodo
repubblicano “prima la patria e poi la famiglia”), quindi la solidarietà
tra pari (le Contrade furono tra le prime in Italia a costituire nel proprio
ambito, nell’Ottocento, le società di mutuo soccorso). Il Senese fin
dall’infanzia apprende in Contrada, per osmosi, il principio “una testa un
voto”, principio non scalfito neanche dal fascismo, quando nessun’altra
carica in Città e nel Paese sfuggiva all’arbitrio del Duce o dei suoi
prefetti e federali. Da sempre tutte le cariche - sono decine e decine per ogni
Contrada - sono elette dal popolo riunito in assemblea, anche quella del prete
(non esiste nulla del genere - anzi! - in tutto il mondo cattolico: la
tradizione deriva direttamente dal periodo comunale, quindi ante-Controriforma).
Fanno eccezione i due aiutanti, i Mangini, che il Capitano nomina personalmente,
ma in molti casi il popolo, vista la quantità di denaro che i tre maneggiano
per vincere il Palio, pretende di nominarne un terzo, detto appunto “mangino
del popolo”, da affiancare agli altri.
La Contrada ha
un Priore o Rettore o Governatore (il capo del governo), un seggio (il consiglio
dei ministri), un Consiglio Generale (il Parlamento), un Capitano (capo
dell’esercito) e l’Assemblea del Popolo (tutti i contradaioli) che è
l’unica che decide, gli altri organi essendo solo esecutivi. Gli incarichi
durano in genere due anni (ogni Contrada ha un suo proprio statuto, votato dal
popolo e diverso dagli altri) e in genere non vi è rielezione. Il Capitano e i
Mangini (i comandanti militari) hanno brevissima giurisdizione rigorosamente
circoscritta ai giorni del Palio (la guerra). Non fatevi ingannare, non c’è
niente di rituale o celebrativo, è una cosa maledettamente seria e complessa.
Ogni Contrada ha la chiesa, la stalla, il museo, l’archivio (l’Onda conserva
i verbali delle assemblee dal 1524), il giornale, il circolo ricreativo, quello
culturale, il gruppo donatori di sangue… e da più di un secolo le Contrade si
sono date anche una struttura federale, il Magistrato delle Contrade. Grande
democrazia! Grande autogoverno!
Ma ogni repubblica che si rispetti deve essere pronta a difendere la propria indipendenza e libertà. è così che i Senesi col tempo trasformarono le corse dei cavalli, che avevano sostituito le esercitazioni militari del periodo repubblicano in Piazza del Campo, in guerra vera o propria, o meglio nella metafora di essa, visto che il principe non avrebbe autorizzato manifestazioni bellicose popolari. Quelle corse vennero progressivamente sottratte al patronato dei nobili, tornati dopo la resa della Repubblica in possesso delle loro prerogative politiche, o del principe e canonizzate come il Palio delle Contrade, codificato infine, come lo conosciamo oggi, verso la metà del Seicento. Il Palio - dal latino pallium, ossia il panno pregiato che in passato veniva dato in premio al vincitore e che oggi è rappresentato da un grande drappo si seta ricamato e finemente dipinto - è in effetti la guerra ritualizzata e della guerra ha tutte le caratteristiche: i nemici, gli alleati, il popolo combattente (il cavallo), le truppe mercenarie (il fantino: ma è il cavallo che vince il Palio, anche da solo, non il fantino), la diplomazia, i trattati, le congiure, la corruzione, i tradimenti, il sacrificio, l’eroismo, la gloria, l’infamia, l’esaltazione della vittoria e la disperazione della sconfitta, e i soldi, tanti soldi, come in ogni guerra che si rispetti. Manca il sangue, ma non sempre: qualche volta un po’ ne scorre anche oggi, anche se non come nei secoli passati.
Ecco cos’è il Palio, l’unica “gara” al mondo dove chi vince paga. E paga tanto.
Andate a vedere
il drappellone portato in Duomo dopo la corsa dal popolo vincitore e esultante e
potrete rendervi conto di cosa fosse il ritorno dell’esercito comunale
vittorioso che porta nella cattedrale le insegne strappate al nemico e intona,
allora come ora, il Te Deum di ringraziamento. Subito dopo cercate di
essere presenti quando quello stesso drappellone viene portato in Contrada:
allora c’è l’incontro tra l’esercito vittorioso e il popolo rimasto in
angosciosa attesa del suo ritorno (ancora oggi gli anziani non vanno in Piazza
per tema di non superare la tensione: ricordate? oltre i settanta anni cessava
l’obbligo di portare le armi) e vi sfido a non provare una commozione
profonda, a non sentirvi accapponare la pelle perché pochi hanno gli occhi
umidi: tutti gli altri piangono dirottamente. Poco consigliabile andare invece a
vedere dopo il Palio l’autentica disperazione, in nulla diversa da quella che
seguiva la sconfitta in epoca repubblicana, nella o nelle contrade che hanno
perso di brutto: mal si sopportano i curiosi e si rischia qualche ceffone
(ma d’altra parte, a differenza delle gioie, nessuno esibisce
volentieri in pubblico le proprie disgrazie: i voyeur sono sempre
malvisti).
Certo ad un
osservatore esterno quella gioia o quella disperazione, quella emozione
incontrollata, può sembrare la stessa del tifo calcistico. Errore madornale:
quello del Palio è un popolo, la Contrada vive di quel popolo, il popolo ne è
il proprietario sotto ogni punto di vista, esso è sempre attore e mai
spettatore, ed è lui che tira fuori i soldi di tasca propria per finanziare la guerra, ossia per vincere il Palio (anche due miliardi o più a Contrada, versati in rigorosa proporzione al reddito, volontariamente, senza che nessuna norma fissi né l’obbligatorietà né le quote: anche nel pagamento delle “tasse” riemerge il grande civismo dell’epoca comunale). Quello del calcio invece non è un popolo, è una plebe, passiva spettatrice come tutte le plebi, che si esalta di fronte ai
panem et circenses offerti dal principe-padrone della società calcistica. è l’antica distinzione che si perpetua: i contradaioli sono liberi cittadini (la sinistra), i tifosi del calcio sono sudditi di un principe (la destra).
Ecco cos’è la mia Siena e cosa sono le sue Contrade. Ed io quando penso a quanto fu amata la libertà dai miei antenati, tanto da produrre ancora l’odierna esplosione del Palio, non riesco a non provare una forte commozione. E se penso al fatto che nessuno se lo ricorda più, la commozione diventa disperazione. Forse sono rimasto davvero l’ultimo dei
Moicani.
Cara Siena, torna presto, perché sono vecchio e non potrò aspettarti ancora per molto.
© 2003 Mauro Aurigi