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di FABIO FIGARA

    

Arcidosso, 10 settembre 2004

Attraversando il meraviglioso entroterra maremmano, entriamo ad Arcidosso, piccolo paese posto tra Siena e Grosseto, in cui si è svolta la leggendaria e triste vicenda di David Lazzeretti e dei suoi misteriosi adepti. Questi crearono una sorta di setta che viveva al di fuori della giurisdizione contemporanea vigente. E di questa setta troviamo le tracce per tutto Arcidosso, in questo ridente borgo sulla strada per il Monte Amiata.  

Si vede subito come la parte moderna non sia riuscita a sopraffare la zona più antica e misteriosa del paesino e, anzi, le due realtà appaiono al contempo distinte ma fuse, solitarie ma intrecciate.

L’inizio della parte più “vecchia” si scorge per le apparizioni delle croci (di ricalco “templare”?) sulle mura, spesso semi-nascoste dai fili dell’elettricità, sugli archi delle finestre e delle porte, ma anche su parti di metallo riutilizzate nel tempo, ad esempio su chiavistelli. Difficile dire che siano scherzi di un buontempone del luogo.

  

Arriviamo addirittura a vedere la casa dove è nato, dove adesso soltanto una lapide ne ricorda l’evento.

  

Avanzando tra i calli, tra le strade spesso tortuose, si vedono sui muri altre immagini, in alcuni casi derivanti da una simbologia sconosciuta, altre rappresentanti animali come l’Agnello con il vessillo, che proprio nel Medioevo era utilizzato spesso per rappresentare il Cristo Redentore e vincitore della morte, o come un enorme granchio, ovvero la costellazione del Cancro, che poteva avere per gli adepti chissà quale nascosto significato astrologico; per non parlare di simboli della massoneria, che rivivono in molti stemmi nobiliari.

 

   

 

  

E anche la piccola rocca interna al paese presenta dei segni ancora più curiosi: una mezza luna enorme e s’intravede una data, senza contare tutta una serie di scritte e di simboli che mal si scorgono, dopo tanto tempo.

 

Ma da un’altra parte si trova il fulcro dell’attività di Lazzeretti, a pochi chilometri da Arcidosso: Monte Labbro.    

 

Monte Labbro, 11 settembre 2004

A Monte Labbro può capitare d’imbattersi in una giornata uggiosa: quest’ultimo fattore non ci permette di vedere oltre tre metri in là dal nostro naso. La salita non è semplice, anche se metà tragitto abbiamo potuto farlo in automobile. Mentre passiamo sull’unica strada dissestata, notiamo un gruppo d’esploratori che, zaino in spalla, tagliano la fitta nebbia che gli avvolge, lasciando impronte profonde sul terriccio rossastro e reso fangoso dalle piogge frequenti. Devono sudare un sacco nelle loro mantelline policrome!

Ma anche noi, ad un certo punto, siamo costretti a fermarci. Un cancello di legno, oltre il quale possono introdursi soltanto gli operai addetti alla manutenzione della zona con delle macchine apposite. Scendiamo e lo attraversiamo.

La salita continua per un buon quarto d’ora. Troviamo anche un buon tratto di vegetazione, dove il muschio ha preso il sopravvento sui sassi emergenti dal terreno. Poi finalmente, dalla nebbia s’intravede una piccola campana che, senza pensarci due volte, suoniamo a turno, tirando l’enorme cavo di ferro penzolante da essa.

Pochi passi più avanti ancora e tutto risulta chiaro: siamo arrivati in cima! Un eremo abbandonato e distrutto in ogni sua parte, e di cui si conserva solo una piccola cappella che vediamo da una grata di ferro, la quale presenta altre croci incise; una sorta di piccola rocca di forma rotondeggiante con un'unica entrata, che all’interno ospitava probabilmente cerimonie esoteriche, e sul cui tetto si erge una croce nera, quasi fosse un monito; poi una galleria, anzi, un sottopassaggio, che si dice conduca addirittura ad Arcidosso, chilometri più a valle.

è in quest’ultimo che vediamo la cosa più interessante, anche perché è l’unico a cui possiamo accedere aprendo semplicemente un cancelletto di ferro arrugginito, posto per evitare che degli animali possano entrarvi e non far più ritorno, come purtroppo è già accaduto.

Ci addentriamo lentamente, osservando come le pareti sembrino restringersi ad ogni passo che effettuiamo. Scorgiamo delle scritte e altre croci, finché non c’imbattiamo in una raffigurazione di “Madonna”, una sorta di dipinto.

 

E ancora simboli cruciformi.

Poi entriamo in uno spazio più ampio, dove vediamo un altare bianco. Sopra di esso, attaccate al muro, due targhe poste ai lati, e al centro una preghiera incisa.  

 

Un’altra croce.

Lo strano sentiero si ferma: la parte seguente sembra essere crollata, e comunque è troppo rischioso addentrarsi oltre, senza torce o accendini. L’unica cosa utilizzata fino a quel momento per vedere è il flash della foto-camera, ma insufficiente per permetterci di fare di più.

Usciamo ma si scatena un temporale. L’acquazzone che ci sorprende è tremendo, e siamo costretti a fermarci all’entrata del pertugio.

Nel frattempo le persone incontrate durante la salita sono giunte a destinazione, appena in tempo per ripararsi con noi. Hanno quasi tutte un’età compresa all’incirca tra i quaranta ed i cinquant’anni e, proprio per questo, un barlume di stima nei loro confronti si accende nei nostri pensieri. Parlano nell’attesa, e ovviamente parlano di Lazzeretti e della sua setta.

Uno di loro è stato più volte dove ci troviamo, e ne sa parecchio: sa che il gruppo di David era divenuto talmente potente che accoglieva molte povere genti che fuggivano disperate dai latifondi sottostanti; sa che aveva una buona corrispondenza con molti potenti d’Europa. Crescendo gli uomini, aumentava il suo prestigio e aumentavano anche i possedimenti soggetti al suo controllo: troppo rischioso lasciarlo vivere. Una pallottola, che sembra addirittura di produzione francese, fermò i suoi pensieri, sul finire del XIX secolo. Dunque, intrigo politico?

La pioggia cala lievemente, e ci apprestiamo a correre verso l’automobile con questo quesito nella testa, mentre la nebbia riavvolge nella leggenda quello spettacolo incredibile.  

   

      

©2006 Fabio Figara.

   


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