Sei in: Storiamedievale ® Pre-Testi |
pagina 2
In Italia meridionale le prime opere di bonifica e sistemazione idraulica furono compiute in Sicilia dai Musulmani, i quali introdussero colture irrigue di agrumeti, cotone e canapa, sfruttando non solo le attitudini naturali del terreno, ma costruendo anche laghi artificiali, anticipando la moderna tecnica idraulica.
Nel Mezzogiorno peninsulare invece il panorama si presentava ben più degradato: qui la politica comunale non aveva attecchito come nel resto d’Italia, perché contrastata dal potere regio e feudale, il quale fino al XVIII secolo non affrontò seriamente il problema della sistemazione idrogeologica. Ciò significò assenza non solo di efficaci e durature bonifiche, ma anche di una tradizione di studi sulle acque, di usi e consuetudini largamente diffusi al nord.
Lo scarso interesse dimostrato dal potere centrale riguardo a queste opere non fu colmato dall’iniziativa privata di altre classi sociali o degli enti ecclesiastici. Gran parte dei feudatari, essendosi trasferiti nella capitale dove investivano le loro ricchezze, non avevano alcun interesse a bonificare la terra e a migliorarla; il ceto medio, formato da medici, notai, giudici ed altri ufficiali regi, che nei Comuni centrosettentrionali aveva costituito il nerbo della vita economica, in età angioina era ancora debole; assente era la ricca borghesia degli «industriali» e dei commercianti (il commercio era, infatti, nelle mani di Pisani, Fiorentini, Genovesi e Catalani, protetti dai privilegi concessi dagli Angioini).
Perché nel Mezzogiorno si realizzassero i necessari lavori di bonifica occorreva il concorso di circostanze favorevoli, le quali o mancarono del tutto o operarono in misura inadeguata. Il problema maggiore era rappresentato dall’assenza di capitale: i proventi dell’agricoltura, infatti, non venivano quasi mai investiti in migliorie; il commercio era nelle mani degli stranieri, quelle poche e modeste industrie esistenti difettavano o non producevano tanto da divenire esportatrici. A questo c’è da aggiungere la scarsa pressione demografica e soprattutto l’ordinamento della proprietà terriera. I diritti signorili, gli usi civici, le proprietà comuni a Universitates ed enti ecclesiastici, il divieto di mutare la coltura e la destinazione economica delle terre sottoposte a mano morta (le quali dal punto di vista igienico e agrario peggioravano progressivamente), il carattere feudale di gran parte del regno, durato fino agli albori del XIX secolo (se non oltre), la difficoltà a trasformare un possesso feudale in proprietà allodiale, impedirono la risoluzione non solo del problema della malaria, ma anche della trasformazione agraria [55], segnando il destino del Mezzogiorno.
L’operazione di bonifica, in qualsiasi epoca storica, è risultata utile sia per il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie del territorio, che per l’aumento del valore della terra stessa.
In Italia meridionale le zone afflitte sin dall’antichità dal paludismo e dalla malaria erano diverse e dislocate in più punti.
Lungo
la costa tirrenica, scendendo dalla Lucania alla Calabria, si incontra la piana
di S. Eufemia, impaludata dall’Angitola e dall’Anneto, la quale dopo aver
ospitato Terrina, uno dei più ricchi centri della Magna Grecia, andò
progressivamente incontro al degrado e all’abbandono (rendendo vani, ad
esempio, i tentativi di ripopolamento della pianura operati dai Normanni);
seguono la piana di Rosarno (anch’essa disabitata sin dall’antichità), e
quella di Gioia, che pur trovandosi in posizione geografica ed economica
favorevole era considerata «pestifera» per la presenza di paludi e maremme. In
questa pianura furono decimati dalle febbri palustri sia le truppe di Ruggero il
Normanno, in occasione della guerra contro suo fratello Roberto il Guiscardo,
sia l’esercito di Pietro d’Aragona nel 1283, durante la guerra del Vespro.
Superata la piana di Gioia la costa tirrenica calabrese si presentava ricca e
salubre. Le paludi ricomparivano sulla costa ionica a pochi chilometri da
Reggio, dal pantano delle Saline
[56]
alla spiaggia di Squillace, e di qua ai circondari di Crotone, Rossano e
Castrovillari
[57];
il primo centro abitato nei pressi del mare lo si rincontrava a Roccello Ionico.
In
condizioni analoghe si presentava la costa ionica della Basilicata, una delle più
desolate e malariche regioni d’Italia: lungo un percorso di 300 miglia, da
Capo Colonna a S. Maria di Leuca, fino alla metà dell’800 non sorgevano che
tre centri abitati, Crotone, Taranto e Gallipoli, che insieme raggiungevano
appena i ventimila abitanti. Le restanti terre erano pianure desolate ed
incolte, tra cui spiccava l’agro metapontino, che sin dall’età romana
godeva, dal punto di vista sanitario, di una fama negativa. Nel Medioevo,
precisamente nei secoli XIII e XIV, sorsero due centri, Torre di Mare e S.
Trinità, che ebbero vita breve: scomparvero lasciando solo il nome alle località.
Anche il porto di Metaponto nei secoli andò trasformandosi in una immensa
palude, quella di S. Pelagina
[58].
In
Puglia le paludi si sviluppavano tra Manfredonia, Otranto e Capo di Leuca, e fra
Taranto e Gallipoli
[59]:
il territorio tarantino e la provincia di Lecce furono devastati dalla malaria
sin dall’antichità. Le basse terre di Otranto, la valle dell’Idro con le
sue paludi dette Molviane, e i laghi di Alimini e Fontanelle erano, infatti, tra
le più pestifere; non da meno era il territorio di Manduria, con le paludi del
Tamari, del Chidro e del Burraco. Un’oasi era invece la provincia di Bari, con
manifestazioni di paludismo limitate a pochi stagni tra Barletta e Bari, e tra
Bari e Mola (lo stagno di S. Giorgio). Gravemente minacciata dalla malaria era
invece la Capitanata, la cui costa adriatica era disseminata di paludi, lagune e
stagni, a partire dalla bassa valle dell’Ofanto fino a giungere alle foci del
Fortore e del Biferno in provincia di Campobasso. Particolarmente malariche
erano le terre nei pressi dei laghi di Lesina, Salpi, Varano e del Pantano di
Salso. Le città di Siponto e Anzano, un tempo floridissime, gradualmente
decaddero perché decimate dalla malaria; Siponto, antico centro già disertato
in età romana, si ripopolò nel Medioevo, anche se di lì a pochi secoli
sarebbe nuovamente sprofondata nella solitudine e nell’abbandono. Come ha
recentemente osservato Raffaele Iorio ad un certo punto della storia sipontina
gli itinerari e i collegamenti col centro si interruppero bruscamente. In una
pergamena rogata il 18 marzo 1270 un certo Beneventus
si sottoscrisse come notaio «Siponti
Novelli». Non siamo di fronte ad una città rinnovata, bensì ad un centro
originale, ubicato più a settentrione. Re Manfredi, infatti, con una ordinanza
del novembre 1263 rendeva noto che, per garantire una esistenza migliore ai
cittadini e per la sopravvivenza della località stessa, «propter
ipsius locis intemperiem et imminentem ibi corruptione aeris», concedeva
agli abitanti il permesso di trasferirsi in una località vicina, senza indicare
l’ubicazione del nuovo sito
[60].
Anche
Napoli, la capitale, era circondata da paludi: a levante quella del Sebeto, a
ponente quelle di Coroglio e Bagnoli. Malariche erano anche le zone circostanti
i laghi di Licola, Fusaro, Averno, Lucrino, Maremorto e quelle di Patria; lo
stesso dicasi per l’intera provincia di Caserta e per il basso corso del
Garigliano e del Volturno; palustri erano anche i bassi terreni del Nolano, dove
erano presenti le industrie della canapa, e il territorio di confluenza fra il
Volturno e il Calore, in provincia di Benevento
[63].
In
Sicilia le paludi erano presenti lungo l’Alcantara, il Simeto e il Gorna,
intorno al lago di Lentini, sulla costa delle province di Catania e Siracusa e
fra Trapani e Mazara del Vallo
[65].
La
malaria, nel Medioevo come agli albori del XX secolo, ha sfibrato buona parte
della popolazione meridionale, perché era diffusa in quasi tutte le zone
inferiori ai 200-300 metri sul mare (talvolta veniva registrata anche oltre i
1000 metri, perché importata dal basso). Ad essa sono stati imputati i
fallimenti dei tentativi di colonizzazione compiuti dagli Svevi e dagli Angioini:
delle numerose famiglie francesi che accompagnarono Carlo I nel Meridione e che
ottennero in cambio dei loro servigi e della loro lealtà terre e feudi, solo
poche sopravvissero alla seconda generazione.
La
malaria è stata ritenuta un po' da tutti l’elemento perturbatore della vita
economica meridionale, perché ha contribuito allo spopolamento di città e
campagne, alla nascita del latifondo e al degrado di quelle terre che in diverse
condizioni ambientali e climatiche sarebbero risultate fertili. Data la
precarietà in cui il territorio versava, villaggi e campagne abbandonate dagli
abitanti, povertà diffusa e così via, fu un’impresa ardua per il potere
centrale attendere agli opportuni lavori di bonifica
[70].
I
sovrani normanni e svevi dal canto loro erano troppo presi dalla risoluzione di
problemi di politica interna e militare, per potersi dedicare a tempo pieno alla
correzione del regime idraulico, che tra l’altro non era così disordinato
come di lì a qualche secolo. L’unico intervento degno di nota è la bonifica
del lago Fucino, disposta da Federico II nell’aprile del 1240: l’imperatore
infatti ordinò a B. Pissono, giustiziere d’Abruzzo, di «purgari
et aperiri» il lago, in seguito ad una petizione degli abitanti di quelle
contrade. L’operazione di bonifica serviva a consentire un più facile
scorrimento delle acque superflue del lago «que
ipsum occupat inde labantur sicut antiqitus fieri consuevit»
[71].
Più
partecipi furono gli Angioini: Carlo I distrutta Lucera, la cui popolazione era
rimasta fedele agli Svevi, fece stabilire nei suoi pressi colonie di provenzali
allo scopo di colonizzare quelle ed altre zone della Capitanata, della
Basilicata e della Sicilia. Non è possibile tuttavia stabilire se i
provvedimenti presi dagli Angioini siano risultati efficaci per il risanamento
delle terre malariche. Carlo II, ad esempio, nel 1301 decretò la costruzione di
un canale che mettesse in comunicazione il porto interno di Brindisi col mare,
al fine di diminuire il paludismo nei dintorni della città. Nel secolo
successivo il canale fu chiuso con delle pietre, determinando, ovviamente, un
peggioramento delle condizioni igieniche del porto. L’incauto ordine fu
impartito dal principe Giannantonio Orsini, il quale non voleva cedere il porto
al re Alfonso d’Aragona. Sempre a Carlo II si deve la bonifica, a spese delle
Università limitrofe e del conte di Marsico, del corso del fiume nel Vallo
Diano. Qualche anno dopo furono intrapresi da Bartolomeo di Ariano, cittadino di
Pozzuoli, alcuni lavori per rendere navigabile il Volturno. Anche se
l’operazione non riuscì perfettamente, Bartolomeo nel 1393 ottenne da re
Ladislao il titolo di console. Successivamente, sia nei parlamenti pubblici del
1471 che in altre occasioni, si tornò a discutere di bonifiche dell’agro
campano e di opere da costruirsi lungo il Volturno per renderlo navigabile.
La
situazione territoriale sotto gli ultimi Angioini e gli Aragonesi subì un
peggioramento a causa dell’incuria dei sovrani, distratti dai continui scontri
dinastici, dalle congiure baronali e dalle ribellioni contadine. Il regno era
sempre più visto come terra da
sfruttare, per cui poco importava se i paesi venivano abbandonati, se la malaria
minava la vita delle popolazioni, se il regime delle acque diveniva sempre più
disordinato, invadendo le campagne
[72].
Malaria,
clima e siccità, tre «tradizionali e implacati nemici», come li ha definiti
il Caggese, furono spesso responsabili della desolazione di alcune importanti
città: nell’agosto 1324, infatti, un incaricato del giustiziere di Terra di
Bari, che aveva ricevuto l’ordine di vendere una certa quantità di zucchero a
Brindisi, comunicava l’impossibilità di portare l’impresa a compimento
perché la città si presentava deserta e spopolata
[75].
La
situazione si presentava identica dappertutto, tanto che i sindaci delle
Università implorarono «a gran voce, se non l’aria balsamica e la salute,
almeno lo sgravio dalle imposte ed un più umano atteggiamento dei funzionari».
In Capitanata, S. Lorenzo in
Carmignano ammorbata dalla malaria e da altre epidemie, era ormai incapace di
versare i contributi fiscali;
Civitate, già tormentata dalla malaria, fu ulteriormente devastata dal
terremoto del 1322, così come Ripalonga
[76],
distrutta da un incendio e dal clima iniquo. Pescara nel 1328 «propter
malitiam aeris» non era in grado di fornire marinai per le armate regie e
lavoratori per le saline; anche Aquino, spopolata dalla malattia, era incapace
di far fronte alle imposte
[77].
Per
ironia della sorte quello stesso duca di Calabria che con concessioni e licenze
aveva contribuito ad alleviare le sofferenze dei sudditi, il 9 novembre del 1328
morì a causa della febbre palustre
[78].
Tra
XV e XVI secolo l’unica attività che poté svilupparsi in quelle pianure
insalubri fu la pastorizia transumante, la quale durante i mesi critici della
malaria, estate e autunno, si trasferiva sugli altipiani appenninici. è
probabile che lo sviluppo della Dogana della Mena delle pecore fosse dovuto
anche a questa motivazione, oltre a quella di carattere demografico
[84].
Il binomio palude-malaria era ben noto sin dall’antichità: Varrone aveva avuto un’intuizione per metà vera, e cioè che nei pressi delle paludi vivono dei «piccolissimi animaletti», non visibili ad occhio nudo, i quali attraverso la bocca e le narici entrano nel corpo umano provocando malattie difficili a curarsi, «difficiles morbos». Secondo alcuni responsabili della malaria erano le acque palustri utilizzate come bevanda; altri invece pensavano alle zanzare come causa morbigena, ma non nel senso moderno di insetti inoculatori di parassiti, bensì depositari di un virus assorbito nelle paludi e ceduto alle acque con l’infusione dei loro corpi morti. Anche il fatto che la malaria fosse una malattia estiva era stato sottolineato in età antica. Nei secoli successivi si credette che, essendo gli abitanti dei luoghi paludosi e bassi i più colpiti, la malaria fosse determinata dall’aria grave, carica di miasmi e vapori esalati dalle materie in putrefazione nelle acque. Essa era quindi considerata il prototipo delle malattie miasmatiche.
Il
fatto era che il suolo, il clima e le acque dell’Italia meridionale favorivano
la diffusione dell’infezione: perché l’anofelismo prosperasse non era
necessaria la grande palude, bastava anche il piccolo acquitrino o il rivolo mal
drenato. La malaria era quindi intimamente legata a condizioni geologiche e
idrauliche quali l’abbassamento delle coste, la formazione di dune che
contrastavano lo sbocco in mare ai corsi d’acqua, i movimenti sismici che
modificavano il clivaggio delle rocce, precludendo il corso dei fiumi
[85].
A
Napoli, dove Carlo I promosse una intensa attività edilizia per rinnovare la
struttura urbana, furono intrapresi lavori per il prosciugamento della palude
nella regione nord-orientale, grazie ai quali l’intera campagna beneficiò di
canali di irrigazione, di costruzione di strade, di collegamenti tra città e
contado, di un ponte
[86].
Sempre
nel territorio napoletano nel 1301 Carlo II fece realizzare con criteri
d’avanguardia opere idrauliche e fognarie, le quali consentirono
l’incanalamento in serbatoi, grazie ad una rete di tubazioni sotterranee,
delle acque piovane e di scolo; vietò, inoltre che «nullus
habitans in vicis ipsis sordes, aut spurcitias aliquas in eis per fenestras,
januas vel aliter proicere audiat quibus aer inficitur postquam fuerint sic
gravati». Nei secoli successivi fu creato addirittura un tribunale addetto
alla vigilanza delle strade dal nome di «acque e mattonate», che unitamente a
quello addetto alle porte e alle mura della città, costituiva una sorta di
assessorato alle opere pubbliche ( i due istituti furono poi accorpati nel 1636)
[87].
Nel
1302 Carlo II fece eseguire importanti lavori nella zona del porto, il quale era
reso insicuro dai depositi di sabbia, limo e detriti accumulatisi in età
federiciana a causa del ristagno dei traffici marittimi, per cui furono drenati
i fondali ed eseguite opere di contenimento delle acque aperte. Le spese furono
talmente esose che il sovrano, non potendo affrontarle con le sole risorse
dell’erario pubblico, impose una gabella ai mercanti che si servivano delle
attrezzature portuali. I lavori idraulici, iniziati il 22 gennaio 1305, furono
portati a termine due anni dopo
[88].
Il
disegno di riorganizzazione del territorio intrapreso da Carlo II fu portato
avanti dai suoi successori: le iniziative di Roberto e di Giovanna I possono
essere considerate una continuazione del programma precedente. Unica eccezione
è rappresentata dalla collina di S. Eramo, la quale, sotto Carlo II non era
ancora stata interessata dal fenomeno di espansione extraurbana. Tuttavia,
questa lenta espansione della città sulla collina deve essere interpretata come
uno sviluppo del piano di Carlo II, perché, una volta urbanizzata la zona
circostante Castel Nuovo, fu necessario risalire le pendici dell’altura. In
quegli anni, infatti, furono costruiti palazzi, ville e il chiostro di San
Martino dei Cistercensi; fu quindi necessario aprire vie facilmente praticabili.
Lo sviluppo di iniziative edili determinò una trasformazione del paesaggio
agrario. La presenza di poggi e terrazze collegati da stradine fu il risultato
di un lungo lavoro di dissodamento e disboscamento, che permise l’impianto di
colture arboree e arbustive. Questa operazione di sistemazione del territorio
fece acquistare omogeneità al paesaggio, grazie soprattutto alla presenza di
filari di cipressi e pini, disposti regolarmente sui versanti delle colline. La
vegetazione, così come fu disposta, sembrava non solo assecondare l’andamento
del suolo, ma anche assolvere una precisa ed importante funzione, quella di
contenimento della collina, regolandone il regime idrogeologico. Era
indispensabile, infatti, evitare il rovesciamento a valle di torrenti di melma,
che si producevano facilmente durante la stagione delle piogge: tra le zone
maggiormente interessate dal fenomeno ricordiamo la collina di Capo di Monte e
le valli sottostanti, periodicamente sommerse dalla «lava delle Vergini». La
sistemazione del suolo comunque serviva non solo a cautelarsi dal pericolo di
frane e smottamenti, ma anche a favorire una produzione agricola più varia ed
intensa. In pianura invece una rete di fossi collettori permise la sistemazione
dei fondi paludosi convertiti in terreni destinati al lino o ai cereali. Queste
operazioni interessarono il vasto acquitrino presente all’esterno di Castel
Capuano
[89].
Per
quel che concerne invece gli acquedotti sappiamo che il 28 maggio 1275 Carlo I
scrisse al giustiziere di Terra di Lavoro perché imponesse ai cittadini di
Napoli e dei casali circostanti una sovvenzione di cento once d’oro da
affidare a Sergio Pinto di Napoli e Giovanni Siginulfo, uomini fedeli al re, con
il compito di pulire e riparare l’acquedotto che portava l’acqua dal fiume
Sarno alla sorgente Formelli di Napoli, e poi a tutte le fontane e pozzi sparsi
sul territorio. Tali condutture erano colme di melma e fango: un «periculo
manifesto» per gli abitanti. Gli stessi pozzi e fontane «propter
salutem tam hominum omnium, tam avium
quam scolarium et aliorum, etiam exterorum» dovevano essere spurgati e
ripuliti. I due incaricati dovevano inoltre badare che nelle condutture «nullum
immunditie lutum limositas vel sorder
remaneant», e se danneggiate «bene
reparari et copriri faciant, ut nulla
... sordes vel immunditia possit in ea descendere». L’acqua che era «quasi
fetida inutilis et corruptibiles ad bibendum», dopo gli opportuni
interventi doveva risultare purificata da ogni sporcizia, buona e utilizzabile
senza che generasse pericolo. Qualora fosse stata commessa qualche negligenza
durante i lavori, il re avrebbe comminato una pena severa
[90].
A
Capua gli abitanti furono tassati dalla Corona per raccogliere la somma
necessaria alla riparazione dell’acquedotto che conduceva l’acqua dal Monte
di S. Angelo in Formis a Capua. Carlo I nell’ordine specificava che la somma
doveva essere destinata alla «reparatione tantum et non constructione de novo facienda ...
convertendam». Qualora si fosse proceduto alla sua ricostruzione essa
sarebbe stata totalmente a carico dell’Università
[91].
Il
19 aprile 1279 Carlo I ordinò al giustiziere di Basilicata di far eseguire i
lavori di riparazione del palazzo fortificato di Lagopesole e specialmente
all’«aqueductus per quas aqua derivatur
ad fontem existentem», entro la fine di maggio, di modo che l’edificio
potesse essere abitato comodamente. L’acquedotto, infatti, necessitava di una
ripulitura dalla sabbia e dalle altre immondizie che ivi si trovavano, in
maniera tale che l’acqua potesse liberamente scorrervi
[94].
In
occasione della costruzione della rete idrica del castello di Lucera
(recentemente rinvenuta durante uno scavo), re Carlo I scrisse al giustiziere di Terra di Bari perché reperisse per il sabato
della vigilia delle Palme, a Trani e a Barletta, almeno dieci maestranze capaci
di scavare pozzi, e le inviasse a Goffredo di Bosco Guglielmo, responsabile
della costruzione castrense
[96].
Nel
marzo del 1279 si ordinava invece al giustiziere di Capitanata di far riparare
l’acquedotto di Lucera, affinché l’acqua pluviale potesse scorrere senza
impedimento ed essere convogliata nella cisterna della domus
regia
[97].
Anche
nella città dell’Aquila furono realizzate opere pubbliche essenziali, come
l’acquedotto costruito con la partecipazione di tutta la popolazione nel
1304-1305, «captando le acque di Santanza e convogliandole in un condotto di 8
palmi per 3 fino alla quota di due torrioni», e la grande cloaca, che scendeva
«fino sotto la Rivera», i cui lavori furono intrapresi in seguito ad un
decreto regio del 1312 in cui si ordinava di «togliere dall’interno della
città calcinaria et spurcitias», a testimonianza di una precaria
condizione igienica, ma anche di una grande vitalità
[100].
Il
24 gennaio 1277 Carlo I scrisse al giustiziere di Basilicata perché divulgasse «per singulas partes
iurisdictiones tue et sub certa pena» l’ordine di riparare ponti e strade
[104];
mentre agli abitanti di Gaeta qualche anno dopo fu concesso di ricostruire «pons
cuiusdam fluminis prope terram ipsam
Gayeti per quem ad terram eandem habetur aditus»
[105].
Tornando
alle paludi, c’è da aggiungere un’ultima cosa: per quanto potessero essere
nocive alla salute, esse erano ampiamente utilizzate per la caccia ai volatili,
la pesca, la raccolta delle canne. Il barone Giovanni d’Acaja, ad esempio,
concesse nel 1450 all’università di Otranto la facoltà di tagliare e
bruciare canne dalla palude la Cucuza di Segine, da quella di Vanze presso S.
Pietro delle Paludi e da quella di Campo Vetrano, facendo scorrere a suo
piacimento l’acqua dalla palude di Segine al mare, ricevendone in cambio
l’esenzione dei dazi sul vino mosto per 200 barili e sul pane, per sé e la
sua famiglia
[106].
Le
aree palustri, acquitrinose e torbose, o gli specchi d’acqua naturali o
artificiali, permanenti o temporanei, con acqua ferma o corrente, dolce,
salmastra o salata, compresi i tratti di mare la cui profondità non ecceda i
sei metri con la bassa marea, sono considerate zone umide, secondo la
definizione data dalla Convenzione Internazionale di Ramsar del 1971. Nella sola
Italia in passato esistevano circa tre milioni di ettari di zone umide, pari al
10 % dell’intero territorio peninsulare, che secoli e secoli di
prosciugamenti, sfruttamenti e vari inquinamenti hanno ridotto a soli
duecentomila ettari, dei quali cinquantamila sono stati dichiarati di importanza
internazionale. Il fatto è che nelle regioni mediterranee paludi, laghi, lagune
svolgono una funzione importante non solo per la fauna selvatica ma anche per la
riduzione dei rischi di inondazione, per la protezione costiera e per
l’alimentazione della falda freatica, che fornisce grandi quantità di acqua
potabile alle città. Purtroppo in passato tali aspetti non sono stati presi in
considerazione perché ignorati, per cui i paesi europei hanno distrutto più
del 60 % delle loro zone umide, perché considerate ambienti infestati dalla
malaria, pieni di zanzare, terreni da drenare, riempire o comunque convertire in
area coltivabile. Con la scomparsa di queste aree, o meglio di questi «ecosistemi»,
molte specie di animali hanno subito un forte calo, perché quasi la metà di
esse dipendono dagli ambienti umidi. Solo oggi è possibile misurare i danni
causati dalla scomparsa di queste zone di svernamento e di sosta lungo le rotte
migratorie degli uccelli. Esse inoltre, trattenendo l’acqua per gran parte
dell’estate, risultano molto produttive: la vegetazione acquatica si riproduce
velocemente raggiungendo anche le 40 tonnellate di biomassa vegetale per ettaro
all’anno. Altra ricchezza è la pesca: si pensi alle lagune italiane
nord-adriatiche. Tali zone umide tuttavia sono ecosistemi complessi che
richiedono da parte dell’uomo un’attenta gestione. Il fatto è che sono
davvero pochi i fiumi che seguono il loro corso naturale, perché nella maggior
parte dei casi essi sono stati sbarrati, cementati o prosciugati. Il futuro
delle zone umide del Mediterraneo europeo dovrebbe essere stabile perché ne è
ben riconosciuto il grande valore ambientale
[107].
Con
quanto detto non si vogliono affatto mettere in discussione gli interventi di
bonifica compiuti in passato, senza i quali le popolazioni meridionali sarebbero
state decimate dalla malaria. Quelli medievali furono comunque dei piccoli,
limitati ed empirici tentativi, visto che le zone e le località interessate dal
paludismo e dalla malaria erano tante. Nella sola Puglia, ad esempio, la
bonifica su larga scala del territorio significava debellamento di acquitrini,
acqua stagnanti e paludi, frequenti soprattutto nel Barlettano dove, non di
rado, l’Ofanto straripava, sui litorali salentini e in tutte le zone lacustri
e prossime agli sbocchi in mare dei corsi d’acqua. Queste zone erano
interessate più che da interventi di bonifica da uno sfruttamento per la caccia
e la pesca che vi si praticava ampiamente
[108].
In
conclusione, è opportuno porre l’accento su alcuni degli ostacoli incontrati nel corso della ricerca. Il presente lavoro non
ha affatto la pretesa di aver affrontato in maniera esaustiva problematiche
complesse, inusuali (dato il periodo storico cui si riferiscono) e soprattutto
poco studiate. La maggiore difficoltà, di ordine bibliografico, è consistita
nel reperimento non tanto delle fonti, la maggior parte delle quali abbondano di
informazioni utili, quanto della letteratura storiografica, datata se non,
talvolta, inesistente.
NOTE
[56]
F. Genovese,
La malaria nel Mezzogiorno d’Italia, Roma 1927.
[57]
P. Corti,
Malaria e società contadina nel Mezzogiorno, in Storia
d’Italia, Annali VII, a. c. di Della Peruta, p. 642: le paludi erano inoltre
presenti fra il circondario di Nicastro e una parte del comune di Monteleone e
Palmi.
[58]
Genovese,
La malaria cit., pp. 15-17.
[59]
Corti,
Malaria e società cit., p. 462.
[60]
R. Iorio, Siponto, Canne,
in Itinerari e centri urbani nel
Mezzogiorno normanno-svevo (Atti delle X giornate normanno-sveve, Bari, 21-24 ottobre 1991), a.c. di G. Musca,
Bari 1993, p. 399: secondo l’A. la preoccupazione principale di Manfredi
sembra essere il porto, anzi il nuovo porto, perché stabilisce « ut victualia
omnia (....) qua per mare concesserimus extrahenda per quoscunque de
jurisdictione ipsa extrahi debeant, et liceant de portu civitatis eiusdem et non
alio tantummodo extrahantur», ibidem.
[61]
Matteo Spinelli,
Diurnali(1247-1268), in G.
Del
Re,
Cronisti e scrittori cit., vol. II, p. 727.
[62]
Filangieri,
Territorio cit., p. 208.
[63]
Genovese,
La malaria cit., pp. 17-19.
[64]
Filangieri,
Territorio cit., p. 207.
[65]
Corti,
Malaria e società cit., p. 642.
[66]
I. Peri, Uomini, città e
campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo, Bari-Roma 1978, p. 7.
[67]
S.
Tramontana, La
monarchia normanna e sveva, Storia
d’Italia, a.c. di G. Galasso, vol. III, Il
Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983, pp. 451-452.
[69]
A. Ioli-Gigante,
Messina [Le città nella storia d’Italia], Bari 1980, p.19.
[70]
Ciasca,
Le bonifiche cit., pp. 23-24.
[71]
J.L.A. Huillard-Bréholles,
Historia Diplomatica Friderici II
(d’ora in poi H.B.), V, 2, pp.907-908: «Fredericus, etc, B. Pissono
justitiario Aprutii, etc. Accedens ad presentiam nostram Theal., magister operis
lacus Fucini, fidelis noster, proposuit coram nobis quod cum dudum ad petitionem
hominum contrate mandaverimus Hectori de Montefuscolo tunc justitiario Aprutii,
fideli nostro, ut formas ipsius lacus que propter operis constructi malitiam et
vetustatem erant pone ruinam, purgari et aperiri faceret, ut atque superflue
Fucini que ipsum occupant inde labantur sicut antiquitus fieri consuevit, et
idem justitiarius juxta formam mandati nostri ad executionem ipsius operis
processisset».
[73]
Caggese,
Roberto cit., vol. I, p. 87.
[74]
Idem, pp. 66-67 (doc. del 29 maggio
1307).
[75]
Per tutte queste notizie cfr. Caggese,
Roberto cit., vol. I, pp. 496-500.
[76]
Ripalonga, citata sia in alcune chartae della
Capitanata che in uno degli atti della Cancelleria angioina (R.A., n. 235, 13
febbraio 1322) di cui ci ha lasciato memoria il Caggese, non compare nell’elenco delle località scomparse della Capitanata, redatto da M.
S. Calò Mariani nella prefazione all’edizione italiana dell’opera di A. Haseloff,
Architettura sveva nell’Italia
Meridionale, Bari 1992.
[77]
Caggese,
Roberto cit., vol. I, pp. 635-637.
[79]
Cfr. Pietro da Eboli,
Liber ad honorem Augusti, in Fonti per
la Storia d’Italia, a.c. di G. B. Siracusa, Roma 1906, vv. 466-81 (a.
1191); Anonimo Cassinese,
Cronaca (1000-1212), in Del
Re,
Cronisti e scrittori cit., vol. I, pp.
472-73 (a. 1191): «Imperator infirmus, majori parte suorum, aeris intemperie,
mortua, captis obsidibus de Sancto Germano...»; Riccardo
di San
Germano, Chronicon, ivi, vol. II, p. 9 (a. 1191): «Cumque nec viris nec viribus pugnando proficeret,
superveniente aegritudine, degressus est abinde vel invitus, qui...».
[80]
Che Enrico VI abbia nuovamente contratto la malaria durante la sua permanenza in
Sicilia è avallato sia da alcuni dati di fatto, come la presenza nell’isola
di estese zone paludose e insalubri e la periodicità con cui l’infezione si
manifesta, che dalle fonti. Riccardo di San Germano, infatti, così narra
l’avvenimento: «Guillelmus
Monachus, qui Castellanus erat castri Johannis, rebellavit Imperatori, ad quem
obsidendum cum ipse personaliter accederet Imperator, superveniente aegritudine,
abinde infirmus discendens, sicut Domino placuit, diem clausit extremum», in Riccardo
di San
Germano,
Chronicon, cit., p. 15 (a. 1196). Il riferimento alla partita di
caccia è invece una tesi avanzata da Ciasca,
Storia delle bonifiche cit., p. 21.
[82]
nicolai
de iamsilla, De
rebus gestis Frederici II cit., pp. 117-118.
[83]
saba
malaspina,
Rerum Sicularum historia (1250-1285), in Del Re, Cronisti e
scrittori cit., vol. II, pp. 210-211.
[84]
filangieri,
Territorio cit., p. 209.
[86]
De
Seta,
Napoli cit., p. 41.
[87]
camera,
Annali cit., vol. II, pp. 84-85; il provvedimento è contenuto anche
in Minieri-Riccio,
Studi Storici cit., p. 83, Reg. 1300-1301.
[88]
camera, Annali cit., vol. II, pp. 90-93. Del porto di Napoli si è occupato
Giuseppe Galasso in una relazione presentata alle X giornate normanno-sveve dal
titolo Napoli e il mare. La relazione,
esaustiva quanto a descrizione delle vie di traffico, dei commerci e
dell’arsenale del porto, non accenna tuttavia alla condizione dei fondali e
alla praticabilità del porto in età sveva: G.
Galasso,
Napoli e il mare, in Itinerari
e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo cit., pp. 27-37.
[89]
De
Seta,
Napoli cit., pp. 58-61.
[90]
R.A. XIII (1275-1277), n. 191, p. 247-248. L’ordine viene nuovamente ribadito
ai cittadini di Napoli: idem, n. 219,
pp. 257-258. Dal Camera apprendiamo che una prima operazione di bonifica
dell’acquedotto napoletano, forse disattesa dagli abitanti, era stata già
disposta da Carlo I nel 1268 (Annali
cit., vol. I, p. 290). Anche i pozzi, le cisterne, l’acquedotto e i canali di
scolo del castello furono sottoposti periodicamente ad operazioni di pulizia,
come si evince da un ordine di Carlo al baiulo di Napoli: «purgari et mundari
facias, actentius curaturus quod ... nullam committas negligentiam ...», R.A.
II (1265-1281), n. 251, p. 71.
[91]
R.A. XI (1273-1277), n. 217, p. 134.
[92]
R.A. XIV (1275-1277), n. 192, pp. 38-39. Nel marzo 1278 re Carlo ordinò ancora
una volta di accomodare gli acquedotti sotterranei che dal Monte di S. Angelo in
Formis conducevano l’acqua nella città per uso sia dei cittadini che della
regia Camera, in R.A. XVIII (1277-1278), n. 234, p. 120.
[93]
Caggese,
Roberto cit., vol. I, p. 411.
[94]
R.A. XX (1277-1279), n. 453, p. 170; R.A. XXI (1277-1279), n. 224, pp. 147-148.
[95]
R.A. XXVII (1283-1285), n. 166, pp. 29-30.
[96]
R.A. XIV (1275-1277), n. 334, p. 204. Sappiamo che canali e acquedotti furono
fatti costruire anche nel castrum di
Bari: R.A. XIX (1277-1278), n. 300, p. 193. Dei problemi inerenti al
rifornimento delle materie prime, indispensabili per la costruzione e
riparazione di domus e castelli, e della direzione dei lavori si è occupata
Benedetta Cascella in un recente saggio, nel quale è illustrato il
funzionamento della rete gestionale delle foreste e degli spazi boschivi del Regnum
dall’età normanna a quella angioina: B.
Cascella,
I «Magistri Forestarii» e la gestione
delle foreste, in AA.VV. Castelli,
foreste, masserie, potere centrale e funzionari periferici nella Puglia del
secolo XIII, a.c. di R. Licinio, Bari 1991, pp. 47-94.
[97]
R.A. XXI (1278-1279), n.111, p. 106.
[98]
haseloff,
Architettura sveva cit., pp. 80-81.
[99]
R.A. XVIII (1277-1278), n. 588, p. 281 e n. 281, p. 299; R.A. XXII (1279-1280),
n. 282, p. 63. Poichè la Corona non sapeva a quali comunità spettasse la
manutenzione della conduttura, il giustiziere era tenuto ad accertare la località.
L’obbligo alla manutenzione della conduttura quindi non spettava alle stesse
comunità che dovevano provvedere alla domus; per questo, conclude Haseloff, si
può supporre che la conduttura d’acqua fosse un impianto esteso proveniente
da lontano, in haseloff,
Architettura sveva cit., p. 81.
[100]
A. clementi, L’Aquila [Le
città nella storia d’Italia], Bari 1986, p. 45.
[101]
M. Pastore,
Fonti per la storia di Puglia: regesti dei Libri Rossi e delle pergamene
di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza, in Studi
in onore di G. Chiarelli, a.c. di M. Paone, II, Galatina 1973, pp. 223-224,
doc. n. 6 (1334, 10 giugno).
[102]
R.A. XXXII (1289-1290), n. 317, p. 187: «Carlo Martello (principe di Salerno e
reggente del regno) ordina opere di pubblica utilità come bonifiche di terreni
e costruzioni di vie».
[103]
Caggese,
Roberto, vol. I, p. 293.
[104]
R.A. XV (1266-1277), n. 84, p. 86.
[105]
R.A. XXIII (1279-1280), n. 217, p. 304; R.A. III (1269-1270), n. 209, p. 138; e
n. 102, p. 111.
[106]
Pastore,
Fonti per la storia cit., pp. 246-247, doc. n. 26 (1450, 16 maggio,
ind. XIII, Alfonso I re, a. XVI, Giovanni Antonio del Balzo Orsini conte di
Lecce, a. V, Lecce).
[107]
S. Skinner, L’importanza
delle zone umide per l’ecosistema mediterraneo, in «Panda», mensile del
W.W.F., 3 (marzo 1994), pp. 19-20.
[108]
Licinio,
Uomini e terre cit., pp. 95-96.
©1998-2007 Mariangela Binetti.