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di Agostino Paravicini BagliaNI  

Esce l'antologia curata da Michele Pereira per i Meridiani - La pietra filosofale e la resurrezione di Cristo - I francescani e la dottrina della quinta essenza - L'elixir di Avicenna, le "ricette" di Scoto, l'"essenza sottile" di Paracelso - Per Goethe i testi magici erano monotoni, Newton invece li apprezzava.

     
Per Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), uomo di scienza oltre che massimo scrittore tedesco, gli scritti alchemici erano di una «insopportabile monotonia», che «come uno scampanio ininterrotto induce più alla pazzia che al raccoglimento». Il giudizio dell'autore del Faust suonava di condanna per un genere letterario che aveva nutrito la cultura europea per quasi quindici secoli. Che la letteratura alchemica abbia invece una sua dignità culturale viene ampiamente dimostrato dall´antologia di testi alchemici che Michela Pereira ha curato per i Meridiani (Alchimia. I testi della tradizione occidentale, Mondadori, pp. CXXXVI - 1566).

Qualche decennio prima di Goethe, il grande scienziato inglese Isaac Newton (1643-1727) scrisse di alchimia, ritenendola capace di «guardare al principio divino nella e attraverso la natura». L'opera alchemica, aggiungeva, è congiunzione e generazione ed è quindi paragonabile all'essere umano, che discende «da padre e da madre, che sono il sole e la luna». La riduzione alla materia prima è il suo obiettivo principale, ma prima «deve essere purificata».

Ancora nel Settecento, in un trattato che Goethe conosceva, si legge che l'alchimia permette «di apprendere il bellissimo e semplicissimo ordine della natura», operando «sia dissolvendo, sia coagulando, in tutte quante le cose del mondo, sempre passando attraverso i gradi intermedi». L'alchimia è insomma ricerca dell'universale, del primordiale e della materia prima che, nata nel caos, si rigenera; ed è così che «l'acqua caotica diventa lo sperma universale di tutte le cose, detto comunemente anima o spirito del mondo».

Erano secoli che in Occidente si sognava e si scriveva di alchimia. Le più antiche ricette risalgono all´epoca di Costantino (IV secolo). Sono pratiche di «magia ludica» che mirano all'imitazione di oro ed argento, di pietre preziose, della tintura di porpora. Poco dopo appare l'associazione fra metalli e pianeti, ossia fra oro e argento, sole e luna. E nascono i primi simboli alchemici, l'uovo e il serpente, che mettono in relazione l´opus con la realtà cosmica.

Sorgono allora anche i primi apparecchi per la distillazione che Maria l'Ebrea descrive in un trattato sui forni andato perduto. Ma per Maria, i metalli erano composti di corpo, spirito e anima, come gli esseri viventi, cosicché l'alchimia non è più soltanto tecnica di trasformazione dei metalli, ma strumento di purificazione dei corpi, alla ricerca della perfezione: «E questa è l'opera: ciò che è generato è perfetto». L'alchimia diventa «chimica mistica», che «consiste in simboli, grazie ai quali i corpi estratti dalle miniere e trasformati diventano piani ed eterei».

 

Jabir ibn Hayyan (Geber, 721-815 circa) in un codice del XV secolo (Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze), e una delle sue opere.

Secondo Geber, il padre fondatore dell'alchimia araba, riprodurre la vita artificialmente è opera che perfeziona la natura, le dà una nuova nascita, in un continuo va e vieni tra il manifesto e l'occulto, tra l'interno e l'esterno, tra unione e dissoluzione, di corpi e di spiriti: «I corpi si sciolgono per gli spiriti e gli spiriti si condensano per i corpi: ciò è quello che si richiede a una tintura completa e rapida». Ed è per questo che l'alchimista ha bisogno del fuoco, elemento unificatore: «Infatti è il fuoco che decide la natura delle cose».

Nell'Europa cristiana medievale, la scienza alchemica penetra insieme alle traduzioni della scienza araba, dalla metà del XII in poi. Nel Testamento di Morieno Romano, tradotto da Roberto di Chester nel 1144 da un originale arabo andato perduto, l´opera alchemica è paragonabile al processo biologico del concepimento, della gravidanza e della nascita. Così disse Morieno al califfo: «Nel portare avanti quest'opera, ti sono necessarie le nozze, il concepimento, la gravidanza. Quest'opera somiglia alla creazione di un uomo». Anche negli scritti alchemici attribuiti ad Avicenna, l'elixir - definito «grande tesoro» - contiene in sé il principio della vita: «l'Uomo è dunque il magistero, cioè l'elixir»!

Intorno al 1200, Michele Scoto, il celebre astrologo dell'imperatore Federico II di Svevia, è cosciente che è dalla civiltà araba che l'Occidente ha ricevuto «questa nobile scienza assolutamente ignorata dai latini» (Europei): «nessuno ne sapeva nulla». Le ricette che egli descrive sarebbero il frutto di lunghi esperimenti: «Prendi del piombo e fondilo tre volte con calce, arsenico rosso, vetriolo sublimato, allume zuccherino, sempre immergendolo nel succo della portulaca marina e del cetriolo selvatico. E vedrai che il piombo si trasforma in ottimo sole, buono come il sole d'Arabia. Io, Michele Scoto, ho provato molte volte questa ricetta e l'ho sempre trovata vera».

Sono decenni fondamentali per la diffusione dell'alchimia in Occidente, soprattutto grazie ai francescani. Due generali dell'ordine, frate Elia da Cortona, un discepolo di san Francesco, e il provenzale Ramon Gaufredi hanno praticato l'alchimia. Intorno al 1260, Bonaventura d'Iseo propone l'elixir sotto forma di acqua medicinale:
«Delle acque artificiali si fanno a partire degli spiriti dei metalli, alcune dai metalli stessi, per esempio dall'argento, dallo stagno, dal piombo ecc.». In quegli stessi anni nasce con Ruggero Bacone la medicina alchemica (Alchimia e medicina nel Medioevo, Sismel Edizioni del Galluzzo, pp. 400), che si fonda sull'idea che vi è analogia tra la medicina dei metalli e la medicina dei corpi, così che sarebbe possibile «prolungare la vita per molti secoli», grazie all'oro che viene "preparato" dall'alchimia. Sulla scia di Bacone, il Testamentum, dedicato nel 1332 a Edoardo III re d'Inghilterra, affermerà che pietra filosofale «trasforma ogni corpo imperfetto in sostanza capace di fare il vero sole e la vera luna, capace di guarire tutte le malattie del corpo umano; conforta le energie e le moltiplica, tanto da ringiovanire i vecchi».

A metà del Trecento, Giovanni da Rupescissa, un altro francescano, applica il processo di trasmutazione all'alcol distillato dal vino, che produce un farmaco detto «acqua di vita» e «acqua ardente». è la dottrina della «quinta essenza», quinta perché si aggiunge ai quattro elementi che sublima. La quinta essenza - «che l'Altissimo ha creato per preservare le quattro qualità del corpo umano» - si estrae dal vino («In ogni vino puro si cela la quinta essenza: stai bene certo che è la verità») ma anche dal sangue umano e serve a produrre l'elixir per eccellenza, l'oro «che incorpora in sé tutte le proprietà del sole celeste». 

La quinta essenza produce miracoli e può aiutare la missione evangelica dei «poveri di Cristo», è un'alchimia che Lorenzo da Bisticci (inizio XV secolo) definirà addirittura come «il Cristo delle medicine». Nelle immagini alchemiche, la resurrezione di Cristo simboleggia la pietra filosofale, un'idea che verrà accolta dallo stesso Lutero: «L'arte alchemica mi sembra interessantissima anche per quella bellissima allegoria della resurrezione dei morti nel giorno del giudizio».

Un grande passo avanti sarà compiuto da Paracelso (1493-1541) - il «Lutero dei medici», come lo chiamarono i suoi detrattori - secondo cui l'alchimista deve ottenere l'«essenza sottile» (arcanum) delle sostanze medicinali in collegamento con le energie macrocosmiche. Inoltre, la separazione, compiuta nei processi di calcinazione, sublimazione e distillazione, elimina il veleno che si trova in ogni sostanza se «la materia è racchiusa ben sigillata nel vaso filosofico e affidata al fuoco segreto».

Nel Rinascimento nascono nuove allegorie di sostanze e procedimenti alchemici che illustrano figure della mitologia classica, come quella del Vello d'oro. L'alchimia si trasforma sempre più in linguaggio, diventa «crogiuolo di parole», al cui centro appare però sempre «l'individuazione della materia prima, che non ha un nome e può averli tutti». è un linguaggio che cerca di dire l'indicibile, servendosi di un simbolismo che cela la «segreta aspirazione all'integrazione della mente col mondo».

L'alchimia è «una linfa nascosta», «un fiume carsico», fatto di segreti e di esoterismo, ma anche di poesia e di scienza, di tecnica e di simboli, di spiritualità e di materialità. Ha nutrito per secoli i sogni della salute perfetta e del prolungamento della vita, soprattutto a favore dei potenti (Chiara Crisciani, Il papa e l'alchimia, Viella, pp. 218) ed ha conosciuto crisi (Le crisi dell´alchimia, Sismel Edizioni del Galluzzo, 1992) e condanne (bolla Spondent di Giovanni XXI, 1317, contro i falsari).

Ma essa è nata per spingersi nelle profondità della materia riflettendo sul molteplice e «sull'infinita e cangiante varietà del mondo della materia», in alternativa al pensiero scientifico e filosofico dominante. L'alchimia vuole riprodurre in laboratorio la creazione, mettendone la materia-energia al servizio della dimensione umana; è sogno prometeico dell'homo faber (Mircea Eliade).

Insomma, è una storia letteraria fra le più affascinanti, che l'antologia di Michela Pereira ci permette di seguire nella sua straordinaria diversità e linearità.

  

     

©2007 Agostino Paravicini Bagliani. Articolo pubblicato da "La Repubblica" del 7 gennaio 2007. 

        


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