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di Anna Airò

 

L’argomento centrale di questa tesi [*] è la storia della politica e delle istituzioni locali tarantine nel XV secolo. L’organizzazione tematica insiste su tre blocchi di questioni – scrittura, norme, sistema politico locale - che corrispondono a tre diversi livelli di lettura dei documenti di cui mi sono servita: per questo preciso motivo intendo illustrarne la struttura descrivendo parallelamente la natura della fonti ed il percorso e le opzioni metodologiche che la loro utilizzazione ha comportato.

L’unico tipo di fonte documentaria di cui disponiamo per tentare un’operazione del genere è costituita, come per gran parte della storia antica, sostanzialmente di discorsi politici. Certo, i discorsi pubblici dei tarantini del Quattrocento presentano caratteristiche intrinseche, in primo luogo il sistema di codificazione ed il canale della trasmissione scritta, radicalmente diverse dal codice letterario delle fonti che gli antichisti usano per ricostruire la storia politica delle città classiche. Senza dubbio, non si tratta, infatti, del discorso di un re spartano riportato e mediato dalla rielaborazione di uno storico come Tucidide [1] né tanto meno della rappresentazione e della messa in scena della vita e della concezione politica ateniese contenute in una tragedia di Eschilo [2].

I discorsi dei tarantini ebbero, infatti, un’esistenza assolutamente particolare che è bene riassumere nei suoi tratti più significativi per avere un primo quadro sintetico delle loro peculiarità. La loro genesi è nel dibattito assembleare locale: nascono come discorsi tra tarantini con una finalità primaria latamente giuridica. Diventano da subito testi scritti, subendo una prima locale messa per iscritto, poiché, in realtà, il loro percorso legislativo è itinerante: giungono al sovrano sotto forma di piccole orazioni di suppliche e petizioni, tornando quindi ad uno stadio di oralità, perché placitate assurgano allo stato di norme. Il canale di trasmissione definitivo è quello scritto in forma di aggregati di capitoli all’interno del privilegio cancelleresco. La destinazione normativa è locale nel senso più concreto del termine: sono le leggi che si osserveranno in città o i privilegi di franchigia che renderanno immuni non solo la collettività dei tarantini ma ogni singolo «cives» nei diversi territori del Regno in cui si sposterà; così come locale è la conservazione nell’archivio municipale tarantino.

Questi discorsi conoscono, allora, dalla primitiva enunciazione orale alla codificazione scritta una breve ma complessa metamorfosi: l’alternarsi di diversi stadi formali (orale/scritto), diverse e precise finalità per ciascuno degli stadi del processo. Sicché alla fine la sistemazione nel privilegio sovrano trascina e assomma in sé in modo stratificato le loro molteplici matrici e i loro diversi livelli di identità: sono concioni, poi orazioni, poi norme e regole istituzionali.

Ad ogni modo, da un punto di vista delle disponibilità documentarie non vi sono alternative: occorre fare storia dell’attività politica dei tarantini esclusivamente sulla base di questi discorsi. Ho ritenuto quindi prioritario individuare un metodo di lettura e di indagine che non eludesse le specifiche questioni ermeneutiche poste dalla natura discorsiva di queste fonti e che permettesse di recuperare i significati storici di ciò che vi si dice ed afferma senza appiattirne il senso riducendolo alla mera parafrasi dei testi in cui sono trascritti [3]. Mi è parso da subito evidente che un approccio descrittivo sarebbe risultato assolutamente insufficiente. Trattandosi sostanzialmente di brevi testi politici ho creduto opportuno adottare una metodologia che può essere individuata in quella vasta area di pratiche interpretative ascrivibili all’analisi del discorso [4].

Tuttavia la fisionomia testuale di queste fonti è talmente complessa che l’analisi del discorso è solo uno dei mezzi usati nel corso della ricerca. Distinguere preliminarmente e descrivere analiticamente tutti gli elementi di cui si compongono e tutti i possibili livelli di lettura servirà a chiarire la costruzione tematica della tesi ma pure a dar conto delle scelte ermeneutiche di volta in volta compiute.

Scendendo nello specifico un primo livello di analisi si è rivolto alla lettura stratigrafica delle fonti per rilevare e riportare in superficie l’intera sequenza delle pratiche istituzionali che sono a monte dei discorsi e allo steso tempo le pratiche della loro scritturazione e quelle del documento cancelleresco in cui i discorsi-orazioni dei nunzi sono inscritti. Per compiere una tale operazione ho fatto ricorso agli strumenti metodologici elaborati dalla linguistica testuale, dalla pragmatica e dell’analisi lessicale. Sulla base delle considerazioni suggerite da questo tipo di studio ho quindi ritenuto di poter identificare un primo tratto della struttura di queste scritture che ho definito «residuale», in una duplice accezione: esse sono, infatti, residuali sia rispetto agli stadi intermedi della loro produzione sia rispetto alle pratiche politiche che vi sono trascritte; sono, cioè, ciò che resta di tante azioni pratiche, di un iter legislativo ed istituzionale per nulla lineare.

L’attenzione si è poi progressivamente focalizzata su un secondo tratto fisionomico dei discorsi: quello d’essere al contempo anche delle norme ratificate e trasmesse per questa specifica ragione all’interno della cornice formale dei privilegi sovrani. La teoria degli atti linguistici mi ha permesso di rendere alle parole contenute in ognuna delle partizioni che la diplomatica individua nel documento pubblico e a singoli segmenti del formulario la forza illocutoria delle azioni concrete che esse attuavano. È stato così possibile delineare non solo le relazioni politiche e le pratiche di negoziazione con il potere centrale attraverso le quali la comunità locale stabiliva le proprie norme; ma pure la concezione del potere regio che il formulario del privilegio veicolava e i dispositivi formali in esso predisposti per l’applicazione territoriale delle norme stesse; la rappresentazione dei ruoli e delle gerarchie istituzionali; l’identificazione di un preciso linguaggio politico allo stesso tempo strumento di trasmissione del comando ed espressione di un patrimonio di valori etici.

Mi preme a questo punto, comunque, precisare e credo risulterà evidente dallo sviluppo concreto della trattazione che ho inteso il ricorso alla linguistica non come un fine ma come il più adatto degli strumenti ermeneutici per fonti così discorsive. Credo che lo storico possa con profitto ampliare il questionario dei linguisti adattandolo ai propri specifici interessi, alle priorità del proprio programma investigativo senza smettere d’essere uno storico. Anzi se c’è un aspetto di originalità nell’approccio linguistico alle fonti storiche non è tanto l’uso della linguistica in sé perché, in verità, da parte loro i linguisti e in Italia soprattutto gli storici della lingua non hanno mai trascurato di porre attenzione ai testi storici o giuridici [5]. L’aspetto innovativo è piuttosto l’uso che della linguistica lo storico [6] può fare come leva per una lettura in profondità delle fonti e, sembrerà paradossale, per risalire dalla dimensione testuale a quella fitta trama di azioni, intenzioni, contesti e saperi extratestuali che la scrittura dei documenti può talora trattenere in un cono d’ombra proprio perché inscritti in maniera interstiziale fin dentro alle parole o alle soluzioni pragmatiche.

L’ultimo livello ha riguardato, poi, il contenuto di questi discorsi, la loro essenza e la loro finalità principale, quella per cui erano proferiti e progettati: essi divenivano infine regole delle istituzioni. Anche in questo caso, però, l’approccio è stato genetico. Mi spiego. Leggendo il testo di queste regole ho spesso avuto l’impressione di un certo ermetismo del dettato. In molti casi era assai difficile capire a cosa facessero riferimento non solo per il linguaggio tecnico cui facevano ricorso, per la distanza lessicale, per la mancanza di una punteggiatura certa ma proprio per il modo in cui erano scritte, per il grado di esaustività che da storico avrei auspicato, per quello a cui accennavano e che però non approfondivano. Ho dunque compreso ancora una volta sulla scorta dei suggerimenti della pragmatica testuale che il fenomeno della mancata esaustività informativa di queste regole, della loro «imperfezione», si basava su un processo noto ai linguisti come «inferenza» [7]. Il loro dire esprime certe cose ma ne sottende molte altre: essenzialmente perché ciò che è sotteso si presume dato dell’esperienza comune. La loro scrittura ha come destinatario un lettore «implicito» [8] coevo che conosca la situazione descritta, in grado di colmare sulla base di quella conoscenza le lacune di un modo di scrivere che a noi pare disseminato di salti logici ed informativi.

Tutto questo non ha ovviamente un risvolto meramente linguistico, l’aspetto più importante e di assoluto rilievo per lo storico è infatti quello cognitivo e sociologico. Queste regole trascrivono un’oggettivazione della realtà e la trasmettono con la naturalezza di chi è immerso dentro quella oggettivazione; dicono in modo per noi impreciso o difficilmente comprensibile cose che quella società locale vedeva e conosceva, e questa conoscenza costituisce il tessuto «pretestuale» [9] di questi scritti. Ora, a noi restano i testi, appunto, oscuri e per certi versi sfuggevoli nondimeno non è impossibile ricostruire il contesto e i referenti storico-semantici se si interrogano le fonti ricercandovi le intenzioni e ricavando proprio dalla relazione tra detto e non detto, tra espresso ed implicito, come fossero l’impronta di un calco o come su un negativo le gerarchie di rilevanze che invece affermano. Ecco, ribaltando la prospettiva se l’autore di queste regole vi esplicitava le informazioni percepite come indispensabili ai fini comunicativi mentre sottendeva ciò che riteneva dati dell’evidenza significa che ciò che diceva, i pieni di questa scrittura sono le nozioni più rilevanti per la comunità che le esprimeva e ne operava la messa in forma.

Lo stile di questi enunciati fornisce, allora, un ulteriore elemento di interesse per lo storico: definisce specularmente il sapere di una comunità, implica un’esperienza quotidiana della vita istituzionale sulla quale un citatino sapeva e poteva completare l’imperfezione dell’enunciato, o meglio l’imperfezione che a noi risulta tale a posteriori perché estranei a quel sapere. Ritengo che il processo cognitivo che tiene saldamente insieme la scrittura alle regole, che presiede alla «scrittura delle regole» sia il miglior contributo alla definizione di «locale».

Vorrei soffermarmi brevemente sul concetto di «locale», uno dei nuclei tematici di questa tesi, partendo da una suggestiva definizione di Clifford Geertz: «no one lives in the world in general» [10]. Credo che questa definizione per quanto pregnante dica ancora poco sul rapporto tra vivere in un solo luogo e quel luogo. Da quanto emerge dalle fonti che ho studiato il nesso che connette luoghi ad esistenze è proprio la conoscenza. In società premoderne la conoscenza è locale, la conoscenza dei fatti ha materialmente una propagazione sensoriale limitata: lo spazio fisico della comunità. E viceversa, la conoscenza di una comunità germina dagli accadimenti locali per cui si conosce ciò che accade nel posto in cui si vive [11]. Quella forma imperfetta di scrittura è allora un dato culturale interno alla comunità che scrive, che scrivendo definisce le proprie istituzioni secondo proprie gerarchie di rilevanze.

Ovviamente non ho più potuto tenere distinte le istituzioni, le regole che le disciplinavano dal modo in cui erano enunciate, dal sistema cognitivo che esplicitavano, dalle tassonomie (di significazione, di atti, di intenti, di valori) che identificavano. E alla fine questo studio è diventato un saggio sul sapere politico e locale di una comunità.

 


NOTE

* Desidero rivolgere un ringraziamento particolare alla prof. Rita Librandi per la disponibilità, le risposte sempre puntuali alle mie domande. Inoltre un grazie sentito a tre amici tarantini, Giovangualberto Carducci, Mirella Golia e Andreas Kiesewetter, ormai tarantino d’adozione.

1 Relativamente alla storia di Sparta e all’approccio storiografico e alla tipologia delle fonti di cui fanno uso gli antichisti si vedano i saggi raccolti nel volume Contro “le leggi immutabili”. Gli spartani fra tradizione ed innovazione, a cura di C. BEARZOT - F. LANDUCCI, Milano 2004, in particolare segnalo il confronto tra i discorsi di Archidamo e di Stenelaida nello studio di C. BEARZOT, Spartani “ideali” e Spartani “anomali”, ibidem, pp. 3-32.

2 Faccio riferimento al volume di C. MEIER, L’arte politica della tragedia greca, Torino 2000, che ricostruisce il sistema e la vita politica ateniese ricorrendo esclusivamente alle tragedie di Eschilo e di Sofocle.

3 Non sono mancati negli ultimi anni nella produzione medievistica meridionale studi di città riccamente articolati, anzi citando il titolo di un articolo di Serena Morelli si può parlare proprio relativamente alla storia urbana di un «risveglio» storiografico (cfr. S. MORELLI, Il "risveglio"della storiografia politico-istituzionale sul regno angioino di Napoli, articolo apparso in formato digitale su Reti medievali, www.retimedievali.it ed ampliato in EAD., La storiografia sul Regno angioino di Napoli: una nuova stagione di studi, in «Studi storici», 41, 2001, pp. 1023-1045). Segnalo in particolare i lavori di C. MASSARO, Territorio, società e potere, in Storia di Lecce. Dai bizantini agli aragonesi, a cura di B. VETERE, Roma-Bari 1993, pp. 251-343; EAD., Potere politico e comunità locali nella Puglia tardomedievale, Galatina 2004; G. VITOLO, Tra Napoli e Salerno. La costruzione dell’identità cittadina nel Mezzogiorno medievale, Salerno 2001; G. VITALE, Élite burocratica e famiglia. Dinamiche nobiliari e processi di costruzione statale nella Napoli angioino-aragonese, Napoli 2003. Tuttavia l’approccio alle fonti resta concentrato prevalentemente sui contenuti: la scrittura storiografica ne assorbe i dispositivi come enunciati chiari ed intelligibili, assunti innanzi tutto come un serbatoio di dati.

4È un approccio ermeneutico che risale sostanzialmente alla lezione foucaultiana cfr. M. FOUCAULT, L’ordine del discorso, Torino 1972; la storiografia francese soprattutto ha poi sviluppato questo tipo di prospettiva analitica, una ricognizione sintetica su questi studi è in L. FORMIGARI, La storicità del discorso, in «Studi storici», 36, 1995, pp. 583-586.

5 Valgano su tutti il saggio di P. FIORELLI, La lingua del diritto e dell’amministrazione, in Storia della lingua italiana, vol. II, Scritto e parlato, a cura di L. SERIANNI e P. TRIFONE, Torino 1994, pp. 553-597; e il volume di B. MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammeticali e retoriche su testi giuridici italiani, Torino 2001.

6 Occorre dire che al clamore suscitato nel dibattito storiografico dal cosiddetto linguistic turn (cfr. G. VALERA, Le ragioni della storia ermeneutica, “linguistic turn” e storiografia nella reazione italiana a Metahistory di Hyden White, in «Storia della storiografia», 25, 1994, pp. 121-152) non ha poi corrisposto nella pratica una fioritura di studi storici che adoperassero concretamente i mezzi euristici forniti dalla linguistica testuale.

7 Cfr. C. ANDORNO, Linguistica testuale. Un’introduzione, Roma 2003, pp. 121-137.

8 Su lettore implicito cfr. C. SEGRE, Testo letterario, interpretazione, storia: linee concettuali e categorie critiche, in Letteratura italiana, L’interpretazione, vol. IV, dir. da A. ASOR ROSA, Torino 1988, pp. 21-140: p. 27.

9 Koselleck parla di un «tessuto prelinguistico dell’azione» cfr. R. KOSELLECK, «Età moderna» (Neuzeit). Sulla semantica dei moderni concetti di movimento, in ID., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova 1986, pp. 258-299: p. 258; tuttavia a me pare che lo scarto non sia solo tra lingua e storia ma che pure la scrittura sia un salto concettualizzante, insomma che la scrittura di un testo non sia un fatto neutro rispetto ai linguaggi e alle azioni.

10 C. GEERTZ, Afterword, in Senses of place, a cura di S. FELD e K. BASSO, Sante Fe 1996, pp. 259-262: p. 262.

11 D’altro canto che la conoscenza sia un fenomeno intersoggettivo è acquisizione già consolidata dagli studi di sociologia della conoscenza, penso in particolare agli scritti di un padre della teoria della costruzione sociale della realtà, Alfred Schutz: in particolare v. A. SCHUTZ, Sulle realtà multiple, in ID., Saggi sociologici, a cura di A. IZZO, Torino 1979, pp. 181-232; ID., Don Chisciotte e il problema della realtà, a cura di P. JEDLOWSKI, Roma 1995.

   

     

©2005 Anna Airò. L'articolo, apparso nel sito del Dottorato di Storia medievale Università degli Studi di Firenze,  http://www.storia.unifi.it/dotmed, e qui ripubblicato con il consenso dell'autrice, è la Premessa della tesi di Dottorato (2005) La scrittura delle regole. Politica e istituzioni a Taranto nel Quattrocento.

    


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