Linda Cavadini
La paura delle paure: la morte
Vorrei essere bifolco, servire un padrone,
un diseredato che non avesse ricchezza
piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte
Odissea IX, 489-91
Così si esprime, riguardo alla morte, Achille, il più grande
degli eroi, quando incontra Odisseo nell’Aldilà. E’ un incontro tra
eroi, il piè veloce da una parte e il multiforme ingegno dall’altra, eppure il pensiero di Achille è tutto rivolto alla morte, crudele realtà che allontana dalla vita e dalla gloria.
Per gli antichi la morte è terribile è quanto di più lontano ci sia dagli dei, Artemide1, mentre Ippolito muore, dice:
“Non m’è lecito posare lo sguardo sui morti, né contaminare la vista con le esalazioni dei morenti”
Poco importa il legame che c’era stato tra i due, la morte
scava un vuoto incolmabile tra l’uomo e la dea; gli dei antichi non
possono nemmeno toccare il morto, l’opposto del Dio cristiano che ha
vissuto e vinto la morte.
Nell’universo cristiano sulle tombe cristiane troviamo scritto:
“Gli occhi di Dio sono sopra i giusti e le sue orecchie sono
tese alle loro preghiere”, e, come già detto, la religione cristiana è
fondata sullo scandalo di un Dio che non solo si incarna, ma sceglie di
morire come un uomo.
E’ una religione che comprende morte, la celebra e la
innalza a punto focale del suo credo, nella dialettica
morte/risurrezione. Non a caso nella tradizione romana i cimiteri
sorgevano sempre al di fuori delle città2:
al margine delle strade, appena passata la porta della città, il
viandante avrebbe attraversato due file di sepolture che cercavano di
attirare la sua attenzione.
Per i latini la tomba era un segno, un ricordo del morto, un
luogo dove la famiglia portava omaggi funebri, l’epitaffio era rivolto
al passante con cui si voleva comunicare.
Spesso troviamo botta e risposta:
“Leggi passante che posto ho tenuto nel mondo…e ora che hai
letto, buon viaggio” Sulla tomba è incisa la risposta del viandante:
“salute anche a te!”.
Gli epitaffi di solito tacciono il dolore dei parenti, ma
parlano del ruolo sociale del defunto, della sua osservanza ai doveri
del prossimo, per esempio:
“Finchè mi è stato concesso di vivere, ho vissuto da avaro, e
perciò vi consiglio di concedervi più piaceri di quanto abbia fatto
io. Questa è la vita: si arriva a questo passo e non oltre. Amare,
bere, andare ai bagni, ecco la vera vita: dopo non c’è più nulla.
Diffidate dai medici, sono stati loro a uccidermi.”
Oppure il morto si lamenta dei suoi contemporanei: un patrono
maledice il suo liberto, un padre fa sapere di avere diseredato una
figlia indegna, una madre attribuisce la morte del figlio ad una
strega.
Nell’epigrafe qui sopra, l'iscrizione funeraria (II secolo
dell'Impero), in marmo violaceo proveniente dal Veneto, ricorda la
bella Venusta, liberta di Lucio Cornelio e vedova di Publio Ebuzio
figlio di Marco, della tribù Stellatina, fabbricante di chiodi e
appartenente all'ordine degli Augustali. Il sepolcro comune è dedicato
anche alla liberta Crescente e alla "delicatae" Murone, giovane
schiavetta e probabile "trastullo" di Venusta.
La tomba, nel mondo romano, era un fatto privato: la
stupefacente varietà delle iscrizioni sepolcrali e dell’arte funeraria
testimonia una società che manca di una idea comune di aldilà, per i
romani la morte non è sacra, fa parte della vita. L’atteggiamento
cristiano è esattamente opposto, dal momento che la vita diventa parte
della morte, o meglio è solo un viaggio verso l’aldilà. Si tratta di un
cambiamento totale anche nella concezione temporale, circolare quello
degli antichi, lineare quello cristiano: per il mondo cristiano la vita
è il percorso da attraversare per giungere alla vera vita con Cristo.
Grandi cimiteri cristiani, amministrati dal clero esistono a
Roma fin dal III secolo: essi sono arricchite da cunicoli e gallerie
progettate in modo da offrire sepoltura ai poveri, testimoniando come
essi diventino una ricchezza per la Chiesa.
Verso la fine del VI secolo il confine che da un’antichità
immemorabile sorgeva fra la città dei vivi e quella dei morti, finì per
essere infranto dall’ingresso delle reliquie e delle loro custodie
entro le mura di molte città tardo antiche e dall’innalzarsi di tombe
comuni intorno ad esse.
La morte diventa quindi una compagna quotidiane se è vero che risale al VII secolo la frase: in vita in morte sumus, cantata nell’antifona al termine di compieta di Quaresima;nel mezzo della vita siamo nella morte, ove la morte è la vita terrena, mentre la vita vera è quella nell’aldilà. Non a caso, nei testi mediolatini la parola mors (morte) e mori (morire) compaiono raramente. Morire è secondo il concetto cristiano uscire da questa vita per trapassare ad altra, uscire dal corpo, quindi il treine più usato è exitus, oppure obitus che
mantiene l’idea del trasferimento (da ob-eo, termine usato per il
tramonto di stelle e costellazioni); molto attestata anche la perifrasi ultimum spiritum efflauit, vicino al racconto della morte di Gesù in Matteo 27,50
I defunti, chiamati dormienti, possono essere sepolti all’interno delle mura cittadine3.
In attesa di una nuova vita nel giorno del giudizio finale- la
parusia-, prende corpo nei primi secoli dopo Cristo la pratica delle
sepolture ad sanctos o martyribus sociatus, presso le tombe di
santi e martiri, perché fosse più facile il cammino del defunto verso
la rinascita: "In christianis mors non est mors, sed dormitio et somnus
appellatur4" — e quindi — "Ideo dormientes appellari, quia certum eos resurrecturos5" — come afferma S. Girolamo nell’epistola XXIX.
Ed è talmente forte la credenza nel dogma della resurrezione che nel latino tardo verrà spesso usato l’etimo dormitorium per indicare il luogo della sepoltura.
Nei luoghi in cui si trovano i resti del martire vengono
costruite delle chiese sepolcrali (martyria, confessiones, memoriae)
piccole cappelle ben presto sostituite dalle basiliche ad una o più
navate, necessarie ad accogliere la folla sempre più crescente in
pellegrinaggio presso le spoglie del martire.
Finalmente — scrive Le Goff6
— la città medievale sarà, in totale contrasto con la città antica,
una città di vivi e di morti. I cadaveri non saranno più rigettati, in
quanto impuri, all’esterno dello spazio urbano, ma — secondo l’esempio
e per l’attrazione dei corpi dei martiri — verranno insediati nel
territorio intra muros … L’inurbamento dei morti è un elemento
capitale nella rivoluzione urbana — materiale e mentale — del Medioevo.
I cimiteri sono una parte della chiesa e quindi consacrati
con la chiesa stessa: "il cimitero è equiparato alla Chiesa", come
volle Innocenzo III nel 1215.
E Bonifacio VIII nel 1301 preciserà che: "profanata la
chiesa sia ritenuto ugualmente profanato il cimitero annesso ad essa e
venga scomunicato il trasgressore.”
La morte vista come sonno eterno fa meno paura, ciò che
terrorizza è la punizione dei peccati, il martirio dell’anima, come
attestato in questo racconto di Gregorio Magno: un curiale faceva da
padrino di una ragazza, durante il sabato Santo, tornato a casa ubriaco
dopo il rito le propone di fermarsi a dormire e la violenta. Il giorno
dopo teme di entrare nella chiesa, ma dopo averlo fatto e essersi
accorto che ogni volta che vi entrava non accadeva nulla, si convince
che il suo peccato sia sfuggito a Dio o che l’avesse miracolosamente
perdonato. Il settimo giorno muore però all’improvviso e, dopo che
venne sepolto, tutti vedono, uscire dalla tomba una fiamma che brucia
le ossa, distrugge il sepolcro e fa infossare tutta la terra del tumulo7. La punizione è giusta Dio onnipotente non si diletta dei tormenti dei miseri, ma è anche giusto e non smette di punire i cattivi.8
Tra il V e il XV secolo assistiamo al formarsi e combinarsi delle credenze tradizionali e dei rituali legati alla morte.
Verò è che, per tutto il Medioevo, ma ciò è tanto più vero nel
basso medioevo, i morti sono al centro della vita, come il cimitero –e
la Chiesa- sono al centro del villaggio |