Il
contesto abituale in cui viene collocato il personaggio storico di
Jacopo Benedetti [Todi 1230 ca. – Collazzone (PG) 25.12.1306] è quello
della letteratura italiana degli albori, in particolare della
produzione dotta popolare e/o religiosa medievale del XIII secolo.
Più noto come Jacopone da Todi, costui,
sovente classificato secondo solo a Dante (anche se ne nacque prima)
per forza e tematiche poetiche (volgari), non si stacca tanto
facilmente dalle sue quasi cento laudi[1], composte negli ultimi trent’anni del secolo, o dai suoi eccellenti Stabat Mater dolorosa e Stabat Mater speciosa;
né è possibile separarlo dall’abito talare francescano (cordigliero),
da lui vestito ostinatamente in assai tarda età per continuare ad
espiare in somma ed estrema penitenza le colpe invano lavate con la
preghiera e il supplizio dalla moglie Vanna, figlia di Bernardino di
Guidone, dei conti di Coldimezzo, quand’era in vita. Sposata dal
Benedetti nel 1259, l’amata nobildonna gli morì tragicamente nel crollo
di un terrazzo impalcato in legno, apposta apparecchiato per una festa
familiare in casa de’ Benedetti, posta nel Rione S. Silvestro della
cittadina tuderte.
Lui, il benestante e perciò piccolo patrizio Jacopo, non si
immagina che tegola pesante gli sarebbe caduta in capo al soccorrere la
diletta consorte, e nel raccogliere le membra di lei morente. Fu la
svolta traumatica e decisiva della sua vita scoprire che Monna Vanna
indossava un cilicio![2]
Ma andiamo per ordine. Secondo varie ricostruzioni più o meno
leggendarie della sua vita, risalenti peraltro al XVI secolo, ma anche
attenendosi ai vasti riferimenti autobiografici tratteggiati nelle sue
stesse Laudi, fino a quel momento funebre (1268), cioè fino a
circa trentotto anni d’età, Jacopo Benedetti, figlio di Iacobello, aveva
condotto in Todi una vita civile, laica piuttosto sregolata, in linea
con l’immaginativo francescano originale; era un messere, anzi un
notaio cittadino, e forse di più: un procuratore legale e consigliere
del Comune, e però affermato nel lavoro e nella vita, noto a tutti,
tanto d’aver studiato a suo tempo la legge e l’arte giureconsulta
all’Università di Bologna. Divideva allora il suo tempo fra la
redditizia attività legale, notarile e scrivana, e il divertimento,
certamente non cavalleresco, ché sarebbe stato troppo ordinato e
contiguo al tono lavorativo. Si presume comunque si dilettasse anche in
poesia profana stando ai continui rimandi immaginali volgari che si
trovano nelle Laudi, insieme al linguaggio schiettamente giuridico-letterario che li pervade.[3]
In occasione poi della notizia dell’arrivo in Umbria, nel 1259,
del re di Sicilia Manfredi, che si sarebbe fermato fra Spoleto, Todi,
Perugia e Jesi (città natale del padre, l’imperatore Federico II
Hohemstaufen), Jacopone partecipò come consigliere rogante alla stesura
di un patto di solidarietà e aiuto reciproco concluso fra le città di
Spoleto e Todi, le quali intendevano tutelarsi così da eventuali assedi
o attacchi a scopo di sottomissione, ovvero da costrizioni al tributo
da parte del sovrano siciliano.[4]
La crisi esistenziale e psicologica che di colpo s’impadronisce
di Jacopo, o almeno il suo esito così tracotante e netto, vale a dire
il brusco abbandono della vita laica, civile e professionale per quella
religiosa, penitenziale e monastica, è la prova di quanta breccia
avesse fatto nell’Italia centrale la predicazione di Francesco d’Assisi
con l’esempio di dedizione completa alla povertà assoluta; di quanta
suggestione e penetrazione religiose le coscienze delle classi medie,
non nobili e «borghesi», subissero sempre nei momenti difficili della
vita. E il Benedetti ha allora una folgorante illuminazione
retrospettiva, per cui con la perdita improvvisa e cruda della consorte
il quotidiano futuro gli si prospetta d’ora e già inutile e vano,
modificabile solo con il riconoscimento e l’assunzione su di sé della «colpa»,
che solo la moglie vedeva, nonostante (e forse in virtù) delle
esortazioni di lui alla partecipazione ai piaceri, alle fughe e ai
divertimenti. Cambiare vita e coscienza del tutto era ora un diventare
lei e risorgerla, un come redimerla in se stesso, un riparare l’offesa
perpetrata senza coscienza a quella divinità già perduta e lontana, ma
reincarnata nell’esercizio continuo della penitenza e dell’espiazione
che le furono proprie.
Dopo aver distribuito tutti gli averi ai poveri, nullatenenti e
servi, come aveva fatto già in Assisi Francesco, Jacopone per
dieci anni, dal 1268 al 1278, fece il bizzoco[5]
nei conventi, nei cenobi e nelle associazioni religiose, molto diffuse
e che sorgevano spontanee sotto il segno francescano nell’Umbria di
quel periodo. Nel fare «pubblica penitenza», cioè vagando e assumendo
su di sé gli sberleffi che lo marchiano d’ora in avanti come «Jacovone»
appunto, consistette quel suo «gir bizzoccone»[6]
di cui lui stesso parla, arso da un furore ascetico e scosso da una
follia mistica mai visti prima in quella forma così violenta e
impressionante. Servì umilmente i più umili servi seguaci di Francesco,
i cosiddetti «fraticelli», portatori e propagatori della più ferrea
regola del santo, la povertà (in Dante essa è concettualizzata come «ben ferace»).
Ma per espiare la colpa di cui si riteneva portatore e depositario,
fra i francescani egli introdusse con forza personale il valore della
sofferenza come prova e viatico d’apprendimento, dimostrando la pratica
del dolore autoinflitto e dell’umiliazione costante che gli
provenivano da altre correnti religiose spirituali(ste) dell’epoca.
L’ex-giureconsulto Jacopo infatti sapeva leggere e scrivere, e la sua
«pazzia» dunque non poteva che essere lucida e consapevole, dotta e
sapiente nonostante la sua volontaria collocazione esistenziale fra gli
strati più infimi delle classi sociali. In un contesto di
manifestazione allegorica delle alterne vicende umane dunque andrebbero
posti i due aneddoti che gli vengono attribuiti solo per tradizione, a
conferma della sua follia ascetica:[7]
quello secondo il quale si sarebbe presentato a una festa avanzando a
quattro zampe e con un basto carico di pietre simulando un asino; e
quell’altro, ancor più cruento e sconvolgente, quando si mostra
completamente nudo alle nozze del fratello, malamente coperto di piume
variopinte che gli vestivano il corpo spalmato con lo strutto e la
sugna. Esempi di lezione religiosa popolare degne di un postumo
Boccaccio o di un ancor più successivo Geoffry Chaucer. Ma questi forse
sono episodi formati apposta dalle barocche biografie
cinquesecentesche…
E tuttavia si potrà disquisire ancora a lungo, come s’è fatto finora, sul valore di questo tournement improvviso
del Benedetti, ma più interessante sarebbe individuare da dove
traessero origine i fondamenti di questa autentica paranoia religiosa.
Certo si è che dimorando per dieci anni nei conventi umbri e
italo-centrali, e altresì viaggiando molto, anche fuori d’Italia prima
di essere fatto fraticello francescano, Jacopone venne a contatto con le grandi correnti spiritualiste
dell’epoca, coi rigurgiti del pensiero logico introdotto nella fede da
Abelardo, con quello trinitario e millenaristico di Gioacchino da
Fiore, il quale con quel suo messianismo insito nell’aspettativa
dell’avvento prossimo e inevitabile dell’«Età dello Spirito»[8],
intesa come vera e propria «terza età dell’uomo», senza Chiesa, senza
Stato né coercizioni, vissuta in una società egualitaria, sobria, umile
e benigna, affidata alla spontanea carità degli uomini, influenzò molto la nascita del partito
degli «spirituali» all’interno del movimento («Ordine») francescano, e
la penetrazione delle stesse idee e movimenti catari e albigesi;
laddove quest’ultimi perpetravano lo spirito di purezza (katharos
= puro)contro la Chiesa e ciò che essa rappresenta: la ricchezza, la
potenza politica, un’organizzazione sacerdotale lontana e staccata dalla
vita collettiva e in «comune», quella praticata dal «popolo», dalla
gente semplice e senza protezione. Giova ricordare in proposito che una
delle pratiche più peculiari che hanno fatto breccia nelle classi più
umili durante tutto il Dugento grazie alle «sette eretiche» di stampo
marcatamente spiritualista, sia stata proprio quella del digiuno
volontario fino alla morte, nella convinzione che la sofferenza
volontaria e la mortificazione del corpo, l’astinenza insomma, fosse il
mezzo assoluto per guadagnarsi la salvezza eterna, l’elevazione a Dio,
la rassomiglianza (imitazione/mimesi) all’esperienza di Cristo.[9] L’apprendistato alla santità insomma.
Nel 1278, a dieci anni esatti dal trauma familiare, il bizzoco Jacopone entra regolarmente
nel «Primo Ordine francescano» come frate laico, accolto probabilmente
nel convento dei Pantanelli di Terni, quando già nella congregazione
monastica umbra divampava forte la divisione fra la corrente rigorista
degli Spirituali e quella, più flessibile e moderata, dei Conventuali.
Jacopone, inutile dirlo, prese le parti e la difesa della corrente
spirituale. Ora, la differenziazione in due tronconi era sorta nel
movimento dopo la morte di Francesco (1226), per il modo in cui si
sarebbe dovuto interpretarne la predicazione e l’esempio religioso dati
in lascito. E, dopo la morte nel 1274 del ministro generale
dell’Ordine, Bonaventura da Bagnoregio, nella giovane congregazione
francescana, peraltro riconosciuta da Onorio III il 29 novembre 1223
col quarto Concilio lateranense mediante l’approvazione della Regola bullata, si cristallizzò definitivamente la diversità interpretativa fra i «frati della comunità» da un lato, detti anche conventuali, e i frati «zelanti» (zeloti), dichiarati anche spirituali,
dall’altro. E ciò anche grazie al contributo esemplare di Jacopone,
che nella distinzione ebbe parte attiva dal punto di vista teorico
mediante la stesura di molteplici laudes sul tema.
Lo stesso anno del Signore 1274 però è anche l’anno del
Concilio II di Lione, durante il quale, stando a quanto riporta fra
l’altro Angelo Clareno da Cingoli (fra’ Pietro da Fossombrone), pare
che papa Gregorio X avesse l’intenzione di concedere e riconoscere agli
ordini mendicanti, e cioè ai francescani e ai domenicani, la proprietà
dei beni mobili e immobili posseduti o in uso. Atto che venne
ufficializzato a conclusione del Concilio: soppressione di tutti gli
ordini mendicanti formatisi prima del 1215 ad eccezione dei domenicani,
degli eremiti agostiniani e dei francescani «moderati». In pratica la
decisione papale significò l’esclusione di fatto o, se si vuole, la
«condanna» implicita, della corrente francescana più radicale, quella
che predicava la povertà assoluta, nella quale il clero avrebbe dovuto
esemplarmente vivere, per condurre così, in maniera più incisiva, il
proselitismo e l’evangelizzazione delle masse contadine e rurali, ma
anche di quelle ruotanti intorno alle aree urbane e comunali. Lo stesso
frate eremita Pietro Angeleri da Morrone, il futuro papa Celestino V,
fondatore e capo della congregazione denominata la «Comunità dei
Fratelli del Santo Spirito» a Maiella, per evitare il rischio di essere
elencato fra gli eretici proscritti dal Concilio, vi si presentò in
età già avanzata dopo un mitico viaggio a piedi dall’Abruzzo, per
chiedere e ottenere da Gregorio X il riconoscimento del gruppo di
benedettini da lui denominati «frati di Pietro da Morrone» e dunque della sua regola formulata dieci anni avanti.
In questa ondata di forte spiritualismo, la pervadente divisione
dell’Ordine francescano nei due tronconi interpretativi ha origine
proprio sull’opportunità o meno per gli ordinati (ma in generale per
tutti i religiosi, preti, sacerdoti o ecclesiastici che fossero) di
mantenersi assolutamente poveri e di non accedere alla proprietà
nonostante la diversa propensione (risoluzione) papale. È in questo
contesto che nel periodo divampa nell’Italia centrale, soprattutto
nelle Marche e in Umbria, ma anche in Romagna (prossimo acquisto
territoriale nel 1276 di uno Stato pontificio in via di consolidamento
dopo la riforma gregoriana) la «questione della povertà», costellata da
aspri scontri anche armati, da alcuni notevoli disordini nelle
congregazioni religiose e dall’emergere di discordanti prese di
posizione fra i rappresentanti francescani (fra’ Trasmondo, fra’
Tommaso da Tolentino, fra’ Pietro da Macerata sono addirittura
imprigionati).
Dal punto di vista concettuale, i rappresentanti più moderati dell’Ordine, cioè i conventuali, nominati negli atti come «relaxati»,
sostenevano la necessità di diffondere nelle città la predicazione
francescana, di costruire nell’ambiente urbano i nuovi conventi, i
quali avrebbero dovuto far parte integrale della comunità
cittadina, utilizzando per questo anche la raccolta di fondi dalle
elemosine, per poi essere elargite a loro volta nell’attività di aiuto e
soccorso ai poveri. In questa visone programmatica, la proprietà dei
beni avrebbe certamente svolto una funzione centrale, di impulso allo
sviluppo e alla diffusione del francescanesimo. Per contro, i secondi (zeloti)[10]
mantenevano l’ideale e la pratica della povertà assoluta, nella quale
l’Ordine avrebbe dovuto semplicemente svolgersi, così da sottolineare
con forza il carattere eremitico e ascetico (ovvero extraurbano)
del francescanesimo originale. Anzi, costoro, sostenitori entusiasti
del pensiero evangelico del cluniacense Gioacchino da Fiore,
identificavano l’avvento della Chiesa Spirituale (ecclesia spiritualis),
da lui preconizzato, proprio con la venuta al mondo del fenomeno
religioso, nonché umano, Francesco d’Assisi. La tensione fra le due
frazioni sarà avvertita e vissuta anche dal giovane Dante, il quale,
frequentatore del novello convento francescano di Santa Croce, ma anche
testimone della presenza a Firenze del movimento dei Patari e dei
Catari, elaborerà nel suo tipico misticismo aristotelico la scelta
morale prettamente cristologica per l’aspetto più duro della regola: la povertà quale «ben ferace» appunto, e la condanna dell’elemosina come pratica non evangelica.
Nel 1288 fra’ Jacopone viene dato per trasferito a Roma sotto
la protezione del cardinale Bentivegna, anch’egli di estrazione
francescana, fatto porporato da Niccolò IV. Più che di mecenatismo, si
tratta di un temporaneo riparo dagli attacchi e dalle persecuzioni ai
«puri» da parte degli emissari dell’Inquisizione. L’aria che tira
nell’Italia centrale in quella seconda metà del XIII secolo non è
certamente favorevole a chi rincorra certi ideali ascetici, con la
Chiesa romana fortemente impegnata nella ricostruzione canonica, cioè
amministrativa, della Donazione di San Pietro, specie dopo la cacciata
definitiva dall’Italia degli Svevi (1266) e grazie al richiesto
soccorso, rivelatosi poi anch’esso non del tutto disinteressato, degli
Angioini. Proprio il Bentivegna si era opposto intorno al 1276 ai
tentativi di sottomissione integrale del vescovado di Todi, territorio
visto da Roma come testa di ponte per il successivo inglobamento della
Romagna (1278).
A contatto con l’ambiente romano, fra’ Jacopone fa esperienza
della realtà abbastanza secolarizzata della curia romana e dei
presupposti feudali su cui ancora poggiava il meccanismo di elezione del
pontefice. Lì impara a conoscere i centri del grande potere
ecclesiastico degli Orsini, dei Colonna, dei Caetani, delle loro
ramificate estensioni nei possessi e nella feudalità laziali; apprende
la sostanza dei rapporti fra papato, feudalità e popolo romano (senato e
comune), al quale ultimo era devoluto ancora l’atto di ratifica
definitiva dell’elezione papale (acclamazione). Non va dimenticato
inoltre che dopo la riforma gregoriana (introduzione del Conclave e del
Concistoro cardinalizio), fra le precondizioni più importanti e
sostanziali per diventare cardinale vi era quella di appartenere alla
famiglia o alla parentela più o meno stretta del papa, oppure di far
parte della sua clientela, sia curiale che ecclesiastica, concepita pur
sempre nell’ambito dei rapporti feudali e mercantili del periodo.
È in queste condizioni generali che si arriva, o almeno è
Jacopone ad arrivarvi, all’abbrivio della crisi cruciale del 1292,
quando a Perugia muore il papa, Niccolò IV, al secolo Girolamo Masci da
Ascoli Piceno. Nel capoluogo umbro si apre allora un conclave, forse
il più importante e decisivo dalla riforma gregoriana, che si
trascinerà senza effetto per ventisette lunghi mesi, lasciando nello
sconcerto non solo i più attenti fedeli, ma anche chi fosse stato
interessato alle aspettative di risoluzione dei maggiori problemi
politici e di sovranità del momento. Già dieci anni prima la scintilla
dei Vespri siciliani aveva ravvivato nella nobiltà siciliana
l’istintiva preferenza per la perduta (e maltolta) sovranità
normanno-sveva, manifestatasi coll’offerta del trono dell’isola agli
Aragonesi, i quali per legami matrimoniali si trovavano schierati in
funzione antifrancese e perciò antipapale (Angioini).[11]
Si andava profilando insomma un periodo non breve di crisi di identità
politico-religiosa della cristianità, sempre divisa fra guelfismo e
ghibellinismo, e che questa volta si sarebbe concluso col trasferimento
in Francia, sotto il protettorato della corona capetingia, dell’ufficio
papale («cattività avignonese»). Ora, a partire da quel 1292, col
conclave ci si trova a decidere su quale tipo di indirizzo e contenuto
la Chiesa si sarebbe dovuta misurare nell’esercizio del suo potere
sovrano: e pare proprio che lo scontro ingaggiato all’interno degli
interessi materiali delle opposte famiglie feudali dei Colonna (Giacomo
e Pietro) e degli Orsini, grandi elettori e componenti da lunga data
del collegio, andasse in direzione opposta alle aspettative
spirituali(ste) di quasi tutto un secolo. Era in gioco anche il vecchio
principio non codificato, risalente già al periodo prenormanno, che la
Sicilia fosse un appannaggio feudale di diretta competenza papale.
Oltretutto il giovane istituto della sacra magistratura non era
condotto con la stessa tecnica assembleare odierna, cioè nella clausura
ininterrotta e nell’isolamento costante dei componenti fino
all’elezione finale, ma anzi i cardinali elettori si trovavano allora
liberi di disertare il consesso e di circolare senza impedimenti in
lungo e in largo anche fuori dalla città, intrattenendo pourparleurs e contatti coi più disparati clienti e sostenitori, laici ed ecclesiastici.
Fu in questa situazione d’impasse che nell’estate del
1294, a Perugia si presentò, munito di una certa irruenza, Carlo II
d’Angiò insieme al figlio Carlo Martello, per sollecitare dal Conclave
una decisione in tempi brevi, spinto com’era dall’impellente necessità
di veder presto ratificato, almeno da un papa nel pieno dei poteri
sacri, l’accordo appena raggiunto con gli Aragonesi circa la
sistemazione dinastica della Sicilia. E invece l’angioino fu respinto
di tutto punto, anzi rimbrottato e cacciato dal cardinal elettore
Benedetto Caetani - che presto anche lui sarà fatto papa (Bonifacio
VIII) -, il quale non trascurò così di farsi conoscere dal gran numero
di sovrani che venivano ognora e inopinatamente a chiedere favori e
riconoscimenti clientelari, senza che ne avessero determinato o discusso
à l’avance il prezzo. Tuttavia la pressione esercitata dai
due angioni sui cardinali riuniti non fu vana, ma anzi ebbe l’effetto
di una subitanea quanto inattesa risoluzione nella scelta del Sacro
Collegio, il quale a sortita elesse un non porporato, scegliendolo,
grazie anche alla perorazione del cardinale decano Latino di Melabranca
e dopo ben più di due anni di vacanza del soglio, in un monaco eremita
assolutamente solitario, un anacoreta molto avanti con l’età, per
giunta completamente estraneo, per scelta mistica, alle più banali
logiche della sovranità: il settantanovenne molisano Pietro Angeleri,
conosciuto come fra’ Pietro da Morrone, che tosto avrebbe assunto il
nome di Papa Celestino V, e che avrebbe di lì a poco ufficializzato
l’ordine dei fraticelli jacoponici. Ma era il 5 luglio 1294, e il neo
eletto non era lì ma sui monti della Maiella, in pieno e assoluto
ritiro spirituale (che lui stesso ora credeva l’ultimo, quello finale),
completamente ignaro di quanto stava accadendo sul suo conto. Ma a dire
il vero, l’Angeleri non si era tenuto del tutto fuori dall’indecoroso souplasse
del Conclave, al quale, stando ad alcune delle numerose e colorite
cronache successive, aveva indirizzato una strana lettera minacciando
l’ira di Dio sui cardinali elettori se avessero protratto troppo a
lungo la «vedovanza della sposa di Cristo»: una prova ulteriore della
viltà additata dai critici di Celestino, i quali riferiscono che la
lettera fu scritta sotto la pressione e l’induzione dello stesso Carlo
d’Angiò per ottenere il risultato voluto.
La decisione dei cardinali in conclave di offrire candidato, a
mo’ di agnello sacrificale, chi aveva osato gettare giudizi morali sul
conclave era chiara quanto opportuna - anche se un po’ strumentale:
occorreva un papa fantoccio che per il momento desse soddisfazione agli
angioini quanto agli aragonesi, che consentisse di superare la fase
giudicata di passaggio e contingente, lasciando che i cardinali giunti a
patto guidassero nell’ombra e dietro le quinte le sorti interne della
Chiesa. In quel momento i casi dell’Italia meridionale e insulare
interessavano meno rispetto a quelle della Donazione di San Pietro e
dell’Italia centrale, ritenute forse molto più importanti da dopo la
fine del dominio normanno svevo. La speranza era quella di affidare a un
«estraneo» il vicariato di Cristo per meglio occuparsi le sfere
ecclesiastiche di faccende più rilevanti: le logiche di potere. E così
sulla persona dell’Angeleri vennero a riporsi le speranze della
cristianità più spirituale, di derivazione francescana e pauperistica.
Tanto è vero che lo stesso Jacopone dedicherà una Lauda a Celestino V
(«Che farai Pier da Morrone…?») nella quale si riassumevano
per il governo della Chiesa tutte le aspettative e le ansie cristiane
di un’epoca segnata da una tensione morale e evangelica mai viste
prima.
La debolezza e la manovrabilità di papa Celestino V,[12] la sua capacità di lasciarsi strumentalizzare, quella inadeguatezza al compito assunto obtorto collo
di cui parlò anche il Petrarca, non tardarono a farsi vedere, anche se
i primi atti (bolle) che emanò con l’intento di riformare moralmente
la Chiesa furono destinati a lasciare in positivo il segno tanto nei
sostenitori quanto nei critici e negli oppositori. L’emissione della
Bolla della Perdonanza[13]
intendeva assumere il significato di azzerare tutti i debiti morali
contratti dai fedeli fra loro stessi, accogliere i peccatori pentiti a
nuova linfa della cristianità. e creare finalmente le condizioni per un
egualitarismo di fondo previo un semplice atto di umiliazione che
avrebbe dato il segno e offerto il simbolo dell’inaugurazione di una
società cristiana finalmente riconciliata, più giusta e non
gerarchizzata. Un rituale figurativo questo, certamente caro a
Jacopone, il quale insieme agli altri esponenti «spirituali» Pietro da
Macerata (fra’ Liberato) e Angelo Clareno (fra’ Pietro da Fossombrone)
chiese e ottenne dal nuovo papa il riconoscimento del loro gruppo
francescano, pauperista e spiritualista, e che fu dunque denominato dei
«Poveri eremiti di Messer Celestino».[14]
Dalla Perdonanza però non si sarebbe più fatto ritorno
indietro: il suo successore Bonifacio VIII, cioè quel cardinal Caetani –
figura a dir poco ingombrante, decisiva e discriminante per i destini
di molte persone che vissero da protagonisti la Chiesa di quel periodo
(l’Angeleri, l’Alighieri, Jacopone, i Colonna ecc.), lo convinse
finalmente, a forte rischio di plagio, a dimettersi dalla suprema
carica cristiana – fatto e atto unico, enorme, nella storia della
Chiesa –; ne copiò la forma canonica travisandone la sostanza
giuridica, così da introdurre il lucro[15]
vero e proprio, inteso nel senso economico-finanziario più stretto,
nella tratta di quella «indulgenza» che Pietro da Morrone aveva
inserito nel diritto canonico. E l’indulgenza era concepita
originariamente come principio di restituzione dell’integrità e purezza
dell’anima alla comunità universale degli uomini. Dal plagio del
Caetani sarebbe uscito finalmente il Giubileo del 1300, il primo della
storia che viene annoverato, ma opposto e contrario all’annuale
indulgenza plenaria di Celestino.
Papa Angeleri si era messo completamente nelle mani
dell’angioino Carlo, attirandosi anche per questo il biasimo di molti
che avevano sperato in lui: nominò il sovrano francese anzitutto
«maresciallo» del futuro conclave, già pur pensando al proprio
abbandono; nell’unico concistoro del suo brevissimo pontificato (18
settembre 1294) investì ben 13 nuovi cardinali, nessuno dei quali
romano ma molti francesi; ratificò con una bolla il trattato fra gli
Angiò e gli Aragona per il ritorno dell’isola ai francesi, fissandolo
alla morte del sovrano aragonese, non senza trasferire la sede della
Curia da l’Aquila a Napoli, stabilendo altresì la propria residenza in
Castel Nuovo, dove riservò a se stesso una piccola stanza, umile e
semplice, così da illudersi di perseverare nella sua attitudine
ascetica e schiva. Intanto il potere reale si incollava alle mani di
Carlo d’Angiò. Ecco dunque che se da un lato Dante Alighieri bollò
d’ignavia e pusillanimità Celestino per non aver saputo (e voluto)
esercitare il potere come si deve, aprendo di fatto la strada
all’anacronistico e pernicioso progetto teocratico-simoniaco del
Caetani[16] quando
questi raggiunse un’intesa generale con Carlo, dall’altro Jacopone
oscillò nella considerazione di Celestino per la stessa ragione:
rinunciare, cioè non dire mai «Voglio!»,[17]
significava nei fatti non mantenere il potere, e dunque lasciar cadere
nel nulla la pratica della penitenza e della remissione gratuita della
colpa finalmente introdotte dal Morrone con la Bolla della Perdonanza –
e per il frate esiziali per il progresso della fragile personalità
umana.
Ma a riprova e sostegno di tutte queste circostanze, oltre alle
note laudi composte ad invettiva contro il Caetani, e cioè «Iesu Cristo se lamenta de la Eclesia romana», «O Bonifazio, molt’ai iocato al mondo» e «O papa Bonifazio, eo porto tuo prefazio»,
quest’ultima scritta in prigione per chiedere a Bonifacio che lo aveva
fatto imprigionare dopo l’immediato scioglimento dell’ordine
eremitico-celestiniano di togliergli la scomunica, sarebbe importante
ai fini della ricostruzione della complessa e oscura lotta
politico-religiosa di quella fine secolo, poter conoscere il testo del
famoso quanto inesplorato Manifesto di Lunghezza, redatto da
Jacopone da Todi in persona il 10 maggio 1297 su commissione dei
cardinali Jacopo e Pietro Colonna, avversari e vittime a Bonifacio VIII.
Il Manifesto è un vero e proprio atto di denuncia lanciato
nei confronti del Caetani. Dopo che la politica teocratica e simoniaca
del nuovo papa si era già tutta dipanata, quella carta fu esposta al
pubblico ad opera di quei cardinali nobili sconfitti proprio per
stigmatizzarla. Costoro la fecero affiggere nel maggior numero
possibile di chiese a Roma e nel Lazio. Il documento è conservato
nell’Archivio Segreto del Vaticano, la cui mostra ancor oggi ne
documenta soltanto l’esistenza, senza possibilità alcuna di
consultazione o visione. Lì, in forma solenne, tipica di un atto
regolarmente rogato e «pubblicato» nei modi allora usati, sono
denunciate le malefatte di Bonifacio, la sua sostanziale eresia, la
simonia impiegata per diventare papa e forse anche la sospetta sodomia,
oltre ovviamente alla illegittimità della sua elezione al trono di
Pietro, al plagio da lui usato, complice Carlo d’Angiò, nei confronti
di Celestino V,[18] le cui dimissioni erano da considerarsi nulle. Nel Manifesto,
redatto nel Castello di Lunghezza - donde il nome col quale è passato
alla storia -, località già feudo dei Colonna sito lungo la Tiburtina,
poco fuori Roma, si autorizzavano i fedeli alla disobbedienza e
veniva segnalata l’occorrenza per la cristianità della convocazione di
un nuovo Concilio, affinché venisse eletto finalmente un nuovo papa,
l’attuale rappresentando Satana ed essendo perciò dichiarato decaduto.
La reazione di Bonifacio VIII non tardò a venire: tredici
giorni popola pubblicazione della carta di Longhezza, il 23 maggio 1297,
il papa emise una bolla intitolata «Lapis abscissus» con la
quale tolse sigilli e titoli ecclesiastici ai Colonna, sciolse l’ordine
dei frati spirituali istituito da Celestino, scomunicò i ribelli e
tutti quelli che avevano aderito alle prescrizioni del Manifesto
e bandì una crociata contro la fortissima corrente spirituale raccolta
nei Colonna, dando incarico a Matteo d’Acquasparta, amico di vecchia
data di Jacopone, di perseguire gli scomunicati che avevano riparato a
Palestrina, roccaforte e caposaldo dell’opposizione spiritualista. Nel
settembre dell’anno seguente, dopo un anno e mezzo di assedio al paese,
al castello e alla rocca, Palestrina capitolò finendo coll’essere
distrutta completamente secondo gli ordini papali: sulle rovine fu
cosparso addirittura il sale dopo che se ne passò con l’aratro il
terreno (primavera 1299), a segno didattico della memorabile fine
riservata ai nemici di Roma.[19]
L’atto in realtà nascondeva il passaggio di proprietà di quel feudo
all’appannaggio personale del Caetani, che lo diede in gestione ai
cardinali Orsini. I Colonna dovettero riparare in Francia, sotto la
protezione del re capeto Filippo il Bello, il quale avrebbe poi
ingaggiato con successo una lotta di sostanziale autonomia politica e
finanziaria, di tipo «nazionale», dallo Stato della Chiesa.
Jacopone da Todi fu catturato durante l’assedio, torturato,
spogliato del saio, processato e quindi condannato in perpetuo, con pena
da scontare nel carcere del Convento di San Fortunato a Todi, sua
patria natale. Neppure quel grande lavaggio universale dei peccati
rappresentato dall’Anno Santo del 1300 gli valse l’assoluzione o, in
alternativa, la sospensione della pena, o almeno una qualche forma di
grazia. Fu solo grazie a Benedetto XI, eletto papa alla morte di
Bonifacio il 12 ottobre 1303, che a Jacopone fu tolta la scomunica,
restituito l’amato saio francescano e concesso di ritirarsi
nell’ospizio dei frati minori annesso al monastero delle Clarisse a
Collazzone in Umbria, dove morì, come vuole la tradizione, nella notte
di Natale di tre anni più tardi, 1306.
Esiste un san Celestino, un san Bonifacio - che non è il
Caetani - , ma è anche vero che non esiste un san Jacopone da Todi. Il
quale però viene annoverato dal 1433 come «beato» per tradizione e
volontà dei Francescani, a lui fedeli e memori. In quell’anno infatti
il corpo del Benedetti fu traslato nell’Ospedale della Carità a Todi e
successivamente nella sacrestia della Chiesa di San Fortunato. Nel
Cinquecento, il vescovo di Todi, Angelo Cesi, tumulò i resti del
giullare di Dio nella cripta di San Fortunato, dove si trova tuttora
per la devozione dei credenti.
Tuttavia, non sarebbe corretto rappresentare lo scontro
diretto fra Jacopone e il Caetani, entrambi frequentatori
dell’Università di Bologna, solo come la lotta sempiterna fra bene e
male, fra vittima e carnefice, cosa che per come si sono svolti i fatti
e per certi profili non è del tutto sbagliato assumere, quanto invece,
proprio per rendere giustizia ad entrambi gli uomini di fede,
inscrivere quella lotta come un impatto storicamente determinato fra
due diverse e anche personali concezioni del «corpo» e della sua
«resurrezione», pur sempre considerati all’interno della fede e della
cultura cristiana del Dugento. Jacopone si oppose strenuamente al culto
dei morti mediato dallo smembramento del corpo finalizzato
all’adorazione speculativa, al traffico delle reliquie corporali che
avveniva normalmente nel suo tempo come conseguenza delle crociate, ma
che da Bonifacio fu sapientemente organizzato proprio con
l’istituzione del Giubileo, occasione ghiotta per fare cassa e grande
proselitismo. Per la personale esperienza traumatica vissuta, peraltro
in stretta analogia con la mitica «conversione» corporea di Paolo di
Tarso, e per l’intima visione del concetto di dolore, da lui percepito
crudo e nudo, il beato di Todi scrutò più correttamente e profondamente
del Caetani nel corpo «risorto» di Cristo (da vivere come perifrasi
dell’uomo). L’evento della resurressi, avvenuta canonicamente dopo tre
giorni dalle indicibili sofferenze umane e fisiche patite sulla croce
della carne, rappresenta una vera e propria «guarigione» del corpo e dal corpo, la sua definitiva salvezza ad unicum, ovvero anche la concreta metamorfosi di esso in qualcosa d’altro: l’avvento dello Spirito.
Fernando Giaffreda, © 2008
[1] La lauda, che più tardi con Dante sarebbe diventata lode (cfr. la sua apologia letteraria dello “stilo de la loda”),
consiste in un componimento poetico in volgare tipico dell’epoca, ad
argomento religioso e a forte caratterizzazione popolare, con fine
esplicativo, didascalico e accessibile ai semplici. Non di rado essa è
anche musicata, e per questo assume quella speciale forma
lirico-narrativa, di tipo quasi esclusivamente religioso, per la quale
al “solista” i fedeli rispondono per le rime. Grazie a Jacopone, tale
forma poetica si presenta drammatica o dialogata, soprattutto per divulgare e diffondere fra gli umili il Vecchio e il Nuovo Testamento, e le leggende sacre.
[2] Strumento
di penitenza di antichissime origini e di cui in quel tempo, come in
parte oggi, si doveva avere l’autorizzazione clericale per indossarlo.
Il cilizio è originario appunto della Cilicia e
dell’Anatolia, consistente in una grossa e grezza stoffa tessuta con
pelo di capra, che per la sua densità è più simile alla crinolina. La
sua particolare consistenza indusse i Romani ad adoperarla quale veste
militare protettiva o come arsenale protettivo nelle opere e macchine
belliche.
L’uso penitenziale del cilicio ne ridusse nel Medioevo forme e
dimensioni, per poterlo indossare intorno alla vita o alla coscia,
laddove la carne era più esposta al soffregamento dei nodi di spago o
teste di chiodi che vi venivano aggiunte per provocare dolore nel
movimento. La corda nodosa che fa da cintura al saio francescano (il
cui ordine è detto appunto anche «cordigliero»), ne è una variante
manifesta, che soddisfa l’immaginazione e allude alla penitenza, regola
fondante di quella confraternita religiosa. Concettualmente, il
contrappasso psicologico penitenziale lo fece diventare uno strumento di
protezione ed esercizio dell’anima nelle campagne militari dello
spirito (religioso).
Paradossalmente, l’uso di questo strumento di sofferenza che
si preferisce autoinfliggersi è ancora attuale, e sopravvive
mirabilmente alla modernità: si veda, solo per pura curiosità http://www.ilprimoamore.com/testo_375.html.
[3] Gli autori
volgari della prima letteratura italiana si contraddistinguevano anche
per l’invenzione di nuove parole e fonemi quali, nel caso di Dante, perizoma o, nel caso invece di Jacopone, di nudo.
[4] Nel 1987
Silvestro Bessi, storico collaboratore del Bollettino della Regia
Deputazione di Storia patria per l'Umbria (rivista pubblicata a Perugia
come annuario dalla Deputazione S.P.U.), ha rinvenuto nell’atto rogato
del Memoriale Communis Spoleti l’annotazione della presenza
di due consiglieri del Comune di Todi: un «Angelucius Benedictoli» del
rione «Collis» e un «Iacobus Benedictoli (…) de regione Sancti
Silvestri», probabilmente fratelli, il secondo dei quali, per lo
storico, sarebbe appunto J.
[5] Bizochus in
latino medievale. Oggi il termine circola di rado come sinonimo di
bacchettone e bigotto, ma nel caso di Jacopone è da presumersi che egli
fu prima esattamente «pinzochero», affiliato cioè come laico
all’ordine dei francescani per condurre la nuova vita devota in
preghiera e carità, ma, soprattutto per il suo caso, in penitenza e
umiliazione; e poi, alla fine del suo decennale apprendistato monacale,
fu, secondo le regole del convento di San Fortunato a Todi, dove passò,
«bizzoco», appartenente cioè al terzo ordine dei francescani: colui
che anche sotto la diversa guida di domenicani e agostiniani conduceva
una vita povera e umile in protesta contro il lusso dell’alto clero,
con o senza presa di voti.
Ma l’interessante consiste nell’accezione sentenziale del termine bizzoco, che nelle condanne e bolle papali venne a designare i pauperisti,
e perciò gli scomunicati, a seguito della risoluzione giudiziale
pontificia sulle divisioni prodottesi nel movimento francescano. In
particolare, bizzoco è anche sinonimo di begardo (beghino [der. bigotto]
ma più esatto al femminile, come chi appartenne alle associazioni
religiose sorte nel XII secolo non riconosciute, e anzi condannate e
scomunicate prima dal Concilio Lateranense IV del 1215, sotto Innocenzo
III, e poi dal Concilio di Vienne [Alpi-Rodano] del 1311, condotto da
Filippo IV di Francia Capeto, detto il Bello, che teneva in pugno
Clemente V, col risultato di scomunicare questi movimenti
«spiritualisti» definiti pauperisti, umiliati, arresi, bizzochi, romiti
ecc. insieme ai Templari, il capo dei quali fu portato al rogo).
[6] Locuzione del verso 130 presente nella Laude 53 (LV), De fratre Iacobo quando fuit in carcere [Cantico de frate Jacopone de la sua pregionìa. lv.] in Iacopone da Todi, Laude, a cura di Franco Mancini, Gius. Laterza & figli, Bari 1974 – © 2002 Biblioteca dei Classici Italiani by Giuseppe Borghi.
[7] «Empazzato d’amore de Dio», com’egli s’esprime in più d’una lauda.
[8] «Un courant
souterrain, plus profond et plus caché que l’augustinisme parce que
plus hérétique, traverse le christianisme. On pourrait le comparer à
une nappe phréatique qui abreuve les racines des arbres, perce à la
surface dans les sources, alimente le puits. L’Évangile éternel doit
sa mise en forme, très probablement, à Abélard autant qu’a
Joachim de Fiore. Il actualise et répartit dans le temps les
personnages de la trinité chrétienne. Arrachées à leur substantialité
mystérieuse e mystique, à leur éternité, ils entrent dans la «réalité»
et dans l’historicité. Le Père ? C’est la nature avec ses
prodiges ; c’est la puissance féconde, infiniment, terriblement,
en qui se discernent mal la création et le créé, la conscience et
l’inconscience, la souffrance et le plaisir, la vie et la mort.
L’épreuve ne s’ajoute pas à l’existence naturelle, elle lui est
inhérente. Le Fils, le Verbe, n’est pas éternellement coextensif à la
substance paternelle ; il en émerge, il en naît dans la
durée ; le langage, la conscience, la connaissance, coïncident
avec la naissance et la croissance du Fils. Au cours de son ascension,
le savoir ne peut pas ne pas avoir confiance en soi ; cette foi
accompagne la conscience et son inquiète certitude, conquise sur le
doute. Le Verbe a cru sauver le monde. Il a échoué. Le savoir ne suffit
pas à la rédemption – ni la souffrance de la conscience malheureuse.
Non seulement le Christ (le Verbe) mourut en vain, ma sa mort a permis à
la pire des puissances de s’établir, à l’Église, qui célèbre la mort
du Verbe en le tuant chaque jour : en tuant la pensée. Pour que la
Rédemption s’accomplisse, il faut que l’esprit, le troisième terme de
la triade éternelle et temporelle, immanent au transcendant, s’incarne
en bouleversant le monde. L’Esprit est subversif ou n’est pas. Il
s’incarne dans l’hérétiques, les révoltés, le purs en lutte contre
l’impureté. Il apporte avec lui la révolte et la joie. L’esprit seul
est vie et lumière.
L’Évangile éternel divise le temps en trois périodes :
la Loi, la Foi, la Joie. Au Père appartient la Loi et de lui elle
provient: dure loi de la nature et de ce qui la prolonge, la puissance.
Au Fils, au Verbe, appartient la Foi, avec ses corollaires,
l’Espérance et la Charité. L’Esprit apport la joie, la présence et la
communication, l’amour absolu et la lumière parfaite. Mais aussi la
lutte, l’aventure, la subversion, donc une violence contre la
violence…». Henri Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche ou le royaume des ombres, Casterman, Tournai, 1975 p. 37 e segg.
[9] «Uno fra i
più grandi movimenti eretici assilla da secoli l’ortodossia e, di
conseguenza, la stimola e la feconda. Se ne nasconde l’importanza e
perfino l’esistenza. Secondo il paracletismo, l’incarnazione di
Cristo non ha salvato il mondo. Il Cristo ha doppiamente fallito; egli
morì senza cancellare le conseguenze dell’origine degli uomini, e cioè
le loro sofferenze e la loro malvagità, i preti e la Chiesa si sono
impadroniti del suo messaggio e della sua morte utilizzandola per fini
menzogneri, corruttori e dominatori la Chiesa riunisce dunque i
peggiori nemici della divinità, coloro che ogni giorno resuscitano di
nuovo il Dio che muore in eterno, per ucciderlo. Infatti, la potenza del
Verbo (il «Logos» secondo San Giovanni, ragione e coscienza, discorso e
sapere), necessaria, non basta alla redenzione del mondo. Il Padre
assoluto crea in una specie di frenesia crudele e indifferente;
l’Essere infinito getta le sue creature nell’essere finito (il mondo).
Da quell’oceano burrascoso nasce e si eleva la coscienza con la
scienza, in una parola: il Verbo. La coscienza partecipa alla
sofferenza delle creature e la esprime; crede di placarla e non ci
riesce. Per porre fine a questa tragedia, cioè la morte sempre vana del
Verbo e il suo sacrificio ogni volta inutile, occorre che si incarni la
terza persona, lo Spirito, di cui si parla tanto poco (poiché il Logos
propone se stesso e non propone che sé). Lo Spirito parla raramente.
Prima scaglia la sua sacra collera contro quelli che pretendono che la
salvezza del mondo sia già compiuta. Dopo aver aperto la sua strada con
la violenza, lo Spirito porterà la riconciliazione ultima fra la carne
e l’anima, fra il creatore e la creatura, fra la potenza spontanea e
la trasparenza. Già quando soffia (parla) lo Spirito annuncia la guerra
contro i signori, contro i re e i principi, contro i vescovi e il
papa» (in Henri Lefebvre, Il manifesto differenzialista,
Dedalo –Bari, 1980, pp. 67-68). Al testo viene appresso la seguente
nota dell’Autore: «Alcune osservazioni su questa eresia: a) Essa fu
l’ideologia delle grandi rivolte contadine fino al XVI secolo incluso;
b) Abelardo fu paracletista, di qui la sua critica del Logos e
il suo nominalismo. Lo si picchiò crudelmente in quanto eretico più
che come amante di Eloisa. Per lei egli fondò l’abbazia di Paracleto;
c) Attraverso Abelardo, la filosofia occidentale deriva in una certa
misura dal paracletismo. L’Idea hegeliana e lo Spirito assoluto
formulano filosoficamente la riconciliazione suprema, la sintesi
finale; non senza privilegiare il Logos; d) Se per «spirito» si intende
il mondo della differenza, la grande eresia fondamentale riacquista un
senso».
[10] Gli Zeloti
sono catalogati da Giuseppe Flavio, storico ebreo romanizzato nato a
Gerusalemme intorno al 37 d. C e morto a Roma nel 100, come la quarta
setta filosofica presente nella città del Santo Sepolcro al tempo di
Gesù con i Farisei, i Sadducei e gli Esseni. Gelosissimi della
tradizione religiosa e della legge ebraica, nonché predicatori solerti
della rivolta armata contro gli occupanti romani, gli zeloti si
trovarono molto vicini agli esseni, cui forse apparteneva lo stesso
Gesù secondo un’ipotesi addotta peraltro senza prove certe da Benedetto
XVI, nell’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio, azione
essenica poi attribuita dai Vangeli alla sola mano di Gesù in persona.
Li contraddistingueva il loro pauperismo, la purezza e la semplicità,
anche sociale, della loro concezione escatologica. Il collegamento
etimologico dei frati francescani del Dugento con gli zeloti ebraici
non può non colpire l’immaginazione e lo spirito di ricerca.
[11] Pietro
III d’Aragona aveva sposato Costanza, figlia del re di Sicilia Manfredi
Hohenstaufen, morto nella battaglia di Benevento nel 1266. A lui i
nobili dell’isola, che per gestire la crisi dei Vespri si sarebbero
presto riuniti a Catania in un «parlamento» tutto siciliano, avevano
offerto la corona di Sicilia in cambio di aiuto per cacciare i francesi
dall’isola.
[12] Sulla
figura storica e il dramma di Celestino V, Ignazio Silone (pseudonimo
che cela il vero nome anagrafico di Secondino Tranquilli [Pescina de’
Marsi, AQ, 1.5.1900 – Ginevra 18.8.1978], un militante della gioventù
socialista che a Livorno, nel 1921, dalle logge del teatro Goldoni dove
si teneva il XVII congresso del PSI, gridò violentemente, provocando
la scintilla della scissione, che si dovesse abbandonare immediatamente
quello scempio di raduno borghese per riunirsi nell’altro teatro di
Livorno, il San Marco, per fondare appunto il Partito Comunista
d’Italia), scrisse un dramma letterario, L’avventura di un povero cristiano,
Milano, Mondadori, 1968, che vinse il premio Super-Campiello dello
stesso anno, e il cui interessantissimo testo si avvalse di alcune
successive rappresentazioni teatrali. In esso si ventilava fra l’altro
l’ipotesi che il personaggio del III canto dell’Inferno,«colui
che fece per viltade il gran rifiuto» non fosse Celestino ma Ponzio
Pilato.
[13] Emessa a
L’Aquila, dalla Basilica di Collemaggio il 29 agosto del 1294, giorno
della sua incoronazione avvenuta alla presenza del Sacro Collegio, di
diversi sovrani, fra cui gli Angiò, e di cospicue delegazioni cittadine
di tutta Europa, non senza l’intervento di un folto popolo
tripudiante, la Bolla dell’Angeleri elargiva per la prima volta nella
storia della Chiesa l’indulgenza plenaria a chiunque, confessato e
pentito sinceramente dei propri peccati, si fosse recato per
comunicarsi nella stessa basilica dov’era avvenuta la cerimonia nel
periodo per i vespri del 28 agosto di ogni anno al tramonto del giorno
dopo.
Ancor oggi la cerimonia del primo vero giubileo cristiano
scaturito dalla Bolla del Perdono, conservata nella cappella blindata
della Torre del palazzo comunale de L’Aquila, si svolge ogni anno nel
capoluogo abruzzese sotto l’ufficio dell’autorità civile del Sindaco,
il quale con l’approvazione della Santa Sede lo inaugura ogni estate,
leggendo in pubblico la bolla. Sarà poi Bonifacio VIII, l’aguzzino di
Celestino V e di Jacopone, a copiare l’idea del perdono universale,
rieditandolo con qualche trasformazione in un rito penitenziale di
stampo prettamente speculativo e mercenario a partire dal 1300, come
Anno Santo o Giubileo, cerimonia da celebrarsi ogni cinquant’anni (poi
trenta, e poi ancora ogni dieci).
[14]
L’Ordine, per così dire, degli Spirituali eremiti fu presto soppresso da
Bonifacio VIII quando fu eletto papa dopo la rinuncia di Celestino.
Infatti tutte le bolle e decisioni dell’Angeleri, che fu catturato a
Vieste il 16 maggio del 1295 mentre cercava di riparare in Oriente da
Guglielmo l’Estendard su commissione di Carlo d’Angiò e di Bonifacio
per timore che fosse recuperato da Filippo in Bello come
antipapa, furono dichiarate nulle o decadute.
[15] Nella
legislazione del diritto canonico (canoni dal n. 992 al n. 997), il
termine tecnico e letterale per designare la facoltà del fedele di
ottenere per sé e per altri il lavaggio della colpa e del peccato è
appunto quello del «lucro». Ognuno poi, compreso Lutero un paio di
secoli dopo nella storia della Chiesa, darà un significato diverso a
seconda dell’opportunità (temporalità).
[16] Oltre
alla pratica nepotistica e all’avidità personale, all’intromissione
scorretta e scandalosa negli affari politici e nelle libertà cittadine
di numerosi comuni italiani, l’attivismo universalistico e teocratico
di Bonifacio si contornò di alcune altre pratiche disdicevoli e molto
criticate dalla chiesa di Francia e da Filippo il Bello, uniti in quel
periodo in uno sforzo di unificazione (nazionalizzazione e
statalizzazione) della società francese. Il culto dell’immagine
personale del papa ancora vivente ne fu un primo aspetto, peraltro del
tutto inedito, introdotto dal Caetani nella storia della Chiesa. Si
fece ritrarre infatti in numerosi dipinti e statue che tuttora si
trovano a Bologna, a Orvieto, Anagni, Firenze e a Roma ovviamente. Si
fece addirittura immortalare da Giotto in un famoso affresco dove
Bonifacio era intento a leggere, dalla Loggia di San Giovanni in
Laterano, la bolla che proclamava il suo Giubileo del 1300.
[17] Come espressamente recita a mo’ di sollecitazione un passo della lauda a Celestino V dedicata «Che farai Pier da Morrone?».
[18] Il 13
dicembre 1294 Papa Angeleri durante un concistoro appositamente
convocato abdica in favore del Caetani intonandone egli medesimo la
formula recitativa, scritta in una bolla specifica a lungo preparata
sotto la sollecita e martellante insistenza del futuro Bonifacio, il
quale gli fornì con solerzia tutte le giustificazioni giuridiche di un
simile, inedito atto. In quella formula Celestino V denuncia il suo
insufficiente sapere, altresì necessario per una conduzione degna del
vicariato di Cristo, il suo desiderio di ritornare all’antica vita
monastica lasciando le chiavi di San Pietro al Caetani, di diversa
caratura e perciò più adatto all’Ufficio.
Successivamente il dimissionario Pietro da Morrone, ritornato
all’eremitaggio nella Maiella, è costretto a fuggire dalla chiesa di
San Germano presso Sulmona, avvertito del proposito di Bonifacio di
catturarlo per timore che intorno a lui si riorganizzasse l’opposizione
al suo sostanziale colpo di Stato. Il progetto di fuga in Oriente fu
però stroncato il 16 maggio del 1295, quando l’Angeleri fu catturato
nella chiesa di Santa Maria di Merino sul Gargano, sita fra Peschici e
Vieste, ad opera di Guglielmo de l’Estendard, connestabile del re
napoletano Carlo d’Angiò. Di lì fu imprigionato nella rocca di Fumone
in Ciociaria, dalla quale non vi uscì se non assassinato per ordine del
Caetani nel 1296.
[19] Al di
là della motivazione simbolica che traeva l’immagine dalla storia di
Roma classica, in una lettera vergata dal Caetani il 13 giugno 1299 si
leggeva: «perché non vi resti nulla, nemmeno la qualifica di città».
Infatti Palestrina perse in quell’occasione il titolo originario di
appartenenza alle sette diocesi suburbicarie di Roma.
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